Settima parola: non commettere adulterio

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Esodo, 20:14 Non commettere adulterio.

Dopo il sesto comandamento (“non commettere omicidio”), anche questo settimo è molto breve. In ebraico è ancora più breve che in italiano. Come il sesto e l’ottavo, è composto da due sole parole: lo’ thin’af (לֹא תִּנְאָֽף), la particella negativa lo’, che si usa per i divieti di legge, e l’imperfetto/futuro di na’af , un verbo la cui radice ha a che fare con il volgersi da un’altra parte, e che significa specificamente “commettere adulterio”.

Tra l’uno e l’altro comandamento sembra che la parola di Dio faccia un salto molto grande, passando da un crimine che è riconosciuto come tale in ogni tempo e in ogni cultura a un altro che oggi in Italia, legalmente, non è neanche più un reato. Ma non è successo per caso che questo comandamento abbia perso di valore legale per la nostra società; è accaduto, piuttosto, perché, dal punto di vista di quello che riusciamo a capire, può davvero sembrare che con l’adulterio non sia successo niente di grave: “Tale è la condotta della donna adultera: mangia, si pulisce la bocca, e dice: Non ho fatto nulla di male.” (Proverbi, 30:20).

Certamente non è così per Dio. Nella Legge data a Israele attraverso Mosè, l’adulterio era punito con la morte (Levitico, 20:10). E contro questo peccato il Nuovo Testamento non è più indulgente dell’Antico. Nella Lettera agli Ebrei troviamo infatti scritto: “Sia il matrimonio tenuto in onore da tutti, e sia il talamo incontaminato; poiché Dio giudicherà i fornicatori e gli adulteri.” (Ebrei, 13:4). Anche Paolo tratta questo peccato alla stregua degli altri: “Non v’illudete; né fornicatori, né idolatri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né oltraggiatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio.” (1Corinzi, 6:9).

Anzi, mentre la Legge mosaica permette il divorzio, Gesù ha negato questa possibilità ai suoi discepoli, insegnando che si rende colpevole di adulterio sia chi ripudia la moglie, sia chi sposa una moglie ripudiata da un altro (“Fu detto: Chiunque ripudia sua moglie le dia l’atto di ripudio. Ma io vi dico: chiunque manda via sua moglie, salvo che per motivo di fornicazione, la fa diventare adultera e chiunque sposa colei che è mandata via commette adulterio.” Matteo, 5:31-32).

Con il Nuovo Testamento, il matrimonio riceve insomma uno statuto ancora più sacro e inviolabile di quello che aveva con l’Antico. In un’altra occasione, i discepoli a quest’affermazione di Gesù hanno detto: “Se tale è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene prender moglie.” (Matteo, 19:10). Il ripudio infatti doveva essere un fondamentale strumento di controllo sulle mogli, oltre che un facile modo di disfarsene quando diventavano vecchie.

Gesù ci ricorda che il ripudio è un gesto che viene dalla durezza del cuore dell’uomo, cioè dal nostro egoismo, non dal SIGNORE. Infatti così era considerato già negli scritti dell’Antico Testamento: “Poiché io odio il ripudio, dice il SIGNORE, Dio d’Israele; chi ripudia copre di violenza la sua veste, dice il SIGNORE degli eserciti. Badate dunque al vostro spirito e non siate sleali.” (Malachia, 2:16).

A maggior ragione, anche l’adulterio è, in sé, un atto di violenza. La storia dell’adulterio di Davide con Batsheba è una chiara illustrazione di come questo peccato sia strettamente collegato all’omicidio (oltre che ai peccati vietati dai tre comandamenti che seguono sulla stessa tavola della Legge: non rubare, non dire bugie e non desiderare le cose del tuo prossimo). Lo dicono molto bene le terribili parole che il profeta Natan rivolge a Davide, dopo avergli raccontato una parabola che lo ha aiutato a capire cosa aveva fatto: “Perché dunque hai disprezzato la parola del SIGNORE, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai fatto uccidere Uria, l’Ittita, hai preso per te sua moglie e hai ucciso lui con la spada dei figli di Ammon. Ora dunque la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, perché tu mi hai disprezzato e hai preso per te la moglie di Uria, l’Ittita” (2Samuele, 12:9-10).

