Amicizia fraterna. Prima parte

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Come insegna la proverbiale rima tra fratelli e coltelli, non è per niente scontato che i fratelli tra di loro si vogliano bene. Si è, di solito, figli degli stessi genitori, ma, sempre di solito, si è anche nati in diversi momenti della loro vita e si è avuto ognuno un diverso rapporto con ciascuno dei due. Inoltre, sempre salvo casi eccezionali, anche il patrimonio genetico ereditato è abbastanza diverso. Così, se da una parte con i propri fratelli si è legati da un’identità più forte che con qualunque altro essere umano, dall’altra però le differenze di trattamento, di esperienze e di corredo cromosomico, se mal gestite, possono portare anche a terribili conflitti, e fratricidi.

“Un fratello offeso è più inespugnabile di una fortezza; e le liti tra fratelli sono come le sbarre di un castello.” (Proverbi 18:19).

Nella Bibbia vediamo che i primi due fratelli di cui abbiamo notizia non andavano molto d’accordo: non sappiamo quali fossero i sentimenti di Abele, ma certamente Caino non gli voleva tanto bene. La stessa cosa ci è detta dei primi due figli di Abraamo (Ismaele e Isacco), dei due figli di Isacco (Giacobbe ed Esaù), e anche dei figli di Giacobbe, in particolare tra Giuseppe e i suoi fratelli, le cose non sono andate sempre lisce.

Anche tra fratelli in Cristo non è così scontato che ci si ami veramente. Tanto è vero che quello di amarci gli uni gli altri Gesù ha dovuto darcelo come un comandamento, e un comandamento nuovo (Giovanni, 13:34).

Eppure, se amiamo il Padre, dovremmo amare anche gli altri suoi figli, non solo perché, come ha scritto l’apostolo Giovanni, non possiamo dire di amare Dio che non vediamo se non amiamo il fratello che vediamo (1Giovanni, 4:20), ma anche perché sappiamo bene che un padre che ama i suoi figli è felice di vedere che anche i figli si amano tra di loro.

Spesso, però, anche nella famiglia della fede, l’amore per il nostro Padre celeste non è sufficientemente forte da farci superare l’antipatia, l’invidia, o altre cause di rivalità e di disamore. E noi, per giustificarci del fatto che non amiamo i nostri fratelli, protestiamo che non possiamo mica essere amici di tutti.

Ora, è vero che è difficile amare qualcuno senza conoscerlo e senza esserne amico, e che, in effetti, l’amicizia tra fratelli in Cristo è certamente un importante aiuto per arrivare ad amarsi come ci ha comandato il Signore (lo scrive chiaramente anche l’apostolo Pietro – in 2Pietro 1:5-6 – dove elenca l’amicizia fraterna  (phialadelphìa φιλαδελφία) tra le cose da aggiungere alla fede per giungere all’amore di Dio). Ma è anche vero che a diventare amici bisogna pur cominciare da qualche parte, e certamente gli atti d’amore che compiamo verso il nostro fratello in Cristo – senza necessariamente conoscerlo bene e soprattutto senza aspettarci niente in cambio – sono il principale mezzo per favorirne l’amicizia.

C’è insomma abbastanza confusione nei nostri discorsi riguardo ai nostri rapporti in generale, e in particolare riguardo all’amicizia e all’amore, sia nella nostra vita naturale nel mondo, sia anche nella chiesa. Può quindi essere d’aiuto riflettere sul significato di queste parole del lessico quotidiano, con cui pensiamo alla nostra vita sentimentale e spirituale, e ne parliamo con gli altri.

Grammatica degli affetti

Nella lingua italiana parlata usiamo raramente la parola amore, riservandola alle passioni più travolgenti, o agli affetti familiari più intensi. Di solito preferiamo usare la locuzione ti voglio bene, oppure diciamo che qualcuno ci piace o che ci sta simpatico, e, se ci sta antipatico, raramente confessiamo il nostro odio.

Siamo un po’ più precisi con la parola amico (lo eravamo, almeno, prima che i social ne inflazionassero completamente l’utilizzo). Il senso di questa parola varia però molto da regione a regione, e da ambiente ad ambiente, e anche nello stesso ambiente non tutti intendono esattamente la stessa cosa quando dicono di considerare qualcuno un proprio amico.

Proviamo quindi a mettere un po’ d’ordine all’interno dei concetti base che stanno sotto le parole, cercando una definizione più astratta, ma forse anche più profonda. E considerando intanto l’aspetto della reciprocità.

Sappiamo che l’amore può essere ricambiato, ma che può anche non esserlo. Un certo tipo di amore normalmente lo è, un’altro tipo non lo è quasi mai, o comunque non lo è necessariamente e nello stesso modo e negli stessi tempi, perché il rapporto non è normalmente lo stesso in entrambe le direzione, e cioè cambia senso e valore a seconda che vada da chi ama a chi è amato o viceversa.

Potremmo intanto definire l’amicizia come l’amore nella sua forma più reciproca e paritaria. È il tipo di amore che può sfociare in erotismo, come l’amore cortese cantato da Dante (“amor, ch’a nullo amato amar perdona”), ma è anche quello che in linea di principio rimane libero da interessi materiali. E che è la cosa più importante e preziosa della nostra vita. “L’olio e il profumo rallegrano il cuore; così fa la dolcezza del proprio amico con un consiglio dell’anima.” (Proverbi, 27:9)

Se si sviluppa verso il contatto fisico, seguendo l’attrazione del proprio orientamento sessuale, l’amicizia in certe situazioni sociali – in particolare, fuori da un legame matrimoniale – rischia di consumarsi come tale e di trasformarsi più o meno rapidamente nell’altro tipo di amore, nell’amore cioè che potremmo chiamare “verticale”, e che ha a che fare con il sentimento del bisogno (proprio e/o altrui). L’accento, più che sulla reciprocità, viene allora a cadere sul vantaggio di chi riceve e sul disinteresse di chi dà. Ammesso che le intenzioni siano quelle dell’amore. Il matrimonio, con la reciproca promessa di fedeltà, ha proprio lo scopo di riequilibrare il rapporto sulla base di una totale unità di intenti e di interessi. Ci torniamo dopo.

