Il libro dei Proverbi, scritto dal re Salomone per dare istruzione e accorgimento alle future generazioni, è pieno di importanti e accorate esortazioni, alcune delle quali mettono in questione gli aspetti più profondi della vita interiore, in particolare di quella degli intellettuali. Come il consiglio da cui è tratto il titolo di questo articolo, al contempo di fondamentale importanza per la nostra felicità e praticamente impossibile da seguire.
Proverbi 23:23 Acquista verità e non la vendere, acquista sapienza, istruzione e intelligenza.
Che cos’è verità?
È la domanda che Pilato ha posto a Gesù nella conversazione avuta con lui dopo che i capi dei giudei glielo ebbero consegnato: “… Pilato rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il re dei giudei? Gesù gli rispose: Dici questo di tuo, oppure altri te l’hanno detto di me? Pilato gli rispose: Sono io forse giudeo? La tua nazione e i capi dei sacerdoti ti hanno messo nelle mie mani; che cosa hai fatto? Gesù rispose: Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui. Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici, sono re; io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce. Pilato gli disse: Che cos’è verità?” (Giovanni 18:33-38a).
Quella di Pilato era una domanda su di un problema filosofico da sempre molto dibattuto. I filosofi più antichi cercavano la verità come origine di tutte le cose, Platone come l’invisibile struttura matematica che sta dietro le molteplici apparenze. Aristotele aveva formulato una precisa definizione di verità come adeguazione delle proposizioni ai fatti di cui parlano, con la quale non erano però d’accordo gli stoici, che distinguevano la verità, come connessione tra le proposizioni, dal semplice essere vero, come attributo di una proposizione. Anche altri movimenti filosofici avevano fatto circolare idee diverse sulla verità, che rimandavano a un diverso modo di intenderla, all’interno di diversi sistemi e stili di pensiero. Non solo, ma se ai filosofi importava di definirla, e ai logici di calcolarne il valore da attribuire alle proposizioni, ai poeti e gli artisti importava di esprimerla, o di rappresentarla. Così, tra gli intellettuali, si è sempre fatto un gran parlare di verità e ci è sempre stato un grande interrogarsi su questo concetto.
Chi è della verità?
Ma Gesù non si è lasciato coinvolgere dalla questione filosofica sollevata da Pilato e ha evitato la conversazione che ne sarebbe seguita, dalla quale chiunque di noi avrebbe potuto sperare di avere salva la vita.
Difatti, turbato dal silenzio di Gesù, che è continuato anche dopo che l’aveva fatto flagellare, “Pilato gli disse: Non mi parli? Non sai che ho il potere di liberarti e il potere di crocifiggerti?” (Giovanni, 19:10). Ma Gesù non aveva mai parlato per ottenere qualche vantaggio. Questo, aveva detto, era proprio il criterio per riconoscere la verità. O meglio, per riconoscere chi è dalla verità.
Questo criterio l’aveva espresso qualche tempo prima, parlando con i farisei che si domandavano da dove venissero i suoi insegnamenti, dicendo loro: “La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato. Se uno vuol fare la volontà di lui, conoscerà se questa dottrina è da Dio o se io parlo di mio. Chi parla di suo cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che l’ha mandato, è vero (alethès ἀληθής) e non vi è ingiustizia in lui” (Giovanni, 7:16-18).
Questa è quindi la domanda giusta. Non: cos‘è verità? Ma piuttosto: chi è dalla verità? Chi è vero? E a questa domanda Gesù ha detto che si può rispondere solo se il nostro scopo è di mettere in pratica la verità, facendo la volontà di Dio e non la nostra, cioè, in sostanza, solo se noi stessi apparteniamo alla verità. È quanto Gesù ha ripetuto anche a Pilato, quando gli ha detto che chiunque è dalla verità ascolta la voce della verità, perché sa riconoscerla, come le pecore – aveva detto in precedenza – riconoscono la voce del loro pastore (Giovanni, 10:3-16).
La voce è l’identità della persona che si manifesta nelle parole che questa persona dice. Quello che noi diciamo, tutte le nostre parole (e le azioni che si collegano alle nostre parole confermando il loro senso), tutto rimanda a un significato ultimo, a quello cioè che stiamo cercando di ottenere con le nostre parole e le nostre azioni. La nostra vera intenzione, cioè quello che ci interessa veramente. Questa realtà personale e individuale è ciò che si esprime nella voce. Se conosciamo il SIGNORE come lo conoscono le sue pecore, sappiamo che quello che vuole per noi è soltanto il bene (Salmi, 23; Giovanni, 10:11-15). Conosciamo la sua voce e la ascoltiamo.
