Decima parola: non desiderare i beni del tuo prossimo

Esodo, 20:17 Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo.

Parlando del settimo comandamento, abbiamo già ricordato come Gesù insegnasse secondo uno standard di santità più elevato di quello della tradizione farisaica, che si concentrava sulle azioni da compiere o non compiere, più che sul cuore con cui venivano compiute (anche se, certamente, non mancava quelli che leggevano correttamente le Scritture). Gesù aveva infatti insegnato: “Voi avete udito che fu detto: Non commettere adulterio. Ma io vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore. ” (Matteo, 5:27-28).

Gesù non aveva alcun bisogno di mostrarsi originale o trasgressivo rispetto all’insegnamento di Mosè. Spiegava piuttosto quale fosse il senso spirituale della Legge, e di tutte le Scritture. Né la Legge, né i Profeti, o gli Scritti sapienziali avevano mai insegnato qualcosa di diverso da quello che era venuto a insegnare. Aveva infatti dichiarato “La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato” (Giovanni, 7:16).

Infatti allo Spirito santo non è mai interessato altro se non il nostro cuore, cioè la nostra vita interiore. E, quando sgrida il formalismo dei farisei, Gesù cita proprio le Scritture: “Ipocriti! Ben profetizzò Isaia di voi quando disse: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me.” (Matteo, 15:7-8). Il cuore è infatti riconosciuto dalle Scritture come la sorgente delle nostre azioni e di tutta la nostra vita. “Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa, poiché da esso provengono le sorgenti della vita.” (Proverbi, 4:23). Salomone insegna anche che se amiamo veramente noi stessi, cerchiamo di sviluppare la nostra vita interiore: “Chi acquista cuore (qoneh-lev קֹֽנֶה־לֵּב) ama se stesso” (Proverbi, 19:8a). Così, se amiamo il nostro prossimo come noi stessi, lo consideriamo come qualcuno che deve crescere interiormente. Ma questo è esattamente ciò che non facciamo quando desideriamo le sue cose. Quando cioè, anziché il suo bene, desideriamo i suoi beni.

È in questo senso che possiamo leggere quest’ultimo comandamento, ricollegandolo così a tutti i precedenti.

Abbiamo visto che i comandamenti di questa “seconda tavola”, quella che – come abbiamo detto – regola i rapporti con il nostro prossimo (i nostri “pari”), trattano reati che vanno dai più rari ai più comuni, i quali però, anche questo l’abbiamo già detto, non sono per questo i meno gravi. Sono soltanto i peccati meno appariscenti, o, se vogliamo, i più nascosti. Quelli che è più difficile scovare, ma che non sfuggono certo a Dio, che, secondo l’annuncio che l’apostolo Paolo chiama il suo vangelo, “giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo.” (Romani, 2:16). Nemmeno sono i meno dannosi, ma anzi, essendo peccati più profondi, sono in realtà quelli che portano le più disastrose e generalizzate conseguenze.

Questo decimo e ultimo comandamento riprende e riassume in modo abbastanza evidente i precedenti comandamenti della tavola. Desiderare le cose del prossimo anziché il prossimo stesso significa infatti trasformarlo nel nostro cuore in una cosa, equivale quindi a ucciderlo, operazione che l’invidia talvolta porta a compiere anche fisicamente, come nel prototipico caso di Caino (sesta parola). Desiderare sua moglie è il primo passo per commettere adulterio (settima parola). Invidiargli i servi, gli animali e le cose che possiede significa desiderare di rubargli i suoi beni (ottava parola). Infine, ospitare nel cuore tutti questi desideri non è certo la via per dirgli la verità, né su di lui o per lui, né tanto meno su di noi (nona parola), appunto perché non ci importa tanto di lui e del nostro rapporto con lui, ma piuttosto della sua roba.

Ora, nella Bibbia le ripetizioni non sono mai irrilevanti o sprovviste di senso, ci invitano anzi a una più approfondita riflessione sul tema su cui insistono. Consideriamo dunque questa decima parola più da vicino. Vediamo che ci dice di non desiderare qualcosa. Il verbo usato per esprimere l’azione di desiderare – chamad חָמַד – significa “provare piacere”, e ha in sé la radice del “calore” chet+mem, con probabile riferimento al calore generato dal desiderio. Vediamo anche che, in realtà, l’oggetto del desiderio proibito è costituito sia da cose che da persone. Come se l’autore del comandamento ne volesse confondere la natura. Cosa che però non può certo accadere agli occhi di Dio.