Comunque sia, in questa seconda forma dell’amore, l’azione di dare e quella di ricevere sono molto più diversificate che nell’amicizia. Come accade tra chi insegna e chi impara, o tra chi cura e chi viene curato. Come, almeno in parte, accade anche nel matrimonio, dove i ruoli sono sempre in qualche modo differenti, anche se non sempre nello stesso modo in tutte le culture: c’è chi protegge e chi ha bisogno di protezione, chi nutre e chi è nutrito, chi porta e chi è portato… (cf. Efesini, 5:22-28),

A differenza dell’amicizia nella sua forma pura, questo tipo di rapporto più unidirezionale può trasformarsi in passione e dare luogo a una più o meno legittima gelosia – “dura come il soggiorno dei morti” (come si esprime Salomone nel Cantico dei cantici, 8:6) – che rende la comunicazione sempre più difficile e il rapporto ancora più sbilanciato, cose che certamente non ne aiutano la sopravvivenza.

Ma, se è sufficientemente ricambiato, anche quest’amore verticale può rimanere puro e tranquillo, come quello di una madre per il suo bambino o di un figlio per i suoi vecchi genitori, di un allievo per il suo maestro o di un maestro per il suo allievo, e, nel migliore dei casi, di un marito per la sua sposa.

Questo amore incondizionato è quello che può essere comandato, ed è quello che Dio infatti ci ordina di nutrire nei confronti degli amici, e anche dei nemici (dei quali sarebbe assurdo ordinarci di essere amici). Ma su questo torneremo in seguito, nella seconda parte di questa meditazione.

Intanto è importante chiarire che, nella vita, questi due diversi tipi di amore si sovrappongono sempre (se non altro, perché pure l’amicizia è un bisogno), cosa che a volte ingenera dolorose confusioni. D’altra parte, la loro compresenza è di vitale importanza per entrambi i due tipi di affetto: non c’è vera amicizia senza amore e non c’è vero amore senza amicizia.

Dosati e diretti nel modo giusto, amicizia e amore sono entrambi ingredienti necessari di una vita matrimoniale felice e contenta. E sono perciò alla base dei rapporti familiari e sociali che garantiscono pace e libertà in una certa popolazione. Sono, di fatto, entrambi attributi dell’amore di Dio per i suoi santi.

La forma positiva di questi affetti dipende da un complicato equilibrio di diversi fattori. Presi e orientati nel modo sbagliato possono anche facilmente scatenare i più sanguinosi conflitti.

Ama l’amico tuo come te stesso

Nei libri dell’Antico Testamento, la parola italiana amico traduce spesso la stessa parola che in altri contesti è tradotta con prossimo: rea’ רֵעַ. Il prossimo, l’amico, nella Bibbia è definito, seppur incidentalmente, come colui “che è come un altro te stesso” (letteralmente: “come la tua anima”; Deuteronomio, 13:6). Con l’amico infatti si comunica anche senza bisogno di parole. Si sente quello che sente lui. Quando si parla assieme ci si capisce, molto oltre quello che le parole possono dire.

Ciò non ostante, il tratto principale dell’amicizia è proprio la comunicazione: tra amici, sempre con la dovuta discrezione (di cui parleremo più avanti), si condividono, direttamente o indirettamente, i pensieri, le esperienze, le letture, tutte le cose importanti che si sono capite della vita, soprattutto di quella interiore.

Il maestro non può spiegare subito tutto al suo allievo (cfr. Giovanni, 16:12) e così nemmeno il genitore al figlio. Neanche il padrone può dire tutto al suo servo, o il direttore al suo impiegato. Né l’allievo, o il figlio, o il servo, o l’impiegato se ne possono stupire, o lamentare. Un amico invece si aspetta di essere informato delle cose importanti che lo riguardano e soprattutto delle cose che riguardano il rapporto con l’amico. Se questo non avviene, si comincia a domandare se l’altro davvero lo consideri un amico. E, d’altra parte, è solo con la confidenza e la condivisione dei propri punti di vista che anche un rapporto gerarchicamente ineguale, come quello tra padre e figlio o tra maestro e allievo, può svilupparsi in amicizia.

Anche Gesù ha dato un’importanza centrale, nel suo concetto di amicizia, alla condivisione del sapere: sia quando ha parlato del suo rapporto con il Padre (“il Padre ama [il testo greco dice philèi, cioè “è amico del”] Figlio, e gli mostra tutto quello che egli fa”, Giovanni, 5:20), sia quando ha parlato del suo rapporto con i discepoli, ai quali, durante l’ultima cena prima dell’arresto, ha infatti detto: “Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo signore; ma vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio.” (Giovanni, 15:15).

Come la condivisone dei segreti e della propria vita interiore è un tratto fondamentale dell’amicizia ed è di vitale importanza per coltivarla, così la falsità e la manipolazione ne sono nemici mortali. Per questo Gesù se la prendeva tanto con i farisei e con la loro ipocrisia che rovinava l’amicizia in Israele. Perché la cura per l’apparenza esteriore significa automaticamente disinteresse per le cose del cuore e quindi, in ultima analisi, per un vero rapporto d’amicizia. “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché siete simili a sepolcri imbiancati, che appaiono belli di fuori, ma dentro sono pieni d’ossa di morti e d’ogni immondizia.” (Matteo, 23:27).

