Quarta parola: ricordati del sabato

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Esodo, 20:8-11 Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa’ tutto il tuo lavoro, ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al SIGNORE Dio tuo; non fare in esso nessun lavoro ordinario, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né lo straniero che abita nella tua città; poiché in sei giorni il SIGNORE fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò il SIGNORE ha benedetto il giorno del riposo e lo ha santificato.

Il testo ebraico gioca sulla vicinanza tra il nome del “giorno del riposo” (shabath שַׁבָּת), il numerale “settimo” (sheviy’y שְׁבִיעִי), la cui radice ha il senso di “completezza, soddisfazione” e anche “giuramento”, e il verbo che significa “cessare, smettere, desistere” (shavath שָׁבַת).

Il comandamento di santificare il settimo giorno, com’è espresso nel libro dell’Esodo (diversamente dall’enunciazione del Deuteronomio, che insiste sul lasciare riposare anche i propri servi e i propri animali), fa esplicito riferimento al riposo di Dio dopo il compimento della creazione, secondo il testo di Genesi, dove lo stesso gioco di parole appare in forma più completa.

Il passo a cui allude il testo si trova all’inizio del secondo capitolo del libro della Genesi, dove è scritto “Così furono compiuti i cieli e la terra e tutto l’esercito loro. Il settimo giorno, Dio compì l’opera che aveva fatta, e si riposò il settimo giorno (vayshboth bayom hasheviy’y וַיִּשְׁבֹּת בַּיֹּום הַשְּׁבִיעִי) da tutta l’opera che aveva fatta. Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò, perché in esso Dio si riposò da tutta l’opera che aveva creata e fatta [mikhol melakhtò asher-ba’rà Elohyim la’asòth, letteralmente: “da tutta l’opera che Dio aveva creato per fare].” (Genesi, 2:2-3).

Nell’enunciazione di questa quarta parola appaiono i due principali termini che si usano in ebraico per parlare del lavoro.

Quando viene comandato di lavorare sei giorni compiendo in essi le nostre opere, il verbo usato nella prima occorrenza del termine nell’originale è ‘avad (עָבַד), una radice molto importante che viene usata per riferirsi in generale al servizio, sia quello a Dio, sia quello a a qualche altro padrone (“schiavitù”).

Mela’khah (מְלָאכָה), il termine che si usa per “lavoro ordinario” è anche quello usato nel passo del secondo capitolo di Genesi che abbiamo appena citato, dove è scritto – traducendo più letteralmente – che il SIGNORE si riposò “da tutta la sua opera” (mikhol mela’khto מִכָּל־מְלַאכְתֹּו ). Con questa parola, che ha la stessa radice della parola che significa “angelo” (mala’kh מַלְאָךְ), si intende un’opera che è finalizzata a uno scopo, com’è finalizzato a uno scopo l’incarico di un angelo per una certa missione. Difatti, alla fine del passo, abbiamo letto che il testo dice proprio che l’opera era stata creata “per fare” (Genesi, 2:3).

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5. L’uomo, maschio e femmina

Seguendo la nostra carrellata sulle schiere della creazione, dopo aver considerato la biosfera in generale, arriviamo a quel particolarissimo organismo che è l’essere umano. Per riconoscerne la peculiarità partiamo, come si dice, da Adamo ed Eva, anzi da prima, da quando cioè Eva non era ancora stata chiamata così.

Nel primo capitolo della Genesi è scritto che, alla fine della sua opera, il sesto giorno della creazione, “Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina.” (Genesi, 1:27).

Notiamo che, prima di dire che Dio creò gli uomini (‘otàm אֹתָֽם complemento oggetto del pronome personale di terza persona plurale) maschio e femmina (zakhàr u-nekevàh זָכָר וּנְקֵבָה) è riaffermato due volte che Dio creò l’uomo (‘otò אֹתֹו, terza persona singolare) a immagine di Dio (betzelem Elohyim בְּצֶלֶם אֱלֹהִים).

In realtà, il proposito di fare l’uomo a immagine di Dio era già stato espresso nel versetto precedente. E la stessa intenzione è ribadita in Genesi 5:1-2, dove il testo aggiunge “li benedisse e diede loro il nome di uomo, il giorno che furono creati”.

Adàm אָדָם, la parola ebraica che traduciamo con uomo, come peraltro il greco ànthropos (ἄνθρωπος), si riferisce all’intera specie che oggi chiamiamo Homo sapiens, comprendendo cioè sia il maschio che la femmina dell’essere umano. In ciò che segue cercheremo di approfondire le ragioni per le quali essere creati a immagine di Dio come specie è intimamente collegato al fatto di essere stati creati maschio e femmina come individui.