Ma se non apriamo il nostro cuore all’amore della verità, facilmente saremo ingannati da chi può prendere anche l’apparenza di un agnello (2Tessalonicesi, 2:10; Apocalisse, 13:11).
Riconosceremo la verità solo se davvero cercheremo la verità, cioè solo se il nostro ultimo scopo sarà quello di metterla in pratica per agire in Dio (Giovanni, 3:21). Non quello di farcene belli per essere apprezzati dagli altri. Solo così, cioè solo se il nostro vero desiderio sarà di conoscere e servire Dio, la nostra fede sarà veramente fede in Dio.
Cercare l’approvazione degli altri uomini ci porta ad andare nella direzione opposta a quella in cui occorre camminare per conoscere la verità. Infatti, sempre rimproverando i farisei, Gesù ha detto chiaramente che il bisogno di essere approvati dagli uomini ci rende impossibile credere in Dio: “Io sono venuto nel nome del Padre mio, e voi non mi ricevete; se un altro verrà nel suo proprio nome, quello lo riceverete. Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri e non cercate la gloria che viene da Dio solo?” (Giovanni, 5:43-44).
Se cerchiamo la lode che viene da Dio (1Corinzi, 4:5), non dobbiamo affaticarci a dimostrare niente, perché Dio conosce già tutto, e cerca solo la nostra fedeltà e la purezza del nostro cuore (Romani, 2:29). Se invece il nostro scopo è fare bella figura, allora sì che dovremo affaccendarci in tante faccende, e dare da fare anche agli altri (Galati, 6:12).
Per questo, ai suoi discepoli Gesù dice apertamente di non fare come i farisei, che “amano i primi posti nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe, i saluti nelle piazze ed essere chiamati dalla gente: rabbì! Ma voi non vi fate chiamare rabbì; perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. Non chiamate nessuno sulla terra vostro padre, perché uno solo è il Padre vostro, quello che è nei cieli. Non vi fate chiamare guide, perché una sola è la vostra guida, il Cristo; ma il maggiore tra di voi sia vostro servitore. Chiunque si innalzerà sarà abbassato e chiunque si abbasserà sarà innalzato.” (Matteo, 23:8-12).
Il principio della scienza
I filosofi e gli scienziati sono interessati a conoscere la verità, intendendola per lo più come una realtà esterna, oggettiva, esprimibile in parole o in formule dotate di senso. La scienza moderna è il risultato di questo sforzo collettivo di conoscere la verità in modo oggettivo e condivisibile. Un notevole sforzo, che ha certamente prodotto grandi risultati in termini di chiarezza ed efficienza.
Ma abbiamo visto che per la Bibbia, la scienza (la conoscenza o anche la coscienza, in ebraico è sempre la stessa parola: da’ath דַּעַת) è qualcosa di diverso dalla scienza come la intendiamo oggi noi. Già il primo capitolo del Libro dei Proverbi ci dice che “il principio della scienza è il timore (cioè il rispetto, la considerazione; il termine ebraico per “timore” – yir’ah יִרְאָה – è molto vicino a quello che significa “vedere” – ra’ah רָאָה) del SIGNORE” (Proverbi, 1:7a). E, come abbiamo già visto in molte altre occasioni, quello del SIGNORE, cioè YHWH יְהֹוָה, è un nome proprio che si riferisce a una persona vera, anzi infinitamente più vera di tutti e di ciascunodi noi, e all’unica autorità che governa il cielo e la terra, dall’eternità e per l’eternità.
Secondo la Bibbia, il principio della scienza consiste quindi nell’avere considerazione della realtà personale di Dio: la persona che comprende tutto ciò che esiste, e con la sua conoscenza unifica tutta la realtà in un insieme coerente. La scienza, per la Bibbia consiste cioè nel sapere che la coerenza della realtà (quella per cui la possiamo studiare) discende da questa persona, che ci ha fatto persone a sua immagine e somiglianza, e che desidera che entriamo in un rapporto personale con lui. Cosa che, per coloro che non hanno creduto, è semplicemente pazzia.