L’amicizia non dovrebbe avere a che fare con l’interesse personale, né con la convenienza sociale, in generale non dovrebbe essere basata sui vantaggi materiali. Purtroppo però, spesso, più dell’amore, può il nostro bisogno di affermazione sociale, e non siamo indifferenti ai vantaggi che ci possono venire dall’amicizia di uomini importanti e facoltosi. O, viceversa, facciamo fatica ad essere amici di coloro dai quali non riusciamo ad aspettarci nessun vantaggio. “Le ricchezze procurano gran numero di amici, ma il povero è abbandonato anche dal suo amico.” (Proverbi, 19:4). Ma certo, più facciamo così, meno le nostre amicizie saranno autentiche e profonde.

“Molti corteggiano l’uomo generoso, tutti sono amici dell’uomo che offre regali” (Proverbi, 19:6). Ma l’amicizia di tutti rischia di rivelarsi l’amicizia di nessuno. “Chi ha molti amici può esserne sopraffatto, ma c’è un amico che è più affezionato di un fratello.” (Proverbi, 18:24). Il vero amico, come si dice, si vede nel momento del bisogno.  “L’amico ama in ogni tempo; è nato per essere un fratello nella sventura.” (Proverbi 17:17) “Non abbandonare il tuo amico né l’amico di tuo padre, e non andare in casa del tuo fratello nel giorno della tua sventura; una persona a te vicina vale più d’un fratello lontano.” (Proverbi, 27:10).

Quello della vera amicizia e del suo legame con l’amore disinteressato è il tema centrale della Bibbia: l’amicizia con Dio attraverso la fede, e l’amicizia tra i fedeli, cioè tra coloro che sono diventati figli di Dio credendo nella sua parola. La Legge data attraverso Mosè e le parole scritte dai profeti avevano lo scopo di fare nascere e durare l’amicizia tra i figli di Israele, attraverso l’amore insegnato da Dio. “Tutte le cose dunque che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché questa è la legge e i profeti.” (Matteo, 7:12).

L’insegnamento del regno di Dio va anche oltre in questa stessa direzione e ci dice di guadagnarci l’amicizia anche dei nemici, sempre attraverso l’amore, cioè con la pazienza, la generosità e anche il perdono. Comunque con comportamenti sempre disinteressati, rimettendoci del nostro e, se necessario, mettendo anche a rischio la nostra persona.

Per spiegare tutto ciò ai suoi discepoli, Gesù ha raccontato una parabola, spesso mal interpretata, in cui un servo riconosciuto infedele verso il suo padrone decide di guadagnarsi almeno l’amicizia dei conservi, condonando i debiti che questi avevano con lo stesso padrone che lo stava licenziando. “E il padrone lodò il fattore disonesto perché aveva agito con avvedutezza; poiché i figli di questo mondo, nelle relazioni con quelli della loro generazione, sono più avveduti dei figli della luce. E io vi dico: fatevi degli amici con le ricchezze ingiuste; perché quando esse verranno a mancare, quelli vi ricevano nelle dimore eterne.” (Luca, 16:8-9).

Tra i figli di Dio spesso ci si crede più spirituali quando si condanna con maggiore severità i peccati dei nostri fratelli, ma questo non produce amicizia: al contrario, freddezza, se non, peggio, tiepidezza, cioè indifferenza e ipocrisia. L’amore e l’amicizia vengono dalla certezza di essere compresi e non condannati da una supposta posizione di maggiore santità o giustizia, sulla quale a volte ci arrocchiamo, mentendo contro la verità. “Chi copre gli sbagli si procura amore, ma chi sempre vi torna su disunisce gli amici migliori.” (Proverbi 17:9).

“Ama il tuo prossimo (‘ahavta lrea’kha אָֽהַבְתָּ לְרֵעֲךָ) come te stesso” (Levitico, 19:18), significa dunque “abbi cura del tuo amico come hai cura di te stesso, tenendo conto della sua vita – esteriore e, soprattutto, interiore – come della tua”.

Perché è anche scritto: “chi acquista senno [letteralmente: “cuore”, lev לֵב] ama se stesso; e chi serba con cura l’intelligenza troverà del bene.” (Proverbi, 19:8). Preoccuparsi del vero bene del nostro amico significa dirgli la verità (Efesini, 4:25) e incoraggiarlo a considerare la sua vita interiore più di quella esteriore. E questo è il nostro stesso bene, oltre che il suo. Perché imparando a conoscere la verità della vita interiore assieme ai nostri amici, li aiutiamo a entrare in una dimensione più profonda: il loro cuore ne trarrà beneficio, per un rapporto più profondo e più autentico, anche con noi. “Come il viso si riflette nell’acqua, così il cuore dell’uomo si riflette nell’uomo.” (Proverbi, 27:19).

Un amico è qualcuno su cui sappiamo di  poter contare come su noi stessi, perché sappiamo che ci conosce da dentro. Lo riconosciamo dal fatto che ci riconosce come esseri simili a lui. Si rende conto che, oltre a una realtà esteriore, abbiamo anche una realtà interiore, delle sensazioni e dei sentimenti, cioè un cuore, esattamente come lui. Per questo all’amico è facile mettersi nei nostri panni e lo stesso sa che faremo noi con lui. Un uomo di cuore è una persona che si mette nei panni degli altri, perché sa che anche gli altri hanno (o possono avere) un cuore come il suo, con pensieri, sentimenti, sofferenze e preoccupazioni molto simili ai suoi.

Agàpē e philìa

Nel greco del Nuovo Testamento, i due termini che si riferiscono ai due atteggiamenti del cuore che abbiamo cercato di definire come due aspetti dell’amore sono espressi con due parole che hanno radici completamente diverse: agàpē (ἀγάπη) e philìa (φιλία).