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In principio, la parola. Settimo giorno

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[Genesi, 2]
1 Così furono compiuti i cieli e la terra e tutto l’esercito loro.
2 Il settimo giorno, Dio compì l’opera che aveva fatta, e si riposò il settimo giorno da tutta l’opera che aveva fatta.
3 Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò, perché in esso Dio si riposò da tutta l’opera che aveva creata e fatta.

Così furono compiuti i cieli e la terra
La conclusione della cosiddetta “settimana della creazione” è stata sistemata all’inizio di un nuovo capitolo, giusto prima del punto in cui inizia la storia della formazione dell’uomo. Come il primo verso del primo capitolo fa da titolo al resto del capitolo, i primi versi del secondo capitolo anticipano la conclusione di tutta la storia che sta per cominciare e che non si è ancora conclusa, se non per la rivelazione concessa a chi ama Dio e crede alla sua parola.


L’opera di Dio si è infatti conclusa in sei giorni, ma non è scritto da nessuna parte che noi uomini siamo già arrivati alla conclusione di quest’opera. L’apostolo Paolo, al contrario, parlando di se stesso afferma chiaramente: “non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù” (Filippesi, 3:12). D’altra parte, nemmeno sta scritto da qualche parte che il sesto giorno sia già concluso e che noi siamo entrati nel settimo giorno, di cui parla questo verso, il giorno cioè in cui i cieli e la terra sono stati compiuti.
L’affermazione del compimento dei cieli e della terra con cui inizia questo nuovo capitolo ha causato molti fraintendimenti e una grave separazione tra uomini di scienza e uomini di fede. La lettura di questo e di altri testi sacri senza la rivelazione che viene dalla totalità della parola di Dio, ha portato gli studiosi dell’età moderna a un equivoco che dura fino ad oggi, alla convinzione cioè che la Bibbia ci dica che ciò che è stato creato ed è sotto i nostri occhi è stato creato durante una divina settimana che ha preceduto la nostra storia, una settimana durante la quale le cose sono state create in modo da non cambiare più. Fenomeni reali come le macchie solari, le esplosioni delle supernovae, le trasformazioni delle nebulose che ne derivano, e anche, sulla Terra, i cambiamenti delle specie dei diversi organismi vegetali ed animali, così come sono stati comprovati dai reperti fossili e dalla biogeografia, sono diventati pietre di inciampo per la fede nelle divina ispirazione delle Scritture.
La Bibbia però non ci dice che le cose create siano state create per rimanere fisse com’erano. Davide ha anzi scritto: “il mio aiuto viene da [ed è assieme a] Colui che è [il SIGNORE] che fa i cieli e la terra” (Salmi, 121:2). Il testo usa proprio il tempo presente (esriy me-yim YHWH ‘oseh shamayim va’arez עֶזְרִי מֵעִם יְהוָה עֹשֵׂה שָׁמַיִם וָאָֽרֶץ), come se il lavoro fosse ancora in corso. Ed effettivamente, dal punto di vista del nostro bisogno, possiamo ben dire che l’opera della creazione non è ancora finita e che anzi c’è ancora tanto da fare. Se da una parte è vero quello che lo stesso Davide scrive in un altro salmo, dove afferma: “Il SIGNORE è il mio pastore, nulla mi manca” (Salmi, 23:1), dall’altra vediamo che siamo invece ancora mancanti in tante cose. La perfezione non è di questa vita, anche se è in questa vita che dobbiamo sforzarci di ottenerla (Matteo, 5:48). Dobbiamo ancora essere perfezionati, altroché se lo dobbiamo! Giacomo al principio della sua lettera scrive a tutta la chiesa: “Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate, sapendo che la prova della vostra fede produce costanza. E la costanza compia pienamente l’opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti” (Giacomo, 1:3-4).
Durante l’ultima cena, dopo aver parlato con i suoi discepoli di quello che stava per succedere, Gesù ha detto loro: “ho ancora molte cose da dirvi; ma non sono per ora alla vostra portata” (Giovanni, 16:12). C’era ancora qualcosa che il Figlio dell’uomo doveva fare perché l’opera di Dio fosse veramente compiuta e noi uomini potessimo entrare alla presenza del Padre. È stato infatti solo il giorno dopo, sulla croce, che Gesù, prima di rendere lo spirito, ha anche lui affermato: “È compiuto” (Giovanni, 19:30). Ma anche il sacrificio che Cristo ha compiuto sulla croce non è efficace per noi se non crediamo che in quel sacrifico l’opera di Dio è stata veramente compiuta e non impariamo a vivere con questa certezza.
Per essere discepoli di Gesù dobbiamo prendere anche noi ogni giorno la nostra croce, scegliendo cioè quello che naturalmente tenderemmo a rifiutare (Matteo, 10:38 e parall.; Giovanni, 21:18). Gesù ci ha detto di prendere la nostra croce, perché ogni giorno sta a noi fare diventare nostra la scelta di obbedienza che Cristo ha compiuto per darci un esempio. In questo modo il compimento dell’opera di Dio si realizza anche nella nostra vita, come si è realizzato in quella di Cristo: per amore, cioè non per forza, né per obbligo, ma per lo Spirito del Signore (Zaccaria, 4:6).