La mescolanza, piuttosto, è da collegarsi al fatto che cose e persone tendono a confondersi proprio agli occhi di chi può (e non deve) commettere il peccato, cioè noi uomini. Infatti, se la consideriamo con maggiore attenzione, vediamo che questa parola, come la precedente, è centrata sul nostro prossimo (quello stesso prossimo che siamo chiamati ad amare come noi stessi), e il divieto riguarda proprio la confusione che facciamo noi, quando non pensiamo al nostro prossimo come a qualcuno da amare e rispettare come abbiamo bisogno di essere amati e rispettati noi, ma lo vediamo piuttosto come un detentore di oggetti che vorremmo fossero nostri piuttosto che suoi. Per questo anche sua moglie e i suoi servi sono persone che vengono considerate come oggetti del nostro desiderio, diventando così in ultima analisi delle cose. E lui stesso, il nostro “amico”, non ci interessa più per quello che è, ma per quello che ha e che noi potremmo prendergli.

In realtà, se ci riflettiamo ancora, vediamo che il materialismo che si esprime nel desiderare le cose e le persone che appartengono al nostro prossimo è all’origine di tutti i peccati, anche di quelli evidenziati dalle parole della prima delle due tavole della Legge. A cominciare dal disprezzo dei genitori quando diventano vecchi e non ci possono più dare niente ma hanno loro bisogno di ricevere da noi aiuto e sostentamento (quinta parola). È questo stesso materialismo a ingenerare poi la nevrosi che ci fa considerare il riposo sabbatico come un’assurda perdita di tempo e di denaro (quarta parola). Se pensiamo alle cose e non alle persone, non potremo nemmeno dare la giusta importanza al Nome di Colui che è nell’eternità, perché se è nell’eternità non può essere visto, e se ci importano le cose che si vedono non possiamo che disprezzare e disonorare il nome del Dio che non si vede (terza parola).

Soprattutto, essere interessati alle cose piuttosto che alle persone è l’altra faccia dei peccati a cui si riferiscono entrambi i due primi comandamenti, cioè: avere altri dei diversi dal SIGNORE (prima parola) e adorarli come immagini (seconda parola). Due peccati e due comandamenti intimamente e logicamente legati, visto che il SIGNORE non può essere rappresentato e che, quindi, colui che rappresentiamo e veneriamo deve per forza essere un altro dio.

Ma tradire il SIGNORE per un altro dio non significa necessariamente forgiarsi (o scegliere) un idolo davanti al quale inchinarsi fisicamente. Quando non cerchiamo il Dio vivente, cioè la vita eterna, stiamo automaticamente cercando il nostro interesse terreno, cioè ci stiamo facendo un altro dio e lo stiamo servendo come tale. E il più delle volte si tratta, direttamente o indirettamente, di quella entità che chiamiamo io.

Non ce ne rendiamo quasi mai conto, ma di fatto scegliendo di vivere senza Dio e piuttosto per noi stessi e per quello che meglio ci appartiene e ci definisce, stiamo scegliendo in ultima analisi la nostra stessa morte; oltre a quella del nostro prossimo, con il quale prima o poi entreremo in conflitto. Gesù lo ha detto chiaramente: “Chi ama la sua vita, la perde, ma chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà in vita eterna.” Giovanni, 12:25). Il nostro interesse terreno diventa infatti più o meno rapidamente il nostro padrone, un padrone che ci impedirà di conoscere e servire il Dio vivente e di avere con lui la vita eterna.

Per questo ci conviene odiarlo, per cercare Dio. “Nessun domestico può servire due padroni; perché o odierà l’uno e amerà l’altro, o avrà riguardo per l’uno e disprezzo per l’altro. Voi non potete servire Dio e Mammona”. (Luca, 16:13). Nessuno può servire Dio e il Capitale (il nome moderno di quel dio che Gesù chiamava mammonah, da una parola aramaica che significava probabilmente “mucchio”, come abbiamo già detto parlando della seconda parola).