Possiamo tradurre entrambi i termini con il verbo amare e i suoi derivati, e di fatto così sono stati anche tradotti, ma agàpē viene più specificamente reso con amore o con carità e philìa con amicizia (“amico” si dice philos φίλος).

Non si tratta, come a volte è stato detto, di due relazioni che si distinguono per una diversa intensità e profondità dell’affetto, nel senso che il verbo philèo caratterizzerebbe un rapporto più mentale e distaccato, mentre solo agapào corrisponderebbe al pieno senso dell’amore. Troviamo infatti philéo usato anche in certi versi della Bibbia dove si esprime l’amore nel suo senso più pieno e completo (per esempio, quando, nel già citato Giovanni 5:20, è scritto che “il Padre ama [philéi φιλεῖ] il Figlio e gli mostra tutte le cose che fa”).

D’altra parte il rapporto tra lo stesso Padre e lo stesso Figlio è altrove caratterizzato dal verbo agapào (Giovanni 3:35). Quale differenza c’è allora tra il significato dei due termini? Appunto quella che abbiamo cercato di delineare tra amore e amicizia, considerandoli come due diversi aspetti della stessa cosa.

Il verbo agapao, con il sostantivo agàpē, esprime il rapporto d’amore idealmente disinteressato che si stabilisce tra chi vede un bisogno e decide di venirvi incontro da una parte, e la persona che ha questo bisogno dall’altra. La persona che ama agisce in favore della persona amata senza aspettarsi niente in cambio (agàpē traduce la parola ebraica chesed, che ha una radice molto vicina al verbo che significa “provare compassione” e “prendersi cura”, chus חוּס).

Agàpē è l’amore del quale Paolo scrive la poetica definizione che è stata considerata un vero e proprio inno, e che è anche una precisa istruzione non solo su come riconoscerlo, ma anche su come realizzarlo: “L’amore è paziente, è benevolo; l’amore non invidia; l’amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non addebita il male, non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa.” (1Corinzi, 13:4-7).

Questo è l’amore di cui “Dio ha tanto amato il mondo” del famoso versetto di Giovanni (3:14) che spesso – e forse semplicisticamente – è stato considerato la migliore sintesi del Vangelo di Cristo.

Philìa, l’amicizia, invece, sia quella con Dio che quella tra gli uomini, come abbiamo già visto, non è un affetto incondizionato. Non si può essere amici di qualcuno che non si conosce, e soprattutto di qualcuno che non si lascia conoscere, perché non desidera conoscerci. La risposta può essere anche immediata: uno sguardo, confermato da qualche altro gesto e qualche parola. Ma sono anche necessarie altre conferme e assicurazioni, che dimostrino un’affinità e una possibile vicinanza. Senza le quali, il rapporto d’amicizia non può stabilirsi.

Così, in questo senso, anche l’amore di Dio (o, segnatamente, della Sapienza) non è un amore incondizionato, ma è anzi fortemente condizionato a una risposta da parte dell’amato (“Io amo quelli che mi amano” – dichiara la Sapienza – “e quelli che mi cercano mi trovano” Proverbi, 8:17). Abraamo è stato chiamato “amico di Dio” (Giacomo, 2:23) perché ha risposto positivamente ai suoi ordini, credendo fino in fondo alla sua fedeltà.

Come tra il guardare e il vedere, o tra il formare e il creare, tra l’amore e l’amicizia c’è una differenza di aspetto, o di punto di vista. L’amicizia philìa deriva da un sentimento di affinità, da un certo grado di identità che si percepisce con l’amico. L’amore agàpe è invece l’atto di colmare una distanza, producendo un’identità che ancora non c’era, o che non si vedeva. La differenza cioè sta in una diversa funzione rispetto all’identità che è l’essenza dell’amore: agàpe la crea, philìa la presuppone.

Un passo del Vangelo di Giovanni mette a stretto confronto queste due parole. L’episodio si svolge dopo la resurrezione di Cristo, immediatamente di seguito alla seconda pesca miracolosa, quella dei 153 grossi pesci. “Quand’ebbero fatto colazione, Gesù disse a Simon Pietro: Simone di Giona, mi ami (il verbo usato è agapào) più di questi? Egli rispose: Sì, Signore, tu sai che ti sono amico (philéo). Gesù gli disse: Pasci i miei agnelli. Gli disse di nuovo, una seconda volta: Simone di Giona, mi ami (agapào)? Egli rispose: Sì, Signore; tu sai che ti  sono amico (philéo). Gesù gli disse: Pastura le mie pecore. Gli disse la terza volta: Simone di Giona, mi sei amico (philéo)? Pietro fu rattristato che egli la terza volta gli avesse detto: Mi sei amico (philéo)? E gli rispose: Signore, tu sai ogni cosa; tu sai che ti sono amico (philéo). Gesù gli disse: Pasci le mie pecore.” (Giovanni 21:15-17)

Non è la sede per una dettagliata esegesi del passo, ma è interessante notare come sia Gesù che Pietro considerassero l’amicizia una condizione più forte, cioè più difficile e più necessaria per un rapporto di collaborazione. Come se Gesù dicesse:  “Per dare da mangiare alle mie pecore non basta la tua buona intenzione di servirmi. Solo se sei mio amico e sei loro amico e senti quello che sento io e senti quindi anche quello che sentono loro puoi fare il lavoro più difficile di nutrire le mie pecore, altrimenti no.” E Pietro si è rattristato che Gesù non fosse sicuro di questo sentimento, proprio perché, come abbiamo detto e ripetuto, l’amicizia è fondamentalmente un sentimento reciproco.

Lea e Rachele

L’amicizia ha senz’altro anche a che fare con l’ammirazione e il compiacimento, per non dire il piacere. Gli amici, normalmente, sotto certi aspetti almeno, si assomigliano, e si piacciono.