Come con l’omicidio, anche con l’adulterio c’è infatti qualcosa che muore e c’è qualcuno che causa questa morte. Anche se, nel caso dell’adulterio, normalmente a morire non è una persona fisica. Muore comunque una realtà personale: il rapporto di fiducia tra i due coniugi, la loro unione, che è una realtà complessa e vivente, superiore a quella della somma delle due vite che si sono unite in matrimonio.

Discutendo con i farisei che erano venuti a metterlo alla prova per dimostrare che insegnava cose diverse da Mosè, Gesù si è riferito a questa unità, e all’importanza che le è data proprio nell’insegnamento di Mosè, in particolare all’inizio del libro della Genesi. Infatti “egli rispose loro: Non avete letto che il Creatore, da principio, li creò maschio e femmina e che disse: Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre, e si unirà con sua moglie, e i due saranno una sola carne? Così non sono più due, ma una sola carne; quello dunque che Dio ha unito, l’uomo non lo separi. Essi gli dissero: Perché dunque Mosè comandò di scriverle un atto di ripudio e di mandarla via? Gesù disse loro: Fu per la durezza dei vostri cuori che Mosè vi permise di mandare via le vostre mogli; ma da principio non era così.” (Matteo, 19:4-8).

Come recita “il grande e primo comandamento” (secondo le parole usate dallo stesso Gesù per definire, in Matteo 22:38, quello che gli ebrei tuttora chiamano lo Shem’à), il SIGNORE, il nostro Dio, è uno. Dio è cioè un individuo, una realtà personale e indivisibile. Per questo lo possiamo e lo dobbiamo amare con tutto noi stessi, essendo anche noi indivisi nel nostro amore per lui (Deuteronomio, 6:4-5). Perché siamo a immagine e somiglianza di Dio proprio in quanto dotati dal nostro Creatore di questa unità personale e indivisibile. È nell’integrità della persona che sta la possibilità per l’uomo di avere comunione con Dio.

Infatti, come abbiamo già approfonditamente considerato in un altro articolo, il testo di Genesi 1:27 (“Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina”), uno dei passi a cui si riferisce Gesù quando insiste sull’unità tra l’uomo e la donna, ci suggerisce che noi uomini siamo a immagine di Dio proprio perché siamo stati creati maschio e femmina, cioè, come possiamo comprenderlo oggi, perché la natura umana, a somiglianza di quella di Dio, è un delicato equilibrio tra maschile e femminile, o, in altri termini, usando l’etimologia ebraica, tra memoria e sensazione, o ancora, per dirlo con parole più moderne, tra globale e locale. Un equilibrio e un’unità che nel matrimonio si incarnano nella reciproca fedeltà tra marito e moglie. Per questo non sta a noi di rompere il legame matrimoniale, come non sta a noi di togliere la vita.

È in questo senso, profondo e misterioso, che l’adulterio si avvicina all’omicidio. Il tradimento della promessa matrimoniale è la rottura di un’unità che corrisponde a una condivisione non solo fisica, ma anche e soprattutto di conoscenza: una nuova coscienza, una nuova persona. E questo peccato è innanzitutto un peccato contro Dio e contro il suo piano per l’uomo.

L’uomo naturale di cui parla Paolo (psychikòs ànthrōpos ψυχικὸς ἄνθρωπος, 1Corinzi, 2:14) rischia sempre di scivolare nell’adulterio, anche per semplice ignoranza; perché, senza l’aiuto di Dio, non si riesce a comprendere il valore e la portata del matrimonio, che è la via creata da Dio perché noi uomini potessimo realizzare il secondo grande comandamento, che Gesù dichiara simile al primo: “ama il tuo prossimo come te stesso.” (Matteo 22:39).

Paolo approfondisce questo tema in un passo della Lettera agli Efesini, in cui il rapporto tra marito e moglie è ricondotto a quello tra Cristo e la Chiesa, cioè tra il Re dell’Universo, che raggiunge ogni luogo e ogni era, e il suo popolo, i cui membri sono sempre confinati in una precisa regione spazio-temporale, ma sono anche invitati a guardare in alto, verso l’eternità di Cristo (Colossesi, 3:1-2), il quale a sua volta si prende cura di tutto quello che avviene nel tempo, perché vive sempre per intercedere per noi (Ebrei, 7:25). Queste nozze tra l’eternità e il tempo sono il Regno preparato dalla fondazione del mondo per coloro che gli saranno stati fedeli e avranno amato il loro prossimo come se stessi (Matteo, 25:34-46).