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In principio, la parola. Sesto giorno

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Genesi 1:24 Poi Dio disse: «Produca la terra animali viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e animali selvatici della terra, secondo la loro specie». E così fu.
25 Dio fece gli animali selvatici della terra secondo le loro specie, il bestiame secondo le sue specie e tutti i rettili della terra secondo le loro specie. Dio vide che questo era buono.
26 Poi Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza, e abbiano dominio sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».
27 Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina.
28 Dio li benedisse; e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra, rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove sulla terra».
29 Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che fa seme sulla superficie di tutta la terra, e ogni albero fruttifero che fa seme; questo vi servirà di nutrimento.
30 A ogni animale della terra, a ogni uccello del cielo e a tutto ciò che si muove sulla terra e ha in sé un soffio di vita, io do ogni erba verde per nutrimento». E così fu.
31 Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono. Fu sera, poi fu mattina: sesto giorno.

Poi Dio disse: Produca la terra animali viventi secondo la loro specie, bestiame, rettili e animali selvatici della terra, secondo la loro specie.
Dopo il pullulare di vita animale prodotto dalle acque che sono sotto il cielo, tocca ora alla terra produrre la vita. Non si tratta questa volta di un pullulare, bensì di un “far uscire”, con lo stesso verbo usato prima (Genesi, 1:12) per descrivere la produzione, sempre da parte della terra, della vegetazione.
Come gli animali acquatici sono il prodotto dell’ambiente nel quale devono vivere e mostrano nelle loro forme le proprietà dell’acqua, così anche quelli terrestri sono fatti in modo da muoversi sulla terra. Riappaiono così e si perfezionano le zampe articolate in ginocchia e caviglie che avevano fatto la loro comparsa in alcuni animali marini e negli uccelli.
La parola bestiame – che in italiano fa forse troppo pensare agli animali domestici – può essere meglio tradotta con un generico quadrupedi (come difatti traduce la Septuaginta). Il termine originale (behemah בְּהֵמָה) è usato altrove anche per indicare bestie selvatiche anche violente. Al plurale (ma con il verbo al singolare), lo stesso nome (behemoth, a volte tradotto “ippopotamo”) appare nel libro di Giobbe (40:15) – dove si parla anche del leviatano, a volte reso con “coccodrillo”, per riferirsi a una creatura la cui forza l’uomo da solo non può domare. Detto per inciso, un analogo della coppia Leviathan/Behemoth ritorna – nello stesso ordine – alla fine della Bibbia, nel capitolo 13 dell’Apocalisse, come “bestia che esce dal mare”/“bestia che esce dalla terra”.
Il termine ebraico tradotto con rettili (remes רֶמֶשׂ) si riferisce invece al senso etimologico della parola italiana rettile (dal verbo latino repo che significa “strisciare”) e comprende in generale tutti gli animali che si muovono senza staccarsi visibilmente dal suolo (come verbo, remes è usato anche per riferirsi ad animali marini, forse a quelli che strisciano sul fondo, cfr Salmi, 104:25).

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In principio, la parola. Quinto giorno

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Genesi 1:20 Poi Dio disse: «Producano le acque in abbondanza esseri viventi, e volino degli uccelli sopra la terra per l’ampia distesa del cielo».
21 Dio creò i grandi animali acquatici e tutti gli esseri viventi che si muovono, e che le acque produssero in abbondanza secondo la loro specie, e ogni volatile secondo la sua specie. Dio vide che questo era buono.
22 Dio li benedisse dicendo: «Crescete, moltiplicatevi e riempite le acque dei mari, e si moltiplichino gli uccelli sulla terra».
23 Fu sera, poi fu mattina: quinto giorno.