In inglese, la connessione tra piacere, somiglianza e affinità elettiva è sottolineata dall’identità della radice che forma il verbo to like (che è transitivo e definisce la relazione per cui qualcosa o qualcuno piace al soggetto del predicato verbale), la congiunzione like (“come”) e la locuzione to be alike (“assomigliarsi”). In italiano abbiamo il detto “chi si assomiglia si piglia”.

Mentre l’amore, come abbiamo accennato, richiede lo sforzo di andare oltre quello che si vede immediatamente, per l’amicizia, invece, è fondamentale lo sguardo.

Questi due tipi di relazione affettiva di cui stiamo parlando li troviamo chiaramente rappresentati nel matrimonio di Giacobbe (che il SIGNORE aveva già chiamato Israele), raccontato nel capitolo 29 della Genesi. Quando incontra la bella cugina Rachele, Giacobbe se ne innamora subito, ne chiede la mano allo zio Labano e i sette anni che lavora per averla in sposa gli volano via come un soffio. Di Lea, sorella maggiore di Rachele, quasi non si accorge nemmeno. “Gli occhi di Lea erano deboli [sarebbe meglio forse tradurre le occhiate di Lea erano deboli, visto che nell’originale “occhi” è al femminile eynay Le’ah rakhoth  עֵינֵי לֵאָה רַכֹּות], invece Rachele era avvenente [yephah tho’ar יְפַת־תֹּאַר] e di bell’aspetto [viyphath mareh וִיפַת מַרְאֶֽה] (Genesi, 29:17).

Tutte e tre le caratteristiche delle due sorelle menzionate dal testo hanno a che fare, direttamente o indirettamente, con la visione. Del resto anche oggi in ebraico, per dire che qualcuno ci piace, si dice che “ha trovato grazia ai nostri occhi”. La grazia che si trova deriva da qualche simmetria o identità che viene riconosciuta, e che produce gioia e piacere alla vista, e al cuore. E un senso di reciproca appartenenza. Sentimento espresso anche dalla sposa nel Cantico dei cantici: “Il mio amato [il termine ebraico usato qui – dod דּוֹד – significa “bollente”, e ha a che fare con i baci] è mio, e io sono sua: di lui che pastura [o “che è l’amico” ha-ro’eh הָרֹעֶה] fra i gigli.” (Cantico, 2:16)

Ma, dopo aver lavorato sette anni per Rachele, la mattina dopo le nozze Giacobbe si sveglia “ed ecco che era Lea!” (Genesi, 29:25). Come Labano spiega al nipote, non aveva potuto dargli subito Rachele perché non sarebbe stato opportuno dare in sposa la figlia minore prima della maggiore. Giacobbe avrebbe avuto Rachele dopo la settimana di nozze con Lea, in cambio di altri sette anni di lavoro come pastore e allevatore delle greggi di Labano. Così, dopo quella settimana, “Giacobbe si unì pure a Rachele, e amò Rachele più di Lea, e servì Labano per altri sette anni.” (Genesi, 29:30).

Il doppio matrimonio con Rachele e con Lea rappresenta i due tipi di affetto di cui stiamo parlando, perché Giacobbe aveva provato un profondo affetto per Rachele che era stato da lei ricambiato. Il giorno stesso che la incontrò “Giacobbe baciò Rachele, alzò la voce e pianse.” (Genesi, 29:11). Pianse di gioia, immaginiamo; o forse anche di dolore, pensando a tutto il tempo che era rimasto senza di lei; certamente, di commozione. Come anche Adamo che, quando si è svegliato dall’intervento di asporto della sua costola che il SIGNORE aveva usato per costruire la donna, ha esclamato: “Questa, finalmente, è ossa delle mie ossa e carne della mia carne!” (Genesi, 2:23).

Lea invece non era amata da Giacobbe, e sapeva che il cuore del marito era rivolto verso sua sorella. Lea desiderava il marito perché aveva bisogno di lui, e anche il marito era stato con lei per il suo bisogno. Mentre quello con Rachele era un matrimonio d’amore, quello con Lea era stato un matrimonio di interesse, un matrimonio combinato, accettato da tutti per convenienza sociale.

È interessante osservare come il SIGNORE abbia comunque benedetto l’unione con Lea imposta per convenienza e accettata per forza, e anche più di quell’altra, dando a Lea molti più figli e soprattutto, tra questi figli, donando a Israele Giuda, dal quale doveva discendere il Mashiach, cioè il Cristo.

D’altra parte, anche l’altra unione è stata benedetta, perché da Rachele nasceranno Giuseppe, grazie al quale la famiglia di Giacobbe diventerà la nazione di Israele (in Egitto), e anche Beniamino, da cui, tra gli altri, discenderà Paolo di Tarso. Segno che entrambe le unioni rappresentano aspetti necessari dei rapporti d’amore che formano il tessuto del popolo di Dio: la carità, che si cura dei bisogni dell’altro come se fossero i propri anche quando non ci toccano direttamente, e l’amicizia, che nasce da un’intima affinità, è spontaneamente ricambiata, e rende più leggera ogni fatica.

Tre tipi di selezione: naturale, umana e soprannaturale

Alla differenza tra i matrimoni d’amore e quelli di convenienza, nel mondo animale si può fare corrispondere la differenza tra la selezione naturale e quella operata dall’uomo. Da una parte le specie selvatiche che si auto-selezionano attraverso i meccanismi studiati dalla biologia e dall’etologia, e dall’altra le razze ottenute all’interno di una certa specie addomesticata. L’addomesticamento di una specie presuppone infatti la possibilità di effettuare gli incroci, cioè di combinare gli accoppiamenti, scegliendo sapientemente le qualità della futura discendenza.