“Mogli, siate sottomesse ai vostri mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della chiesa, lui, che è il Salvatore del corpo. Ora come la chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli devono essere sottomesse ai loro mariti in ogni cosa.
Mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei, per santificarla dopo averla purificata lavandola con l’acqua della parola, per farla comparire davanti a sé, gloriosa, senza macchia, senza ruga o altri simili difetti, ma santa e irreprensibile. Allo stesso modo anche i mariti devono amare le loro mogli, come la loro propria persona. Chi ama sua moglie ama se stesso. Infatti nessuno odia la propria persona, anzi la nutre e la cura teneramente, come anche Cristo fa per la chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diverranno una carne sola. Questo mistero è grande; dico questo riguardo a Cristo e alla chiesa. Ma d’altronde, anche fra di voi, ciascuno individualmente ami sua moglie, come ama se stesso; e altresì la moglie rispetti il marito. ” (Efesini, 5:22-33).

La Bibbia in sostanza ci dice che il matrimonio è una realtà infinitamente più grande di quanto gli stessi coniugi possano capire, perché è innanzitutto un’incarnazione del rapporto tra Dio e il suo popolo, tra Cristo e la sua Sposa, nella quale siamo chiamati ad amarci gli uni gli altri per amore dello Sposo, che ci ha detto di amarci dello stesso amore con cui lui ha amato noi (Giovanni 13:34).

Il nome profetico di Gesù è Emmanuele “che tradotto vuol dire: Dio con noi” (Matteo, 1:23), perché è nello stare con noi che Dio ci salva dai nostri peccati (Gesù, Yeshu’a significa appunto “Il SIGNORE è salvezza”). Per quanto numerosi possano essere i nostri amici, la vita senza Dio è vita da soli, e, viceversa, la vita da soli, la vita per i nostri interessi, è vita senza Dio. Il matrimonio è una rinuncia a noi stessi e ai nostri comodi, per vivere sempre con un altro. Lo stesso è – o dovrebbe essere – la vita nella Chiesa, che è vita con gli altri perché è vita con Dio.

La triste vicenda di Davide e Batsheba ci mostra anche da dove e come nasca l’adulterio: “L’anno seguente, nella stagione in cui i re cominciano le guerre, Davide mandò Ioab con la sua gente e con tutto Israele a devastare il paese dei figli di Ammon e ad assediare Rabba; ma Davide rimase a Gerusalemme. Una sera Davide, alzatosi dal suo letto, si mise a passeggiare sulla terrazza del palazzo reale; dalla terrazza vide una donna che faceva il bagno. La donna era bellissima.” (2Samuele, 11:1-2).

Davide era diventato re, aveva compiuto abbastanza imprese da rimanersene a casa, mentre i suoi uomini erano alla guerra. Aveva tutto quello che un uomo poteva desiderare. Ma tutto ciò, evidentemente, non lo appagava, o non sempre, almeno. L’adulterio viene dalla solitudine e dall’insoddisfazione di quello che si ha, cioè dal desiderio di avere di più di quello che Dio ci ha dato, perché ciò che abbiamo non ci emoziona più. O, forse meglio, perché la nostra sete più profonda non può essere soddisfatta da niente e da nessuno se non da Dio stesso. E non sempre lo si capisce in tempo.

Comunque sia, il desiderio che ha portato Davide all’adulterio appare rientrare nella categoria che Paolo identifica con l’idolatria, un desiderio che nasce dall’immaginazione e che parte da ciò che abbiamo già visto e provato, e che vogliamo provare ancora (cf. Colossesi 3:5, dove il termine greco per “cupidigia” – pleonexìa, πλεονεξία – ha proprio il senso di “voler avere di più”).