Nella parabola del “fattore infedele”, che Gesù racconta poco prima di dichiarare questo aut-aut tra servire Dio e Mammona, il padrone, che rappresenta Dio, loda la sapienza del suo domestico imbroglione: per farsi degli amici, ha preso su di sé debiti che corrispondono a una certa quantità di determinati beni. Ha scelto la qualità dell’amicizia dei suoi conservi, rispetto alla quantità del bene commerciabile, che ha considerato meno importante delle loro “dimore eterne” (Luca, 16:9).

Mentre chi accumula considera innanzitutto le quantità (per l’accumulatore di beni anche la qualità entra in una graduatoria, perché riceve un punteggio nel confronto con altre qualità), la conoscenza che Dio ha di noi – e che Lui ci porta ad avere degli altri – è una conoscenza personale, individuale, quindi indivisibile, non quantificabile. Non come le conoscenze che su di noi accumula il “Grande fratello”, per proporci un’offerta sempre più “personalizzata” e convincente, e per inchiodarci alla nostra realtà numerica di prigionieri/consumatori. Il SIGNORE nostro Dio è un Dio personale. Il dio di questo mondo – e il materialismo che diffonde per nascondersi meglio – si manifesta invece innanzitutto come la massificazione dei suoi sudditi.

Se una volta infatti prevaleva l’idolatria magica e religiosa che trasforma le cose in persone, divinizzando gli oggetti forgiati dall’uomo, oggi – dalle nostre parti almeno – prevale una forma secondaria e più occulta di idolatria, che ci porta a trattare il nostro prossimo come un oggetto, e che ci rende prevedibili come altrettanti automi.

Inoltre, sentendoci trattati come oggetti, siamo anche noi portati a concentrarci sull’apparenza, della nostra persona, del nostro corpo e della nostra vita. E quindi sulla possibilità di usare le cose che abbiamo (quelle che ci siamo guadagnati, ma anche quelle di cui ci siamo impossessati più o meno surrettiziamente) per ottenere un certo grado di favore. Lo facciamo con gli altri, giudicandoli secondo certi standard (e dimenticando spesso che con la misura con cui avremo misurato gli altri saremo anche noi misurati da Dio: Matteo, 7:2; Giacomo, 2:13). E lasciamo che gli altri lo facciano con noi, preoccupandoci a nostra volta delle altrui misurazioni, pur sapendo che sia i nostri che i loro giudizi sono basati sull’apparenza e che non hanno alcun valore davanti a Dio, e al suo Cristo “che non darà sentenze stando al sentito dire.” (Isaia, 11:3).

Questa idolatria di massa si manifesta in forme diverse nella nostra vita quotidiana: non solo quando sfruttiamo il nostro prossimo o ne siamo sfruttati, ma anche, più letteralmente, nel nostro rapporto con le immagini, con le quali, nell’epoca della loro infinita “riproducibilità tecnica”, passiamo di fatto una sempre più significativa parte del nostro tempo. Attraverso le immagini, che vediamo e facciamo vedere, invidiamo gli altri e ci facciamo invidiare: le case, le donne, le macchine, i cellulari, i viaggi, il nostro corpo e quello altrui…

Cosa che non avviene soltanto nella nostra piccola vita quotidiana, con quella che abbastanza ipocritamente oggi si chiama condivisione, ma anche su scala planetaria e industriale, nel cui funzionamento però siamo più o meno tutti coinvolti, se non altro come complici spettatori. Pensiamo al mondo dello spettacolo, agli attori del cinema o alle personalità della politica e della cultura, alla loro vita considerevolmente divorata dalla fatica di produrre convincenti immagini di sé (dentro e fuori dal “set”), cioè dal fatto di essere diventate “figure pubbliche”. E ricordiamoci che il pubblico, i carnefici, siamo proprio noi.

Queste persone, o meglio, appunto, queste personalità non sono in realtà importanti se non per l’immagine che danno di se stesse. Diventano, letteralmente, delle icone, degli idoli, e finiscono per passare il loro tempo davvero al servizio della loro immagine, perché altri desiderino avere la vita che in realtà loro stessi non hanno: un’immagine di vita. E difatti molti di loro muoiono presto e/o miserabilmente, e non solo per l’abuso di alcool e altre droghe che assumono per dimenticare l’assurdità della loro esistenza.