Non è certo un caso che i patriarchi del popolo di Israele siano stati tutti pastori, fin dalla loro infanzia (Genesi, 46:32-34). E che proprio Giacobbe abbia dimostrato una particolare abilità con gli incroci tra i capi del bestiame che gli era stato affidato dallo zio e suocero Labano (cfr. Genesi, 30). Anche in questo l’uomo era stato fatto a immagine e somiglianza di Dio. Nel libro dei Salmi, in quello del profeta Ezechiele e nei vangeli (segnatamente quelli di Luca e di Giovanni), il popolo di Dio e in particolare i suoi discepoli sono infatti considerati “il gregge del SIGNORE”.

La formazione dell’uomo come specie umana avviene per effetto di una vera e propria selezione soprannaturale delle qualità che rendono l’uomo simile a Dio.

È Dio che sceglie chi prendere e chi lasciare. E spesso sceglie lasciando scegliere all’uomo: scegliendo una o l’altra via, gli uomini manifestano la loro natura, dirigendosi verso la casa di Dio, o firmando più o meno consapevolmente la loro condanna. “Poiché il SIGNORE conosce la via dei giusti, ma la via degli empi conduce alla rovina.” (Salmi, 1:6).

Ed è Dio che organizza anche i nostri incontri, che ci dà i nostri amici e anche i nostri nemici. È lui che modella la nostra vita e anche la nostra discendenza. Quando non lo fa l’uomo, per i suoi  interessi o per le sue passioni, è infatti il SIGNORE che combina i nostri matrimoni (e certamente può usarsi anche di uomini, come ha fatto con Eliezer, il servo di Abraamo che è andato a cercare una sposa per Isacco ed è tornato con la cugina Rebecca, Genesi 24).

Difatti, quando dei farisei gli hanno chiesto se fosse lecito mandare via la propria moglie, Gesù ha risposto: “Non avete letto che il Creatore, da principio, li creò maschio e femmina e che disse: Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre, e si unirà con sua moglie, e i due saranno una sola carne? Così non sono più due, ma una sola carne; quello dunque che Dio ha unito, l’uomo non lo separi.” (Matteo, 19:4-6).

La sapienza dell’allevatore, come quella del sensale, sta nel dosare similarità e complementarità, in modo che dall’incrocio possa nascere una progenie di migliore qualità dei progenitori. Se da una parte la razza pura ha un suo valore, dall’altra un’eccessiva chiusura delle possibilità di scambio genetico porta a un’impoverimento e a una decadenza del patrimonio cromosomico.

La sapienza di Dio guarda poi anche alla trasmissione dell’insegnamento, cioè all’educazione, perché di generazione in generazione siano tramandati i suoi precetti, in particolare riguardo all’amore e all’amicizia. L’affinità che produce l’amicizia deve il più possibile accompagnarsi alla complementarietà che si esprime nell’amore. All’unità presupposta dall’amicizia non deve cioè mancare la differenza senza la quale l’amore non ha nulla da colmare.

Nel piano di Dio, il compito di mantenere questo delicato equilibrio è affidato al matrimonio, grazie al quale il rapporto verticale di reciproca dipendenza riguardo al proprio corpo si racchiude in una sola coppia, aprendo così lo sviluppo di quello orizzontale, dell’amicizia verso altre famiglia. Ovviamente, senza che questo tolga amicizia alla propria famiglia o cura verso i bisogni delle altre. Ma rispettando sempre le dovute priorità, e senza travalicare i limiti imposti dalla promessa di fedeltà coniugale. “Il matrimonio sia tenuto in onore da tutti e il letto coniugale non sia macchiato da infedeltà; poiché Dio giudicherà i fornicatori e gli adùlteri.” (Ebrei, 13:4).

Il matrimonio è un grande mistero, che incarna nella nostra vita il rapporto di Dio con la sua creazione, come è raccontato in tutta la Bibbia: dall’inizio della Genesi fino alle nozze dell’Agnello annunciate nell’Apocalisse. Lo dichiara anche Paolo: “Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diverranno una carne sola. Questo mistero è grande; dico questo riguardo a Cristo e alla chiesa. Ma d’altronde, anche fra di voi, ciascuno individualmente ami sua moglie, come ama se stesso; e altresì la moglie rispetti il marito.” (Efesini, 5:31-33).

Un santo bacio

Sia l’amore che l’amicizia devono avere anche un’espressione esteriore. È con opere di amore-carità (agàpē) che possiamo e anzi dobbiamo esprimere la nostra fedeltà (cioè l’ubbidienza) verso Dio e curarci del nostro prossimo. Come scrive Paolo (Galati, 5:6), e come conferma anche Giacomo: “Se un fratello o una sorella non hanno vestiti e mancano del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: Andate in pace, scaldatevi e saziatevi, ma non date loro le cose necessarie al corpo, a che cosa serve [la vostra fede]?” (Giacomo, 2:15-16). E anche l’amicizia ha le sue manifestazioni esteriori, che sono forse più piacevoli e costano meno sacrifici di quelle dell’amore, ma non sono per questo meno necessarie. Paolo conclude ben tre delle sue  epistole maggiori dicendo ai fratelli nella fede: “salutatevi gli uni gli altri con un santo bacio” (Romani, 16.16; 1Corinzi, 16:20; 2Corinzi, 13:12).

Nel testo originale la parola che traduciamo con bacio – cioè phìlēma (φίλημα) – è chiaramente imparentata con philìa, “amicizia”. Il bacio è infatti il principale segno dell’amicizia: come nel prendersi per mano o a braccetto, nel bacio non solo si esprime vicinanza, ma si realizza anche una forte comunione di sensazioni, che facilita quella dei sentimenti e de i pensieri. Ma il bacio è comunque un gesto esteriore, e come tale può essere usato per mentire. O per compiere e marcare una conquista.