Nel caso dell’adulterio, normalmente, si vogliono riprovare le emozioni che si sono provate la prima volta che ci si è innamorati (e poi magari anche la seconda, ecc.), e che con il coniuge non si provano più, o non si sono mai provate. In cerca di qualcosa che possa appagare il nostro bisogno insoddisfatto, ci rivolgiamo altrove, fuori del matrimonio. Cosa che la sapienza di Dio ci consiglia caldamente di non fare. “Sia benedetta la tua fonte, e trova gioia nella sposa della tua gioventù. Cerva d’amore, capriola di grazia, le sue carezze t’inebrino in ogni tempo, e sii sempre rapito nell’affetto suo. Perché, figlio mio, ti innamoreresti di un’estranea, e abbracceresti il seno della donna altrui?” (Proverbi, 5:18-20).

L’adulterio nasce dall’immaginazione, che cerca una via di fuga da una realtà che appare come una prigione (e a volte lo è davvero). La “donna estranea” è qualcuno che non conosciamo ancora, ma che immaginiamo possa emozionarci di più e meglio di colei che crediamo di conoscere già. Un’illusione che viene anche dal fatto che ci appoggiamo sulle nostre idee e sui nostri sentimenti più che sulla realtà della parola (quella di Dio e anche la nostra, che abbiamo dato come promessa di fedeltà quando ci siamo sposati). Il ché è del tutto naturale, ma proviene appunto dalla durezza dei nostri cuori, e non è come era in principio e come sarà alla fine. Cioè non è secondo la buona e perfetta volontà di Dio.

Davide, parlando a Dio di quello che aveva fatto, l’ha confessato apertamente: “Ho peccato contro di te, contro te solo…” (Salmi 51:4). Perciò l’adulterio non è soltanto la scelta di un altro coniuge, ma innanzitutto la scelta di non considerare il progetto di Dio. La scelta di seguire i propri sogni e le proprie immaginazioni, piuttosto che la realtà della vita così come ci è stata donata.

La decisione, anche, di lasciare la vita a due (che è anche la vita in comunità, perché dove ci sono separazione e adulterio, la vita sociale non ha la stessa armonia che si forma quando le famiglie sono unite), per camminare da soli con le proprie fantasie, seguendo i propri interessi, piuttosto che un progetto comune. Perché, come è scritto, “chi si separa dagli altri cerca solo il proprio interesse e si oppone a tutto ciò che è giusto” (Proverbi 18:1).

Invece, dal secondo capitolo della Genesi impariamo che il progetto del matrimonio è in vista della benedizione dell’uomo, perché nasce dalla considerazione, fatta dallo stesso SIGNORE, che “non è bene che l’uomo rimanga da solo.” (Genesi, 2:18). Dio ha voluto dare all’uomo qualcuno con cui potesse confrontarsi (letteralmente: quello che la nostra traduzione rende con “un aiuto che fosse adatto a lui”, in ebraico è ‘ezer khenegdò עֵזֶר כְּנֶגְדֹּֽו, cioè “un aiuto che gli stia di fronte”). Il progetto di Dio è quello di fare dell’uomo ( nel senso di Homo sapiens, maschio e femmina) una creatura in grado di amare, cioè di formare un’unità. E non si può costituire una vera unità (un’unità non banale, direbbero forse i matematici) se non si è almeno in due.

Certo, l’adulterio non è solitario come la fornicazione, perché, almeno inizialmente, mira a formare un’altra coppia. Ma un’altra unità viene distrutta, quando non due. E quell’omicidio rischia di diventare seriale… Perché il bisogno che lo genera non è facilmente soddisfatto da un’altro essere umano. Il problema rimane sempre quello: in nome di chi si forma la nuova unione? Quando è vero amore? Salomone ha scritto: “Due valgono meglio di uno solo, perché sono ben ricompensati della loro fatica. Poiché, se uno cade, l’altro rialza il suo compagno; ma guai a colui ch’è solo, e cade senza avere un altro che lo rialzi! Così pure, se due dormono assieme, si riscaldano; ma chi è solo, come farà a riscaldarsi? E se uno tenta di sopraffare colui che è solo, due gli terranno testa; una corda a tre capi non si rompe così presto.” (Ecclesiaste, 9:12). Dove il terzo capo della corda è da intendere appunto come il vero amore, quello del SIGNORE.