Così, come abbiamo già visto, per quanto questo possa sembrare un’affermazione esagerata, per la Bibbia la verità non è qualcosa, ma qualcuno: il SIGNORE, Colui che è. E la sapienza sta nel riconoscerlo sempre e dovunque. “Confida nel SIGNORE con tutto il cuore e non ti appoggiare sul tuo discernimento. Riconoscilo in tutte le tue vie ed egli appianerà i tuoi sentieri. Non ti stimare saggio da te stesso; temi il SIGNORE e allontanati dal male.” (Proverbi, 3:5-7).
Riconoscere il SIGNORE in tutte le nostre vie, conoscerlo cioè come Padre e unico vero Dio (il verbo ebraico che traduciamo con riconoscere – yada’ יָדַע è ancora lo stesso che traduciamo con conoscere) è la vita eterna (Giovanni, 17:3).
Per questo, appunto, piuttosto che domandarsi cosa sia la verità, è giusto chiedersi chi sia della (o per la) verità. O, addirittura, chi sia la verità… Ai suoi discepoli, che gli chiedevano di guidarli per la via che porta al Padre, cioè all’unico vero Dio e alla vita eterna, Gesù ha infatti risposto: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.” (Giovanni 14:6).
Le parole che Gesù ci ha dette da parte del Padre “sono spirito e vita” (Giovanni, 6:63). Se le ascoltiamo e le viviamo conosciamo la verità e la verità ci rende liberi (Giovanni, 8:23). Non è una cosa che può renderci liberi, solo qualcuno che è veramente libero può dare la libertà. “Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi.” (Giovanni, 8:36).
La Bibbia ci consiglia di acquistare verità facendo conoscenza di Dio attraverso la sua parola. E ci fa capire che la verità non si raggiunge con la completa descrizione di un oggetto o di un sistema di oggetti, come se questo oggetto fosse una realtà esterna, una cosa o un insieme di cose indipendenti dalla nostra vita e dalle nostre azioni. Gesù ci ha spiegato che, al contrario, la verità o si mette in pratica nella nostra vita, o non vale niente (“… chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica sarà paragonato a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. La pioggia è caduta, sono venuti i torrenti, i venti hanno soffiato e hanno fatto impeto contro quella casa, ed essa è caduta e la sua rovina è stata grande.” Matteo, 7:26-27).
“Perché – spiega Paolo – la lettera uccide, invece lo Spirito vivifica.” (2Corinzi, 3:6). Ed è solo lo Spirito che ci fa conoscere Dio come Colui che ci conosce, e sa tutto di noi, dei nostri genitori, dei loro genitori, dei nostri figli, e dei loro figli. Di quello che facciamo e di quello che non facciamo, di quello che diciamo e anche di quello che non diciamo (Salmi, 139; Ecclesiaste, 10:20).
Si tratta di una conoscenza che non si acquista sui libri (neanche studiando la Bibbia, se non ci assiste lo Spirito Santo), né con un nostro sforzo logico o mentale. Non la si compra con i nostri soldi, né con i soldi dei nostri genitori, né con il nostro studio o il nostro lavoro; ma è data per grazia a chi impara da Gesù ad essere mansueto e umile di cuore. Come un giorno lui stesso ha esclamato, giubilando nella gloria di Dio: “… ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così ti è piaciuto. Ogni cosa mi è stata data in mano dal Padre mio; e nessuno conosce il Figlio, se non il Padre; e nessuno conosce il Padre, se non il Figlio, e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché io sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre; poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.” (Matteo, 11:25-30).
Acquistare e vendere
Riguardo alla sapienza, Salomone aggiunge anche un altro principio, dice infatti: “il principio della sapienza è: acquista la sapienza; sì, a costo di quanto possiedi, acquista l’intelligenza.” (Proverbi, 4:7). Ma cosa significa, spiritualmente, acquistare? Qual è il senso di questa azione?
Quando acquistiamo qualcosa, certamente dimostriamo con questo atto che per noi – almeno al momento dell’acquisto – quella cosa ha un valore superiore a ciò che diamo in cambio per averla. Lo stesso vale, viceversa, quando stiamo vendendo qualcosa: significa che diamo alla cosa che vendiamo un valore inferiore a quello della cosa per cui la vendiamo. L’esempio biblico più chiaro a questo riguardo è certamente quello della compravendita del diritto di primogenitura di cui ci parla il libro della Genesi, quando racconta di quel giorno che Esaù è tornato dalla caccia stanco e affamato: “Esaù disse a Giacobbe: Dammi per favore da mangiare un po’ di questa minestra rossa, perché sono stanco – perciò fu chiamato Edom [che in ebraico significa “rosso”]. Giacobbe gli rispose: Vendimi prima di tutto la tua primogenitura. Esaù disse: Ecco, io sto morendo; a che mi serve la primogenitura? Giacobbe disse: Prima, giuramelo. Esaù glielo giurò e vendette la sua primogenitura a Giacobbe. Allora Giacobbe diede a Esaù del pane e della minestra di lenticchie. Egli mangiò e bevve; poi si alzò, e se ne andò. Fu in questo modo che Esaù disprezzò la primogenitura.” (Genesi, 25:30-34).