Come, per altro, anche le opere dell’amore possono essere solo esteriori. Opere d’amore senza amore, che non servono a niente (1Corinzi, 13:1-3), se non a farsi belli agli occhi degli altri. Paradossi che purtroppo fanno parte integrante di questa nostra vita, come i gesti di amicizia senza verità che si sprecano nel mondo.

Ricordiamo tutti che Giuda ha tradito Gesù proprio con un bacio (Luca, 22:48). E con quel bacio e con quel tradimento ha manifestato l’assenza di amore nel suo rapporto con Cristo e con la chiesa, infatti rubava dalle offerte per i poveri e probabilmente  si aspettava qualche vantaggio da una vittoria politica del Cristo. Quando ha visto che il vantaggio non arrivava e che l’affare stava per finire, ha preferito “l’uovo oggi” e ha preso i trenta denari che gli erano stati offerti.

Succede la stessa cosa anche a noi, quando usiamo il nostro prossimo, approfittando del suo amore e della sua amicizia per i nostri interessi. Cioè quando, nei nostri rapporti, pensiamo a prendere piuttosto che a dare (e cioè anche quando diamo in vista di prendere). L’amore nella sua essenza è dare senza pensare a un ritorno. Se l’amicizia addolcisce l’amore, è certamente quest’amore disinteressato che purifica l’amicizia.

In effetti, il bacio può essere anche il preludio di qualcosa che si spinge oltre i limiti di quella che normalmente chiamiamo amicizia, e lo fa precisamente quando comincia a voler prendere anziché limitarsi a donare. Per questo Paolo specifica – tutte e tre le volte che ne parla – che il bacio del saluto cristiano deve essere un bacio “santo” (hàgios ἅγιος), cioè puro, non intenzionato a portare il rapporto verso un contatto più esteso, per prolungarne il piacere e ottenere soddisfazione di un proprio bisogno fisico, come può accadere in certi altri contesti.

L’unione carnale fuori dal matrimonio aggiunge all’amicizia un elemento di interesse che ne snatura l’essenza. Il termine greco pornèia (πορνεία) ci fa pensare ai casi estremi di sfruttamento del corpo, in cui l’amicizia – cioè la conoscenza personale – e l’amore disinteressato sono ufficialmente azzerati.

Il termine greco si conserva più intatto nel linguaggio della chiesa come fornicazione e si riferisce a un’unione che in Israele è stata considerata illecita molto prima che fosse data la legge di Mosè (Genesi, 34:7), e che consiste nell’oltrepassare i limiti del rapporto di amicizia, saltando il fidanzamento e il matrimonio. O trascurandone l’impossibilità, come accade nel rapporto omosessuale o nell’incesto.

I capitoli 18-20 del Levitico, che trattano assieme proprio del divieto dei rapporti omosessuali e e di quelli incestuosi, fanno riferimento all’atto di oltrepassare questo limite parlando icasticamente dell’azione di “scoprire la nudità” della persona desiderata.

La fornicazione (eterosessuale e omosessuale) e anche l’incesto (soprattutto nelle sue forme indirette) sono trasgressioni che non sempre ripugnano la nostra coscienza naturale. Per questo il Concilio di Gerusalemme ha dovuto inserire la fornicazione nell’elenco dei divieti che non ci si poteva esimere di imporre ai nuovi convertiti gentili (Atti, 15:20) e anche Paolo ha sentito il bisogno di riprovare esplicitamente fornicazione, omosessualità e incesto nelle sue lettere (in particolare in quella ai Romani e nella prima ai Corinzi).

“Non sapete che chi si unisce alla prostituta (pòrnē πόρνη) è un corpo solo con lei? Poiché – Dio dice – i due diventeranno una sola carne. (…). Fuggite la fornicazione. Ogni altro peccato che l’uomo commetta, è fuori del corpo; ma il fornicatore pecca contro il proprio corpo.” (1Corinzi, 6:16 e 18). Effettivamente, l’unione con un’altro corpo che non è fatta per durare è un danno che infliggiamo al nostro stesso futuro.

Mentre l’amicizia tra un uomo e una donna è sempre esposta al rischio di oltrepassare il limite consentito dalla legge, le amicizie tra le persone dello stesso sesso o tra i consanguinei stretti sono normalmente più libere di esprimere il loro affetto, più svincolate come sono da passioni carnali. Per questo Davide, alla morte dell’amico Gionatan, la cui anima era legata alla sua fin dalla giovinezza, ne canta il ricordo dicendo: “io sono in angoscia a motivo di te, Gionatan, fratello mio; tu mi eri molto caro, e l’amore tuo per me era più meraviglioso dell’amore delle donne.” (2Samuele 1:26). E per questo possiamo comprendere il divieto biblico dell’omosessualità e dell’incesto come la proibizione di peccati che vanno proprio contro l’amicizia, oltre che contro la famiglia. Perché tolgono all’amicizia la libertà di svilupparsi in intensità mantenendo la propria purezza.

Amicizia lunga

“L’amore fraterno  (più esattamente “amicizia fraterna” philadelphìa φιλαδελφία) rimanga tra di voi.” (Ebrei, 13:1), rimanga cioè perduri. Perché c’è sempre il rischio che qualcosa rovini l’amicizia. Infatti, così come  nasce, si forma e si consolida attraverso atti di amore, l’amicizia può anche deteriorarsi attraverso atti che mostrano mancanza di amore, volontà di sfruttamento, disinteresse di fronte ai sentimenti e ai bisogni dell’altro.