Ma il divismo non è un fenomeno limitato al mondo governato dall’industria dell’intrattenimento, o a quello della politica, o della cultura di massa. Come abbiamo già visto, entra anche nella nostra vita quotidiana, quando, più o meno consciamente, dedichiamo il nostro tempo alla nostra immagine. E questo atteggiamento mentale ci porta a desiderare le cose del nostro prossimo e quindi il nostro prossimo come una cosa, uno strumento per i nostri scopi, soprattutto per i nostri show.

La Legge ci è data per la vita e la trasgressione della Legge porta alla morte, innanzitutto quella spirituale. Come ha detto chiaramente Mosè, mettendo in guardia il popolo di Dio dal peccare andando dietro agli idoli delle altre nazioni. “Vedi, io metto oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male” (Deuteronomio, 30:15).

E da questi peccati non siamo immuni neanche noi cristiani evangelici, anzi. Il divismo entra pesantemente nelle nostre chiese, persino all’interno dello stesso culto, non solo con la musica e il canto, ma anche, per esempio, quando raccontiamo le nostre testimonianze o innalziamo le nostre preghiere per essere ammirati dagli altri. O quando, ancora più colpevolmente, vogliamo essere ammirati come “servi di Dio” e non pensiamo più alle persone che siamo stati mandati a servire, perché la nostra attenzione è completamente presa da noi stessi e dalla bella figura che stiamo facendo con gli uomini. Le anime degli altri fedeli diventano un numero che dà lustro alla nostra immagine, uno strumento per la nostra grandezza. Quando non addirittura semplicemente, come accade nel mondo dello spettacolo, una fonte diretta di incasso monetario e di potere.

Tutto questo accade quando, anche dentro la chiesa, cominciamo a guardare al nostro fratello non per i bisogni che ha e a cui provvedere ma per le cose che ha (una casa, una moglie, una macchina, dei conservi, o anche un dono spirituale, un bel ministero, una fiorente e numerosa comunità, …) e che più o meno inconsciamente tendiamo a invidiare.

Per questo, Gesù ha messo ripetutamente in guardia i suoi discepoli contro ogni sete di possesso e di potere. “State attenti e guardatevi da ogni avidità (pleonexìa πλεονεξία, termine che abbiamo già incontrato parlando dell’adulterio, e leggendo che Paolo in Colossesi 3:5 lo identifica all’idolatria); perché non è dall’abbondanza dei beni che uno possiede, che egli ha la sua vita.” (Luca, 12:15).

Ma per questo, soprattutto, l’insegnamento sulla preghiera che chiamiamo il “Padre nostro” – e che stiamo collegando alla Legge data sul Sinai al popolo di Israele – è preceduto da un lungo insegnamento sull’ipocrisia e sul non dare spettacolo della propria devozione per essere ammirati dagli uomini: “Quando pregate, non siate come gli ipocriti; poiché essi amano pregare stando in piedi nelle sinagoghe e agli angoli delle piazze per essere visti dagli uomini. Io vi dico in verità che questo è il premio che ne hanno. Ma tu, quando preghi, entra nella tua cameretta e, chiusa la porta, rivolgi la preghiera al Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa.”(Matteo, 6:5-6).

Ora, come abbiamo già detto e ripetuto in altre occasioni, il nuovo patto che è stato sigillato dal sangue di Gesù non solo ci mostra la malattia, ma ce ne dà anche la cura. Che non è diversa da quella data a Mosè e agli altri profeti, ma che a quel tempo era solo per pochissimi privilegiati all’interno di un unico popolo, altamente privilegiato tra tutte le nazioni della Terra; oggi invece questa cura è stata data a ogni essere umano che la cerchi con tutto il cuore, maschio o femmina, piccolo o grande che sia. E consiste nel regno di Dio, che, come ha detto Gesù, non è un regno esteriore, visibile, ma piuttosto segreto e interiore: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà: Eccolo qui, o: Eccolo là; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi” (Luca, 17:20-21, dove il nostro in mezzo a voi traduce il greco entòs hymōn ἐντὸς ὑμῶν, che vuole dire sia “tra di voi” che “dentro di voi”).

All’ultima delle dieci parole scritte sulle tavole della Legge, nella versione neo-testamentaria dell’insegnamento di Dio, corrispondono bene le ultime parole del “Padre nostro”. Strutturata come quella che i teologi chiamano una dossologia (“discorso sulla gloria”), questa frase non è riportata in tutti i manoscritti (e per questo non appare in tutte le traduzioni), ma conclude significativamente il modello della preghiera insegnato da Gesù, mostrando la via d’uscita dalla nostra difficoltà: “liberaci dal maligno, perché tuo è il regno e la potenza e la gloria in eterno. Amèn”. (Matteo, 6:13b).