Inoltre, di solito, quando vendiamo qualcosa, diamo via ciò che è nostro, qualcosa di cui possiamo disporre privatamente all’interno di un certo limitato orizzonte di azione, mentre otteniamo in cambio qualcosa di pubblico, qualcosa che, almeno nella nostra immaginazione, ci permette di valicare quell’orizzonte. Normalmente, ciò che otteniamo in cambio del bene che abbiamo venduto è una merce di scambio – tipicamente denaro – che possiamo spendere idealmente dappertutto. A questo riguardo, l’esempio biblico più chiaro è quello della parabola del figlio che andò da suo padre e gli disse :”Padre, dammi la parte dei beni che mi spetta, e (…) messa insieme ogni cosa, partì per un paese lontano e vi sperperò i suoi beni, vivendo dissolutamente.” (Luca, 15:12-13).
Al suo ritorno, il figlio riacquista – per grazia – quell’appartenenza al padre che aveva perso quando l’aveva scambiata con il denaro che gli spettava come eredità, cioè quando l’aveva in qualche modo venduta.
Quello che la parola di Dio ci consiglia di acquistare, o di riacquistare, è insomma qualcosa di privato e di intimo, qualcosa che non si trova sul mercato e non può essere comprato con i soldi. Come scrive il profeta Isaia: “O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro venite, comprate e mangiate! Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte! Perché spendete denaro per ciò che non è pane e il frutto delle vostre fatiche per ciò che non sazia? Ascoltatemi attentamente e mangerete ciò che è buono, gusterete cibi succulenti!” (Isaia, 55:1-2).
Anche Gesù invita la chiesa ad acquistare da lui cose che non ci serviranno in questo mondo, ma che sono indispensabili per la nostra vita eterna: “…io ti consiglio di comperare da me dell’oro purificato dal fuoco, per arricchirti; e delle vesti bianche per vestirti e perché non appaia la vergogna della tua nudità; e del collirio per ungerti gli occhi e vedere.” (Apocalisse, 3:18).
E ci ricordiamo delle cinque vergini stolte della parabola raccontata da Gesù verso la fine del suo servizio terreno, che non avevano acquistato l’olio per le loro lampade e che non ebbero poi più tempo per andarlo a comprare (Matteo, 25:1-12).
Riguardo all’acquistare e al vendere, Gesù ha raccontato anche altre due brevi parabole, che parlano proprio di questo cambio di priorità dal naturale allo spirituale: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo, che un uomo, dopo averlo trovato, nasconde; e, per la gioia che ne ha, va e vende tutto quello che ha, e compra quel campo. Il regno dei cieli è anche simile a un mercante che va in cerca di belle perle; e, trovata una perla di gran valore, se n’è andato, ha venduto tutto quello che aveva, e l’ha comperata.” (Matteo, 13:44-46).
Queste due similitudini parlano del regno di Dio, una realtà interiore (Luca, 17:21) che si acquista dandole il valore che ha, riconoscendo cioè che questo valore sopravvanza tutto quello che possiamo avere di trafficabile sulla terra.
È interessante che il tesoro nascosto rimanga nascosto anche dopo essere stato trovato, perché è scritto che chi lo ha trovato nascosto ha venduto quello che aveva per comprare il campo, ma non ha poi venduto il tesoro: l’ha tenuto nascosto. Il testo originale dice ékrypsen ἔκρυψεν, e fa pensare che l’abbia anzi ulteriormente interiorizzato; si tratta infatti del verbo che ha la stessa radice krypt, altrove usata per dire che il Padre è “nel segreto” (Matteo 6:18, dove è scritto en tòi kryptòi ἐν τῷ κρυπτῷ).
Per questo, il principio della sapienza è “acquista sapienza”, perché la sapienza sta proprio nel dare valore alle cose spirituali, segrete, intime e interiori piuttosto che a quelle materiali, pubbliche ed esteriori: alle cose invisibili che durano in eterno piuttosto che a quelle che passano con questa vita. E nel riconoscere che il nostro vero bisogno è di queste cose (Luca, 10:41-42) e che di queste cose non ne abbiamo mai abbastanza (Proverbi, 3:7; Matteo, 5:3).