Poi Dio disse: Producano le acque in abbondanza esseri viventi
Dopo che la terra asciutta è stata popolata di piante e il cielo di astri, è la volta ora delle acque sotto il cielo. Il terzo giorno la terra asciutta aveva prodotto le piante dopo che era stata irrigata dalle acque che si raccolgono da sotto il cielo nel loro viaggio verso i mari (in altre parole: dalla pioggia e dai fiumi), in questo quinto giorno è l’acqua stessa a produrre delle creature viventi.

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In principio, la parola. Quarto giorno

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Genesi 1:14 Poi Dio disse: «Vi siano delle luci nella distesa dei cieli per separare il giorno dalla notte; siano dei segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni;
15 facciano luce nella distesa dei cieli per illuminare la terra». E così fu.
16 Dio fece le due grandi luci: la luce maggiore per presiedere al giorno e la luce minore per presiedere alla notte; e fece pure le stelle.
17 Dio le mise nella distesa dei cieli per illuminare la terra,
18 per presiedere al giorno e alla notte e separare la luce dalle tenebre. Dio vide che questo era buono.
19 Fu sera, poi fu mattina: quarto giorno.

Poi Dio disse:
Continua l’articolazione – logica, più che cronologica – della creazione attraverso la parola. Che nella creazione la cronologia sia un effetto piuttosto che una causa si farà particolarmente evidente in questo quarto giorno, perché è solo dopo che Dio ha fatto il Sole, la Luna e gli altri corpi celesti che si può propriamente parlare di giorni, mesi, stagioni e anni. Continue reading →

In principio, la parola. Terzo giorno

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Genesi 1:9 Poi Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo siano raccolte in un unico luogo e appaia l’asciutto». E così fu.
10 Dio chiamò l’asciutto «terra», e chiamò la raccolta delle acque «mari». Dio vide che questo era buono.
11 Poi Dio disse: «Produca la terra della vegetazione, delle erbe che facciano seme e degli alberi fruttiferi che, secondo la loro specie, portino del frutto avente in sé la propria semenza, sulla terra». E così fu.
12 La terra produsse della vegetazione, delle erbe che facevano seme secondo la loro specie e degli alberi che portavano del frutto avente in sé la propria semenza, secondo la loro specie. Dio vide che questo era buono.
13 Fu sera, poi fu mattina: terzo giorno.

Poi Dio disse
Di nuovo, Dio parla e, attraverso la sua parola, aggiunge ordine a ordine. Qui, come per altro ogni volta che si riferisce alla creazione, il verbo usato (‘amar אָמַר) è l’equivalente del nostro dire. Più che sull’azione di parlare, l’accento è messo su ciò che viene detto, l’ordine dato, il compito da realizzare. In modo che si possa poi dire: “e così fu”.

Le acque che sono sotto il cielo
Iddio ha appena chiamato “la distesa” (raqya’ רָקִיעַ, termine che. come abbiamo visto, si può tradurre anche firmamento, spazio) “cielo” (Genesi, 1:8). Adesso, parlando delle “acque che sono [da] sotto il cielo” (hammayim mitakhat hashamayim הַמַּיִם מִתַּחַת הַשָּׁמַיִם), sta perciò parlando di tutte le acque che sono sotto il firmamento. Non solo delle acque che sono già scese al suolo sotto forma di pioggia, ma anche di quelle che devono ancora scendere, ma che si trovano comunque sotto il firmamento (anche se, sotto forma di vapore, stanno temporaneamente sopra le nostre teste; ma certe volte, per esempio in montagna, possono trovarsi anche sotto di noi).

Dopo aver accennato alle acque che sono sopra il cielo, la Scrittura ci parla ora solo di quelle che sono di sotto, perché abbiamo visto che tra quelle acque e le acque della creazione che sono sotto i nostri occhi, Dio ha messo i cieli come separazione.
Da qui in poi, la parola si concentra sulle cose che stanno sotto i cieli, ma non perché ci dimentichiamo di quelle che sono di sopra. Dobbiamo anzi orientare la nostra mente verso l’alto (come è scritto in Colossesi, 3:1), perché le cose di quaggiù devono diventare come quelle di sopra, affinché la volontà di Colui che ha fatto dei cieli il suo trono possa essere fatta quaggiù come è fatta là sopra (Matteo, 6:10) e anche noi uomini, come fanno le creature celesti, lodiamo il Signore e lo ringraziamo per tutte le cose, secondo quella che è la sua espressa volontà per coloro che sono in Cristo (1Tessalonicesi, 5:18).

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In principio, la parola. Secondo giorno

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Genesi 1:6 Poi Dio disse: «vi sia una distesa tra le acque, che separi le acque dalle acque».
7 Dio fece la distesa e separò le acque che erano sotto la distesa dalle acque che erano sopra la distesa. E così fu.
8 Dio chiamò la distesa «cielo». Fu sera, poi fu mattina: secondo giorno.