“Il regno di Dio e la sua giustizia” che Gesù consiglia di cercare prima di ogni altra cosa (Matteo, 6:36) producono una meravigliosa luce che soppianta le tenebre del male (1Pietro, 2:9). “Il regno di Dio consiste in giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Romani, 14:17).

Mentre l’aver mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male ha messo nell’uomo il sentimento di insoddisfazione che ha portato Caino a invidiare e uccidere suo fratello Abele, la conoscenza dell’amore di Dio non lascia spazio per l’invidia, perché porta felicità e soddisfazione. “Tu m’hai messo in cuore più gioia di quella che essi provano quando il loro grano e il loro mosto abbondano.” (Salmi, 4:7).

Paolo di se stesso ha scritto: “ho imparato ad accontentarmi dello stato in cui mi trovo. So vivere nella povertà e anche nell’abbondanza; in tutto e per tutto ho imparato a essere saziato e ad aver fame; a essere nell’abbondanza e nell’indigenza. Io posso ogni cosa in colui che mi fortifica.” (Filippesi, 4:11-13). Ma questo vale per tutti noi. Tutti possiamo e quindi dobbiamo imparare la stessa cosa, per il nostro immenso vantaggio. La conoscenza del SIGNORE ci porta infatti a vincere sugli effetti del frutto di quell’albero, realizzando la volontà di Dio che, per noi in Cristo, è che diventiamo capaci di ringraziare Dio in ogni circostanza (1Tessalonicesi, 5:18). “La pietà, con animo contento del proprio stato, è un grande guadagno.” (1Timoteo, 6:6).

L’avere spostato la nostra attenzione dalle cose materiali al rapporto spirituale con il SIGNORE (YHWH, Colui che le fa il cielo e la terra, che forma la luce e crea le tenebre e anche tutti problemi) ci mette nella posizione giusta di fronte alla vita, che possiamo considerare non più solo per spremerla, accumulando beni per goderceli in un tempo di riposo che non arriverà (Luca, 12:13-20), ma per imparare la mansuetudine e l’umiltà di cuore del vero e unico Re, che Dio ci ha dato come esempio.

“Ora sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.” (Romani, 8:28). Sappiamo: questa è la conoscenza che ci aiuta a non invidiare. Perché l’amore del SIGNORE che produce l’amore per il SIGNORE ci dà la vera conoscenza (1Corinzi, 8:3). In questa conoscenza sappiamo per esperienza che la volontà di Dio è perfetta per noi (Romani, 12:2). Cioè che quello che abbiamo ricevuto è esattamente quello che possiamo portare, il nostro incarico e la nostra responsabilità.

La volontà di Dio è perfetta per ciascuno e questa differenziata perfezione determina la varietà che è necessaria alla vita. La varietà delle membra del corpo di cui Paolo scrive poco più avanti (Romani, 12:4-12), ma oggi avrebbe potuto trovare esempi ancora più eloquenti considerando la varietà dei tessuti e delle cellule nei tessuti, che possiamo ammirare ingranditi e colorati al microscopio, o le varietà delle specie in un ecosistema, o degli ecosistemi all’interno di un bioma

La bellezza e la diversità della natura è ripresa dalla bellezza e dalla varietà spirituale interna a Israele, e oggi da quella ancora più grande del popolo dei credenti di tutte le razze e di tutte le culture. Dio ci conosce tutti personalmente. Per ciacuno di noi ha un progetto diverso, che è perfetto per lui, ed è anche pensato per benedire gli altri attraverso di lui.

Il ringraziamento che suscita la conoscenza della perfetta volontà di Dio in coloro che sono in Cristo – come abbiamo già visto anche meditando sull’ottava parola – è l’unico vero antidoto al veleno contenuto nel frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Ne abbiamo già parlato, e ne parleremo ancora nel prossimo e ultimo articolo di questa serie, considerando il perdono di Dio, e il frutto dell’albero della vita, che i cherubini hanno vietato all’uomo e alla donna dopo il loro peccato, e di cui potremo cibarci di nuovo nella Gerusalemme celeste, essendo finalmente e completamente ritornati a vivere sempre nell’eterno amore di Dio.

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