“Adoperatevi non per il cibo che perisce, ma per il cibo che dura in vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà; poiché su di lui il Padre, cioè Dio, ha apposto il proprio sigillo.” (Giovanni, 6:27)
La sapienza che viene dall’alto
Nella Bibbia, e in particolare nel libro dei Proverbi, la scienza (da’ath דַּעַת), la sapienza (khokmah חָכְמָה) e l’intelligenza (thavun תָּבוּן) vanno senz’altro assieme, anzi vengono tutte dalla stessa fonte. Salomone, infatti, la stessa cosa che dice del principio della scienza la dice anche del principio della sapienza: “il principio della sapienza è il timore del SIGNORE, e riconoscere il Santo è l’intelligenza.” (Proverbi 9:10). Altrove, sempre nei Proverbi, è anche scritto che “quelli che cercano il SIGNORE comprendono ogni cosa.” (Proverbi, 28:5). La ricerca del volto del SIGNORE di cui scriveva Davide (Salmi, 27:8) e la conoscenza di Dio di cui parlava suo figlio Salomone è la conoscenza che Gesù è venuto a portarci (Giovanni, 17:6-7 e 25-26). Egli stesso ha detto che conoscere Dio di questa conoscenza personale che si ha in Cristo è la vita eterna (Giovanni 17:3).
Se abbiamo questa conoscenza – che ci può venire solo dalla stessa parola di Dio – possiamo anche comprendere per esperienza cosa sia il timore del SIGNORE (e non conoscerlo cioè solo come “un comandamento imparato dagli uomini” Isaia, 29:13). Altrimenti, le nostre conoscenze sono completamente inutili, e possono anzi rivelarsi addirittura un danno per noi. Perché “quel servo che ha conosciuto la volontà del suo padrone e non ha preparato né fatto nulla per compiere la sua volontà, riceverà molte percosse; ma colui che non l’ha conosciuta e ha fatto cose degne di castigo, ne riceverà poche. A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto; e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà.” (Luca, 12:47-48).
Giacomo scrive: “Fratelli miei, non siate in molti a fare da maestri, sapendo che ne subiremo un più severo giudizio” (Giacomo, 3:1). E distingue due tipi di sapienza: “Chi fra voi è saggio e intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine e saggezza. Ma se avete nel vostro cuore amara gelosia e spirito di contesa, non vi vantate e non mentite contro la verità. Questa non è la sapienza che scende dall’alto; ma è terrena, animale e diabolica. Infatti dove c’è invidia e contesa, c’è disordine e ogni cattiva azione. La sapienza che viene dall’alto, anzitutto è pura; poi pacifica, mite, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia.” (Giacomo, 3:13-17).
Questa sapienza, che possiamo ricevere solo da Dio credendo alla sua parola (Giacomo, 1:5-6), non può e non deve restare qualcosa di teorico. Se la nostra sapienza è da Dio e la nostra conoscenza è vera conoscenza del vero Dio, sapienza e conoscenza devono per forza diventare anche obbedienza. Acquistare verità significa acquistare un rapporto di fiducia con Dio attraverso Gesù. Nel quale cerchiamo che sia fatta la volontà di Dio e non la nostra, perché quello che ci importa è di essere trovati fedeli (1Corinzi, 4:2).
Questo è il principio della giustificazione per fede, di cui ha varie volte parlato l’apostolo Paolo e che, come abbiamo visto, è stato espresso da Gesù quando ha risposto ai farisei sull’origine del suo insegnamento (Giovanni, 7:17-18). Siamo giustificati non per le cose che facciamo, ma per la ragione per cui le facciamo. Ovviamente, se non facciamo le cose che dobbiamo fare o facciamo le cose che non dobbiamo fare, non siamo affatto giustificati: la fede senza opere è morta (Giacomo, 2:17 e 26). Ma quelle che ci rendono giusti agli occhi di Dio non sono le cose che facciamo (o che diciamo), ma piuttosto le nostre vere intenzioni nel farle e nel dirle, quelle vere intenzioni che solo Dio conosce.
Siamo resi giusti dal nostro desiderio di glorificare Dio, se è questo il desiderio che muove le nostre azioni e le nostre parole. Siamo veramente giusti se, e solo se, cerchiamo veramente la gloria di Colui che ci ha mandato, e in lui davvero ci dimentichiamo della gloria nostra. Come ha fatto Gesù.