La disobbedienza dell’uomo in Eden lo ha portato a cadere nell’egoismo, perdendo l’innocenza e la gioia con cui aveva ricevuto il dono di essere stato moltiplicato per due, e che ha espresso esclamando: “questa finalmente è ossa delle mie ossa e carne della mia carne!” (Genesi, 2:23). Infatti poi, quando il SIGNORE gli ha chiesto chi gli avesse dato da mangiare del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, l’uomo non ha esitato ad accusare sua moglie: “La donna che tu mi hai messa accanto, è lei che mi ha dato del frutto dell’albero, e io ne ho mangiato.” (Genesi, 3:12). Da allora, il matrimonio è un’istituzione precaria, come è instabile il nostro rapporto con Dio.

E anche oggi la nostra natura egoista rimane sempre lì, sullo sfondo (quando non emerge con prepotenza). Per questo Gesù non solo è dovuto morire lui, ma ci ha anche detto che dobbiamo farlo pure noi, quotidianamente. Perché l’unica soluzione al problema del nostro egoismo è la nostra croce, da prendere ogni giorno, ogni giorno riconoscendo cioè che questa nostra natura deve morire, perché ha desideri morti, che non hanno futuro davanti a Dio, e va quindi messa a morte assieme a tutte le opere che compie, più o meno automaticamente (Romani, 8:12-13).

La nostra tendenza a calcolare, a pensare cioè in termini di ciò che accresce la nostra immagine, i nostri punti, il nostro valore, i nostri soldi, il nostro mucchio (la “Mammonà” di Matteo 6:24 e Luca 16:13), corrisponde in fondo al desiderio di far fare agli altri quello che vogliamo noi. Il desiderio di vivere con qualcosa con cui non dobbiamo realmente interagire, come le immagini che, fisse o in movimento che siano, non ci impegnano in un rapporto vivo, non mettono in questione la nostra vita.

Ma noi sì che la compromettiamo, quando passiamo il nostro tempo con loro, dando loro la nostra vita, il nostro tempo e le nostre emozioni, come accade quando ci identifichiamo con delle immagini, che sono realtà morte, che non possono veramente interagire con noi. Degli idoli Davide ha scritto che “hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno naso e non odorano, hanno mani e non toccano, hanno piedi e non camminano, la loro gola non emette alcun suono”. E ha aggiunto: “come loro sono quelli che li fanno, tutti quelli che in essi confidano.” (Salmi, 115:5-8). Se guardiamo un essere vivente sappiamo di essere anche guardati, ci mettiamo in qualche modo in comunicazione con lui, e tanto più lo conosciamo quanto più sappiamo di essere conosciuti.

Gesù ha detto che la lampada del corpo è l’occhio, ma che per vedere veramente avere l’occhio non basta, perché la sua luce può essere anche tenebre, e noi possiamo illuderci di vedere la realtà, mentre vediamo solo quello che ci interessa. “La lampada del corpo è l’occhio. Se dunque il tuo occhio è limpido [il termine greco haplous ἁπλοῦς significa “non piegato, diretto”], tutto il tuo corpo sarà illuminato; ma se il tuo occhio è malvagio, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è tenebre, quanto grandi saranno le tenebre!” (Matteo, 6:22-23).

La nostra luce diventa tenebre quando quello che facciamo lo facciamo pensando di essere soli, lontani da Dio, e lo facciamo quindi per noi stessi; cosa che accade automaticamente quando agiamo non per dare, ma per prendere. Anche quando guardiamo soltanto , se guardiamo per prendere. Il nostro sguardo diventa torbido, le nostre azioni quasi automatiche. Come è successo a Davide, che ha visto una bellissima donna che faceva il bagno, e se l’è voluta prendere per sé, come se fosse una cosa. Per quanto fosse bella proprio perché pulsava di vita, l’ha presa come qualcosa di morto. Ha dimenticato tutto ciò che sapeva essere giusto e santo, e anche il fatto che quella donna aveva una sua vita, una famiglia, delle persone care, un marito.

Nel nostro raffronto tra le “dieci parole” e la preghiera del Padre nostro, questo settimo comandamento corrisponde bene alla richiesta di “non esporci alla tentazione” (Matteo, 6:13), la quale, oltre a essere una richiesta, è anche una confessione della nostra debolezza spirituale e della nostra sostanziale mancanza di sapienza, del fatto cioè che siamo sempre molto più sensibili a quello che vediamo e che possiamo giudicare e apprezzare con i nostri occhi, che al giudizio e alla realtà di Dio, che ancora non vediamo e che non capiamo quanto ci tocchino. Veniamo cioè facilmente tentati a non ascoltare la parola di Dio, prestando piuttosto attenzione alle nostre sensazioni e ai nostri sentimenti.