 

Poi Dio disse

In realtà, il testo originale non dice “poi”, ma semplicemente “e”. Anche se il ve ebraico ha un senso più ricco del nostro “e”, non ha per questo la connotazione decisamente temporale del nostro poi. Ci dice che stiamo seguendo l’articolazione dei giorni della creazione: alla luce del giorno che abbiamo appena visto si aggiunge la luce che stiamo per vedere. La luce, cioè la chiarezza che viene dalla parola di Dio.

vi sia una distesa

Dio attraverso la sua parola mette ordine nella sua creazione. Come aveva detto “sia luce”, così ora dice “[vi] sia [una] distesa”. Come vedremo tra breve, anche questa volta il suo scopo è separare, distinguere, fare chiarezza.

Il termine ebraico che traduciamo con distesa (raqiy’a רָקִיעַ) viene da una radice che significa “pestare” (per esempio, i piedi). Distesa indica perciò un’estensione dotata di una certa solidità. Probabilmente per questo le traduzioni più antiche usano la parola firmamento, che fa pensare a qualcosa di fermo, fisso. La traduzione migliore sarebbe proprio il termine spazio, nella sua accezione moderna, quella che usiamo in espressioni come conquista dello spazio o spazio interstellare.

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1. I cieli dei cieli

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“I cieli dei cieli” (shmey ha-shamayim שְׁמֵי הַשָּׁמַיִם) è un’espressione che appare varie volte nella Sacre Scritture ebraiche.  “Ecco, al SIGNORE tuo Dio appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e tutto ciò che essa contiene…” (Deuteronomio, 10:14). “Tu, tu solo sei il SIGNORE! Tu hai fatto i cieli, i cieli dei cieli e tutto il loro esercito, la terra e tutto ciò che è sopra di essa, i mari e tutto ciò che è in essi, e tu fai vivere tutte queste cose, e l’esercito dei cieli ti adora.” (Nehemia, 9:6). Anche Salomone, il giorno dell’inaugurazione del Tempio di Gerusalemme ha nominato i cieli e i cieli dei celi (dicendo che pur nella loro immensità non possono contenere il SIGNORE, tanto meno lo avrebbe potuto fare la casa che gli aveva costruita! 1Re, 8:27). Continue reading →

Terza parola: non profanare il nome del SIGNORE

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Esodo, 20:7 Non pronunciare il nome del SIGNORE, Dio tuo, invano; perché il SIGNORE non riterrà innocente chi pronuncia il suo nome invano.

La preghiera insegnata da Gesù ai suoi discepoli (Matteo 6:9-13 e Luca 11:2-4) comincia con la richiesta che il nome del Padre sia santificato. Questa richiesta in qualche modo riassume tutte e tre le prime parole del Decalogo che abbiamo letto fin qui.


Abbiamo già parlato (e ci torneremo ancora) di come i Dieci comandamenti vengano ripresi dalla preghiera che chiamiamo il Padre nostro, perché, come abbiamo visto, questa trasformazione esprime molto bene il senso del compimento (o perfezione, in greco i due termini si equivalgono) della Legge da parte di Gesù. Secondo quanto promesso nel passo del profeta Geremia che abbiamo gia citato (“ma questo è il patto che farò con la casa d’Israele, dopo quei giorni, dice il SIGNORE: io metterò la mia legge nell’intimo loro, la scriverò sul loro cuore, e io sarò loro Dio, ed essi saranno mio popolo”, Geremia, 31:33), la Legge è stata scritta nei nostri cuori e, da Cristo in poi, siamo noi stessi che chiediamo a Dio che sia adempiuto ciò che, prima, attraverso Mosè, Israele aveva ricevuto l’ordine di fare.

Torniamo ora al comandamento di non profanare il nome del SIGNORE.

Il nome è la parte del discorso che aggancia il verbo a un soggetto o a un oggetto, qualcosa di più o meno stabile e complesso che viene comunque considerato nella sua permanenza. I nomi comuni si riferiscono a una classe di persone o di cose che normalmente comprendono innumerevoli individui. I nomi propri servono invece a riferirisi a un singolo individuo (anche se possono essere molto comuni, perché il contesto normalmente aiuta a superare l’ambiguità generata dall’omonimia). Quando Mosè scrive “Ascolta, Israele: Il SIGNORE, il nostro Dio, è l’unico SIGNORE” (Deuteronomia 6:4), intende certamente anche sottolineare l’unicità del soggetto a cui si riferisce il nome del SIGNORE.

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