Se vogliamo seguirlo dobbiamo anche noi dimenticarci del nostro nome e cercare soltanto la gloria delle nome del SIGNORE, di colui che ci ha fatti e che prima di noi ha fatto il cielo e la terra, perché potessimo vivere e respirare, mangiare, camminare, pensare, parlare, e anche leggere e scrivere…
Chi guarirà la scienza?
La scienza, in effetti, non è stata sempre come la conosciamo oggi, considerata da molti un’alternativa alla fede nella parola di Dio, se non proprio la sua diretta antagonista.
Questa situazione, peraltro, non si deve tanto agli scienziati, alle loro scoperte o alle loro teorie, quanto piuttosto ad alcuni divulgatori di scienza che – come Richard Dawkins o, per rimanere in Italia, Margherita Hack – si sono fatti paladini di una specie di anti-crociata dell’ateismo scientifico (detto tra parentesi, l’effficacia di questa crociata è dovuta anche alle posizioni spesso inutilmente letteraliste di molti cristiani, ma non ne parliamo adesso).
Nell’antichità, invece, e fino all’altro ieri dell’epoca moderna, la situazione era abbastanza diversa, e non necessariamente per la paura di essere condannati a morte. Salomone, oltre che un poeta ispirato da Dio era anche uno scienziato. Dei filosofi greci molto pochi si professavano atei. Luca l’evangelista era anche un medico. Johannes Kepler, Galileo Galilei e Isaac Newton erano credenti (Newton era anche uno studioso della Bibbia). Lo stesso Charles Darwin conosceva e rispettava le Sacre Scritture. Anche solo questi nomi basterebbero a dimostrare che scienza e fede in Dio e nella sua parola non erano considerati affatto in contraddizione l’una con l’altra. Ma ce ne sono tantissimi altri: Nicole Oresme, Robert Boyle, Leonhard Euler, Bernhard Riemann, James Clerk Maxwell, Lord Kelvin, per nominare giusto i più famosi e i più devoti.
Anche oggi il contrasto teorico tra scienza e fede sta più che altro a livello dei mass-media, cioè molto in superficie. In realtà, sia la filosofia che la scienza contemporanea hanno dovuto riconoscere che l’idea positivista di una scienza che può spiegare tutto e della verità come corrispondenza di un insieme di proposizioni a un insieme di oggetti è totalmente inadeguata e porta a gravi paradossi. Sia perché le parole fanno sempre parte di un contesto, sia perché anche le cose non sono mai realmente separabili le une dalle altre. Sia perché anche le parole sono fatti e anche i fatti parole e ci muoviamo in un ambiente culturale e naturale che ci influenza ma che anche noi contribuiamo a influenzare…
Dalla fisica quantistica e relativistica alla psicologia della percezione, dalla scienza del caos e dei fenomeni complessi alla micro-sociologia e alle neuro-scienze, è ovunque diventato sempre più chiaro che il rapporto tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto non è affatto lineare e assoluto, ma sempre relativo ed estremamente complesso. E che il sistema di riferimento che si poteva utilizzare in scienza e in filosofia non era quell’assoluto di cui si era parlato fino al romanticismo. Che cioè, in altri termini, Dio, neanche intendendolo filosoficamente come la totalità della natura, non poteva essere identificato con nessuna realtà visibile e misurabile.
La neuropsicologia cognitiva, studiando i processi di apprendimento come interazione tra sistemi interni al cervello che dialogano tra di loro e con l’espressione di altri sistemi, sia interni al cervello di altri organismi, sia appartenenti ad altre sfere naturali o artificiali, ha prodotto un’immagine della conoscenza molto più palpitante di vita di quella a cui si pensava in passato. La menzogna inizia a poter essere descritta come disconnessione dal tessuto della realtà e ricollegata a ciò che la Bibbia chiama illusione, o idolatria. E la verità, ,intesa come la totalità del tessuto delle connessioni, diventa una realtà che nessuno può arrogarsi il privilegio di comprendere con la sua mente naturale, perché, logicamente, nessuno può uscire da questo tessuto per osservarlo dal di fuori.
Anche in filosofia e in letteratura, in musica e in arte, negli ultimi secoli e in particolare negli ultimi decenni si è assistito a una progressiva e, a volte, dolorosa, presa di coscienza dei limiti della nostra conoscenza, dalla quale è a più riprese partita la ricerca di un nuovo senso della totalità.