È così che il peccato comincia il suo lavoro, nel nostro cuore. Come scrive Giacomo nella sua lettera alle dodici tribù di Israele: “Nessuno, quand’è tentato, dica: Sono tentato da Dio; perché Dio non può essere tentato dal male, ed egli stesso non tenta nessuno; invece ognuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce. Poi la concupiscenza, quando ha concepito, partorisce il peccato; e il peccato, quando è compiuto, produce la morte.” (Giacomo, 1:13-15).

La tentazione viene a causa del nostro desiderio, che è innescato soprattutto dallo sguardo. Anche all’inizio, “la donna vide che l’albero era buono per nutrirsi, che era bello da vedere e che l’albero era desiderabile per acquistare conoscenza.” (Genesi, 3:6). È quello che vediamo, e che giudichiamo con la nostra limitatissima conoscenza del bene e del male, che ci porta sulla strada della morte. Per questo Gesù insegna a stare attenti a come si guarda, a quali sono cioè le nostre motivazioni quando guardiamo qualcosa o qualcuno: “Voi avete udito che fu detto: Non commettere adulterio. Ma io vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.” (Matteo 5:27-28).

La tentazione infatti non è solo quella di unirsi alla “donna estranea” per il momentaneo piacere che possiamo trarre dal suo corpo. Di nuovo, il punto non è solo l’atto fisico, ma anche, e soprattutto, le ragioni che lo motivano. Non pecchiamo solo contro il nostro coniuge o contro il coniuge della persona sposata con cui desideriamo unirci, pecchiamo contro l’amore e la pace di Dio, perché ci lasciamo guidare dal nostro desiderio carnale, che non è mai quello dello Spirito Santo (Galati, 5:16-17).

Fin dai tempi antichi, gli uomini, per quanto fossero stati generati da Dio sono andati dietro ai loro sguardi e alle loro immaginazioni. Per questo Dio ha distrutto la terra con il diluvio (Genesi, 6), e per questo, molti secoli dopo, ha bruciato Sodoma e Gomorra, facendo piovere fuoco e zolfo su quelle città (Genesi, 19:24). E per queste cose distruggerà ancora questo mondo (Luca, 17:26-32). Come anche Paolo ha scritto, per ben due volte: “per queste cose l’ira di Dio viene sugli uomini ribelli.” (Efesini, 5:6; Colossesi 3:6).

Gesù, parlando dei suoi connazionali, li ha più volte chiamati “generazione malvagia e adultera” (Matteo 12:39 e 16:4; Marco 8:38). Lo stesso, in diversi modi, avevano fatto vari profeti, a cominciare da Mosè. Ma le cose non vanno certo meglio oggi. Se il popolo di Israele ha peccato di adulterio contro il SIGNORE che l’aveva fidanzato a sé (Geremia, 2:2), gli altri popoli non hanno mai smesso di fornicare con i diversi idoli che il diavolo li ha indotti a formarsi. E l’idolatria, in un modo o nell’altro, è entrata fin dall’inizio anche nella Chiesa, i cui membri non saranno risparmiati dal giudizio solo perché si ammantano del nome di Cristo (Matteo, 7:22-23). Tutt’al contrario, infatti “il giudizio deve cominciare dalla casa di Dio” (1Pietro, 4:17)

Gesù certo è venuto per salvare gli uomini e non per condannarli, ma, anche se ha spesso sgridato chi si sentiva abbastanza giusto da condannare i peccati degli altri, non ha mai incoraggiato nessuno a peccare. Conosciamo bene la storia dell’adultera colta in flagrante adulterio e portata da Gesù, per poterlo accusare di insegnare cose diverse da quelle insegnate da Mosè. “Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere con il dito in terra. E, siccome continuavano a interrogarlo, egli, alzato il capo, disse loro: Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei. E, chinatosi di nuovo, scriveva in terra. Essi, udito ciò, e accusati dalla loro coscienza, uscirono a uno a uno, cominciando dai più vecchi fino agli ultimi; e Gesù fu lasciato solo con la donna che stava là in mezzo. Gesù, alzatosi e non vedendo altri che la donna, le disse: Donna, dove sono quei tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannata? Ella rispose: Nessuno, Signore. E Gesù le disse: Neppure io ti condanno; va’ e non peccare più.” (Giovanni, 8:3-11).