Ciò che è innanzitutto letale è la mancanza di rispetto, cioè di stima e di considerazione. La stima è fondamentale per l’amicizia. Un’importante caratteristica dell’amicizia, in rapporto all’amore, è infatti proprio il fatto che, mentre la carità cerca di portare l’amato al livello di salute o di benessere nel quale si trova colui che ama, la vera amicizia fa considerare l’amico un po’ più in alto di sè.

Sempre Gionatan, quando andò da Davide che si nascondeva nella foresta perché stava scappando dal re Saul, lo rassicurò dicendo: “Non temere; poiché Saul, mio padre, non riuscirà a metterti le mani addosso. Tu regnerai sopra Israele, e io sarò il secondo dopo di te.” (1Samuele, 23:17).

L’amicizia e l’onore che ci si rende reciprocamente sono così due realtà intimamente legate. Raccomanda infatti Paolo ai credenti: “Quanto all’amore fraterno  (parla sempre di philadelphìa φιλαδελφία), siate pieni di affetto gli uni per gli altri. Quanto all’onore, fate a gara nel rendervelo reciprocamente.” (Romani 12:10).

Quando non si stima l’amico o il fratello (come può accadere a chi disprezza se stesso, la propria famiglia o la cerchia a cui appartiene), si rischia di sfruttarlo invece che onorarlo. La parola di Dio, sempre per bocca di Paolo, ci avvisa però di un grave pericolo che corriamo nel fare così, ingiungendoci “che nessuno opprima il fratello, né lo sfrutti negli affari; perché il Signore è un vendicatore in tutte queste cose…” (1Tessalonicesi, 4:6).

Si sfrutta colui che si considera un mezzo e non un fine. Se sfruttiamo qualcuno, se ci facciamo servire da lui, dimostriamo di non volere avere con lui un rapporto di amicizia, ma di volere piuttosto instaurare un rapporto di dipendenza, perché contiamo sulla sua carità (o forse sulla sua ingenuità) per ottenere quello di cui crediamo di avere bisogno. E se siamo noi che ci lasciamo sfruttare e gli permettiamo di credere che potrà contare indefinitamente su di noi, gli stiamo mentendo (perché le nostre forze sono comunque limitate, come lo è il nostro tempo), e non gli stiamo insegnando a crescere e a imparare, invece, a contare sull’eterno e infinito amore di Dio.

Dobbiamo servire gli altri, ma anche educarli a non farsi servire. Appunto perché anche lo sfruttamento è un crimine contro l’amicizia. E se amiamo il nostro amico come noi stessi, desideriamo che anche il suo cuore cresca, non solo il nostro.

Chi sfrutta alla fine tradisce, come ha fatto Giuda con Gesù. Gesù fino alla fine l’ha chiamato “amico” (Matteo, 26:50), ma Giuda, che l’aveva sfruttato nei mesi precedenti, ha usato un finto bacio per indicare la sua identità a chi lo doveva arrestare e gli aveva promesso altri soldi.

Ma anche se non tradisce apertamente, chi sfrutta l’amico non sarà mai veramente con lui. Perché il nostro cuore è lì dove abbiamo il nostro tesoro (Matteo, 6:21), e se usiamo l’amico per qualche cosa d’altro vuole dire che il nostro tesoro non è in lui. Il vero tesoro si trova invece proprio nell’amicizia dei nostri fratelli, l’amicizia che non potremo mai avere, se vogliamo dominare su di loro.

“Voi sapete che quelli che sono reputati prìncipi delle nazioni le signoreggiano e che i loro grandi le sottomettono al loro dominio.  Ma non è così tra di voi; anzi, chiunque vorrà essere grande fra voi, sarà vostro servitore; e chiunque, tra di voi, vorrà essere primo sarà servo di tutti. Poiché anche il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti.” (Marco, 10:42-45)

Oltre al tradimento e allo sfruttamento, ci sono anche altri comportamenti che rovinano l’amicizia. Uno di questi è la mancanza di rispetto che si manifesta in un comportamento invadente.

“Metti di rado il piede in casa del tuo prossimo [la parola usata nel testo originale è sempre rea’ רֵעַ che vuol dire soprattutto “amico”], perché egli, stufandosi di te, non abbia a odiarti.” (Proverbi, 25:17).

L’invadenza non è solo fisica. Significa anche prendere il posto che non ci è stato dato. Esigere un livello di confidenza più intimo di quello che ci è stato accordato. Dare per scontata l’attenzione e la disponibilità dell’amico. Dimenticarci che siamo ospiti nel suo cuore, e che non è giusto che ci sentiamo in diritto di starci e di prendere quello che ci troviamo.

“Quando sarai invitato a nozze da qualcuno, non ti mettere a tavola al primo posto, perché può darsi che sia stato invitato da lui qualcuno più importante di te, e chi ha invitato te e lui venga a dirti: “Cedi il posto a questo!” e tu debba con tua vergogna andare allora a occupare l’ultimo posto. Ma quando sarai invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, affinché quando verrà colui che ti ha invitato, ti dica: “Amico, vieni più avanti”. Allora ne avrai onore davanti a tutti quelli che saranno a tavola con te. Poiché chiunque si innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà innalzato.” (Luca 14:8-12)

L’amicizia non costringe e non si impone mai, perché, amando il nostro amico come amiamo noi stessi, non gli vogliamo togliere la libertà e la gioia di invitarci più vicino. L’amico vero sa aspettare con pazienza.

“Figlie di Gerusalemme, io vi scongiuro per le gazzelle, per le cerve dei campi, non svegliate, non svegliate l’amore mio, finché lei non lo desideri!” (Cantico, 2:7 e 3:5)

Come imparare ad amare e a rispettare i nostri fratelli (sia quelli spirituali che quelli naturali, sia quelli facili che quelli difficili) perché possano diventare anche amici sarà, con l’aiuto del SIGNORE, il tema della seconda parte di questa meditazione.

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