Ma queste tendenze olistiche della filosofia e della scienza, con le loro derive orientaleggianti e mistiche, non stanno di per sé portando gli intellettuali verso la verità di cui ci parla la Bibbia. Se si nomina Dio si tratta infatti per lo più di un dio impersonale, un’illuminazione della quale alla fine, anziché al vero Dio, la gloria va soprattutto all’illuminato. Una gloria che si trasforma sempre più rapidamente in potere mediatico, e anche in denaro.
La parola di Dio riconosce l’importanza della buona reputazione, ma nel farlo la distingue chiaramente dal guadagno che questa può portare. Ci dice infatti che “il nome è da preferirsi alle molte ricchezze; e buona grazia (khen tov חֵן טֹֽוב) all’argento e all’oro” (Proverbi 22:1). La tendenza negli ultimi secoli è stata invece di confondere il più possibile la grazia con le ricchezze, premiando con l’argento e l’oro l’opera degli scienziati, degli artisti e degli intellettuali in genere. Associando la reputazione agli onori e agli agi, e inquinandone così irrimediabilmente il valore.
Se vogliono essere conosciuti, filosofi, scienziati e artisti devono per forza allontanarsi dalla verità, almeno nel senso in cui ce ne parla la parola di Dio. Infatti “nessuno può servire due padroni; perché o odierà l’uno e amerà l’altro, o avrà riguardo per l’uno e disprezzo per l’altro.” (Matteo, 6:24). Non possiamo cioè servire il vero Dio e il denaro.
In realtà, in quel discorso Gesù non ha nominato direttamente il denaro, ma per riferirsi all’altro padrone ha usato una parola aramaica che gli evangelisti e la maggior parte delle nostre traduzioni hanno solo traslitterata con il termine mammona (in greco, mamonàs μαμωνᾶς), che suona come una personificazione, e che significa probabilmente “mucchio”.
Mammona, in sostanza, sta per “quantità”. La differenza tra servire mammona e servire Dio sta, cioè, tra il vivere in funzione di ciò che si può misurare e il vivere per ciò che non ha misura. Se vogliamo, tra la massa e l’unicità. E, anche, tra la competizione e la collaborazione, tra la guerra e la pace.
La quantificazione è necessaria per il confronto, per decidere, per esempio, chi ha più diritto a un posto. Ma è chiaro che anche in scienza e in arte ci sono cose che non si possono misurare, e che non ci sono strumenti per valutare le idee che valgono davvero.
Sono molti anni ormai che la scienza e la filosofia si stanno ammalando di questa monetizzazione e della burocratizzazione che ne consegue. Quella che una volta era soprattutto una scelta di vita, sempre di più diventa un lavoro e come tale è necessario che venga regolato. L’odore dei soldi, la ricerca del potere o il semplice bisogno di mantenere il proprio posto di lavoro (o di trovarne uno migliore) portano infatti anche alla frode, alle illecite sgomitate o alla ricerca di favoritismi, imbrogli che il controllo burocratico cerca di combattere. Ma questo controllo non è certamente privo di indesiderati effetti collaterali. D’altra parte, c’è anche da aspettarselo: chi controlla i controllori, che non sempre sono i più intelligenti e irreprensibili tra gli intellettuali? Così, la burocrazia in scienza finisce spesso per selezionare al contrario, promuovendo quelli più interessati al potere e facendo crescere la pressione su quelli che vorrebbero dedicarsi alla ricerca e vengono invece derubati del loro tempo e delle loro energie per scrivere resoconti e chiedere finanziamenti o, peggio ancora, nell’impegno mentale ed emotivo richiesto per ottenere il riconoscimento necessario a rimanere a galla.
Lo dicono gli stessi scienziati e gliu stessi intellettuali, che si lamentano sempre più ossessivamente della parola d’ordine che governa il loro ambiente – publish or perish (“pubblica o sei morto”) – ma che non possono fare altro che seguirla. Sta di fatto che, sotto questa continua pressione a produrre articoli specialistici, anche i più motivati nella ricerca della verità finiscono necessariamente per trascurare il quadro completo del loro stesso campo di studio, per non parlare della loro vita interiore.
Viene ovviamente da pensare alla torre di Babele, costruita dagli uomini per raggiungere il cielo con le loro forze e acquistare fama su tutta la terra (Genesi, 11:4). Progetto che il SIGNORE ha però frustrato confondendo le loro lingue, e impedendo così l’integrazione dell’opera di ciascuno con quella degli altri, che anche oggi appare sempre di più come un ideale irrealizzabile proprio a causa del desiderio di fama che spinge ciascuno nella sua ricerca del cielo.