Questo episodio ci fa vedere, tra le altre cose, quanto generalizzato sia il peccato che il settimo comandamento ordina di non commettere. E che se anche ci sforziamo di nasconderlo agli occhi degli uomini, non possiamo riuscirci davanti agli occhi del SIGNORE, che “sono in ogni luogo, e osservano i cattivi e i buoni” (Proverbi, 15:3).

Ci mostra anche che, se Gesù perdona la peccatrice, non è però indulgente verso il peccato. Perché è venuto a prendere su di sè l’ira di Dio e a berne fino in fondo la coppa, ma non affinché potessimo restare stolti come prima, continuando a peccare impunemente. Piuttosto perché potessimo scegliere di non peccare più, decidendo per la vita matrimoniale, cioè per la fedeltà verso Dio e verso il nostro prossimo.

Queste sono le “nozze dell’Agnello” a cui siamo stati invitati a partecipare in prima persona. Ne parla l’apostolo Giovanni nella sua Apocalisse, verso la fine del libro: “Poi udii come la voce di una gran moltitudine e come il suono di molte acque e come il rumore di forti tuoni, che diceva: Alleluia! poiché il Signore Iddio nostro, l’Onnipotente, ha preso a regnare. Rallegriamoci e giubiliamo e diamo a lui la gloria, poiché son giunte le nozze dell’Agnello, e la sua sposa s’è preparata; e le è stato dato di vestirsi di lino fino, risplendente e puro; poiché il lino fino son le opere giuste dei santi. E l’angelo mi disse: Scrivi: Beati quelli che sono invitati alla cena delle nozze dell’Agnello. E mi disse: Queste sono le veraci parole di Dio. ” (Apocalisse, 19:6-9).

Il dettaglio delle vesti degli invitati alle nozze, che erano tessute in “lino fino, risplendente e puro” – con la spiegazione del significato di quelle vesti, che simbolizzano il candore della vita delle persone che le indossano – appare anche in una delle ultime parabole raccontate da Gesù, quella del banchetto che un re aveva preparato per le nozze del figlio. Siccome gli invitati a quelle nozze non avevano risposto all’invito, il re, adirato, aveva mandato i suoi servi in strada a invitare tutti quelli che avrebbero trovato . “E quei servi, usciti per le strade, radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni; e la sala delle nozze fu piena di commensali. Ora il re entrò per vedere quelli che erano a tavola e notò là un uomo che non aveva l’abito di nozze. E gli disse: Amico, come sei entrato qui senza avere un abito di nozze? E costui rimase con la bocca chiusa. Allora il re disse ai servitori: Legatelo mani e piedi e gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridor dei denti. Poiché molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti” (Matteo, 22:10-14).

I primi invitati sono chiaramente il popolo di Israele che, almeno nella persona delle sue autorità, non ha accettato l’invito del re (anzi, alcuni “presero i suoi servi, li maltrattarono e li uccisero” Matteo, 22:6). Le persone raccolte per strada sono invece innanzitutto gli ebrei del popolo, poi quelli della Galilea (considerata terra di stranieri), poi gli ellenisti, i samaritani e alla fine anche noi goyim, che proveniamo da tutte le nazioni del mondo e non siamo stati educati al matrimonio, ma piuttosto alla fornicazione e all’idolatria.

Invitati alle nozze del Re dell’Universo, dovremmo renderci conto dell’immenso onore che abbiamo ricevuto, immeritatamente, e cambiare perciò completamente stile di vita. Ma può anche succedere che si faccia poco conto della grazia che ci è stata fatta. Per questo è necessario che i convertiti siano istruiti, cominciando dagli insegnamenti più importanti, che sono appunto quelli che si riferiscono alla purezza della vita matrimoniale e del servizio al SIGNORE.

Messi di fronte al problema se ai nuovi converiti fosse opportuno imporre tutte le regole della Legge mosaica, il primo concilio degli anziani riuniti a Gerusalemme ha deciso di ascoltare il parere di Giacomo che, sulla base delle Scritture, indicava “che non si dia molestia a quelli dei Gentili che si convertono a Dio; ma che si scriva loro di astenersi dalle cose contaminate nei sacrifizî agl’idoli, dalla fornicazione, dalle cose soffocate, e dal sangue. Poiché Mosè fin dalle antiche generazioni ha chi lo predica in ogni città, essendo letto nelle sinagoghe ogni sabato.” (Atti, 15:19-21).

L’abito delle nozze non è solo apparenza o esteriorità, anzi. Di fatto, nella parabola solo il re ha visto che quel convitato non lo indossava: si tratta piuttosto dell’intima fedeltà, innanzitutto al SIGNORE, che porta poi anche alle scelte esteriori della nostra vita pratica. In un’altra delle ultime parabole (Matteo, 25:1-13), ad aspettare lo sposo ci sono dieci vergini, ma alla fine potranno entrare nella camera delle nozze solo le cinque che avranno avuto l’accortezza di procurarsi e conservare un deposito di olio, senza il quale la lampada non serve a nulla. E il corpo rimane nelle tenebre.

Il senso di queste parabole non è certo quello di spaventarci, o di spingere alla disperazione chi si sente un peccatore perduto. Piuttosto quello di incoraggiare chi crede già all’amore di Dio – altrimenti non starebbe ad ascoltare – a crederci più profondamente, e di portarci al ravvedimento attraverso la consolazione che ci dà sapere che Dio ci ha amato al punto di darci il suo figlio unigenito, e desidera che anche noi lo amiamo con tutto il nostro cuore, e che onoriamo suo figlio (Salmi, 2:12).

Ravvedimento e consolazione in ebraico si esprimono con la stessa radice, quella del verbo nacham נָחַם, che si riferisce a un “cambiamento interiore”. Perché è la bontà di Dio che ci spinge al ravvedimento (Romani, 2:4). E fa sì che acquistiamo sapienza, e non siamo troppo esposti alle trappole del tentatore.

Prima di chiedere di non essere esposti a tentazione, Gesù ci ha insegnato a chiedere perdono per i nostri peccati. Come il perdono dei peccati altrui è una precondizione per essere perdonati dal Padre (Matteo, 6:13-14), il ravvedimento, necessario per chiedere e ottenere il perdono dei nostri peccati contro Dio (Salmi, 51:4), è anche la condizione necessaria per richiedere e ottenere di essere protetti dalla tentazione.

La risposta a questa richiesta, la vera cura e protezione contro la tentazione di tradire lo Sposo celeste (e il nostro coniuge nella vita terrena) è data all’angelo della chiesa di Efeso nella prima delle lettere alle sette chiese dell’Apocalisse: “… ho questo contro di te: che hai abbandonato il tuo primo amore. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti, e compi le opere di prima; altrimenti verrò presto da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto, se non ti ravvedi.” (Apocalisse, 2:4-5).

Dice un proverbio che “al cuore non si comanda”, intendendo con ciò che non si può decidere se e quando amare qualcuno. Questo perché per amore in italiano normalmente si intende quel particolare affetto reciproco che dall’amicizia può passare al bacio (phìlēma φίλημα), spingendosi poi fino all’unione sessuale. L’amore di cui parla quella lettera, e di cui in generale parla la legge di Dio, è l’amore che guarda ai bisogni dell’amato e trova piacere nel soddisfarli (l’amore che nel greco del Nuovo Testamento è espresso dal termine agàpē ἀγάπη). L’amore che Gesù ci dice di avere anche per i nostri nemici (Matteo, 5:44).

Certamente, anche questo orientamento non può essere raggiunto senza l’aiuto di Dio, ma, come vedremo meglio considerando la prossima parola, dipende fondamentalmente dal riconoscere la nostra mancanza, e da una disposizione interiore ad operare in una prospettiva diversa da quella del nostro egoismo, cioè non più orientati a prendere, ma piuttosto a dare, considerando non solo i nostri bisogni, ma anche e innanzitutto quelli del nostro prossimo (Filippesi, 2:4).


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