Non sia così tra di voi
Nelle lettere di Paolo troviamo due esortazioni apparentemente contraddittorie. Da una parte, ai Colossesi, l’apostolo scrive “Se dunque siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra.” (Colossesi, 3:1-2). Dall’altra, ai Romani, dice invece di non aspirare alle cose alte, ma di lasciarsi attirare dalle basse (Romani, 12:16).
La contraddizione si risolve facilmente ricordando che la mente del cielo è verso ciò che è umile e basso (cfr. Luca 1:48, per esempio), perché Dio ha in abominio l’arroganza di chi si crede più in alto degli altri. Di fatti, sempre ai farisei, Gesù ha detto chiaramente: “Voi vi proclamate giusti davanti agli uomini; ma Dio conosce i vostri cuori; perché quello che è eccelso tra gli uomini, è abominevole davanti a Dio.” (Luca, 16:15).
E infatti Gesù non ha cercato i suoi discepoli tra i primi della classe delle scuole rabbiniche. E ai suoi discepoli ha insegnato a non ammirare le persone importanti, servite e riverite dal mondo: “… i re delle nazioni le signoreggiano, e quelli che le sottomettono al loro dominio sono chiamati benefattori. Ma per voi non dev’essere così; anzi il più grande tra di voi sia come il più piccolo, e chi governa come colui che serve. Perché, chi è più grande, colui che è a tavola oppure colui che serve? Non è forse colui che è a tavola? Ma io sono in mezzo a voi come colui che serve. ” (Luca 22:25-27). E un altro vangelo aggiunge che ha anche detto di sè: “il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti.” (Matteo, 20:28)
L’insegnamento che Gesù è venuto a portarci con l’esempio è stato quello di una vita vissuta per servire. Il denaro (e la gloria, il credito) se ben usati possono essere utili strumenti per servire il nostro prossimo, ma se diventano lo scopo delle nostre azioni è abbastanza ovvio che quello che ci interessa non è tanto servire, quanto piuttosto farci servire.
Per questo, Paolo dice che l’amore del denaro è la radice di ogni specie di mali (1Timoteo, 6:10). Paolo ci dice anche di esaminare noi stessi per vedere se siamo nella fede (2Co rinzi, 13:5), cioè se questo spirito di fede e di servizio è veramente in noi. O se non stiamo per caso servendo allo scopo di essere serviti.
Secondo il criterio di giustizia e verità stabilito da Gesù (in Giovanni, 7:17-18), il nostro costante esame deve quindi essere: chi è che ci ha mandati? A chi rispondiamo? A Dio o a noi stessi? Parliamo per dare gloria a Dio o per essere apprezzati noi? Per amore della verità, o per cercare approvazione e gloria dagli uomini? Chi è il nostro padrone? Il SIGNORE o noi stessi? Ce lo siamo scelto noi o è lui che ci ha scelto? E se è lui che ci ha scelto, perché abbiamo accettato?
Il consiglio dell’apostolo è di misurare noi stessi sulla misura della nostra fede (=fedeltà), cioè su quanto siamo effettivamente disposti a servire Dio e il nostro prossimo, e perché.
“Per la grazia che mi è stata concessa, dico quindi a ciascuno di voi che non abbia di sé un concetto più alto di quello che deve avere, ma abbia di sé un concetto sobrio, secondo la misura di fede che Dio ha assegnata a ciascuno.” (Romani, 12:3).
La fede è un combattimento, non solo contro i nostri dubbi, ma anche, e soprattutto, contro la nostra natura carnale, che non vuole servire, solo essere servita. Ma è un combattimento con uno scopo e una prospettiva di vittoria, perché il Signore ha fatto una promessa, e lui non può mentire.
“A chi vince io darò della manna nascosta e una pietruzza bianca, sulla quale è scritto un nome nuovo che nessuno conosce, se non colui che lo riceve”. (Apocalisse, 2:17).
[…] Per perdonare chi ci ha derubato, e non accarezzare più l’idea di derubare qualcuno a nostra volta, dobbiamo cioè acquisire un cuore secondo il cuore di Dio, un cuore che trova più piacere nel donare che nel prendere, ed è capace di guardare oltre la momentanea soddisfazione del desiderio di appropriarsi di qualcosa (o di conquistare qualcuno), in vista della verità. […]
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