
Esodo, 20:18-19 Ora tutto il popolo udiva i tuoni, il suono della tromba e vedeva i lampi e il monte fumante. A tal vista, tremava e stava lontano. E disse a Mosè: Parla tu con noi e noi ti ascolteremo; ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo.
Come un sol uomo, all’udire il suono dei tuoni che si univa a quello dello shofar, e alla vista dei lampi e del fumo in vetta al monte, il popolo di Israele trema (la radice verbale nun+vav+ayin, che ha il senso primario di “oscillare”, ci fa capire che si trattava di qualcosa di più di un intimo tremore: piuttosto di uno sgomento, se non di un vero e proprio scompiglio). È ben felice quindi di delegare a Mosè il compito di interagire con il SIGNORE, per tenersi alla larga dalla presenza di Dio. Nel racconto dello stesso episodio che troviamo in Deuteronomio, l’ultimo libro della Torah, è scritto che il popolo ha esclamato: “abbiamo visto che Dio ha parlato con l’uomo e l’uomo è rimasto vivo. Ma ora perché dovremmo morire? Questo gran fuoco ci consumerà!” (Deuteronomio, 29:24-25).
Poco più avanti, Mosè aggiunge che il SIGNORE ha commentato positivamente questa reazione del popolo, dicendo: “Io ho udito le parole che questo popolo ti ha rivolto; tutto quello che hanno detto sta bene. Oh, avessero sempre un simile cuore da temermi e da osservare tutti i miei comandamenti, affinché venga del bene a loro e ai loro figli per sempre!” (Deuteronomio, 29:28-29).
Per volontà del popolo e anche di Dio, Mosè con Aaronne e la sua famiglia diventano quindi gli intermediari ufficiali del rapporto (cioè del patto) tra il SIGNORE e Israele. L’autore della Lettera agli Ebrei ci parla di quest’incarico di mediatore tra Dio e il popolo come del “punto essenziale” di tutto il suo discorso (Ebrei, 8:1). E ci ricorda che, nel primo patto, l’Antico Testamento, il sommo sacerdote, che continuava il servizio di mediazione inaugurato da Mosè e da suo fratello Aaronne, era colui che il “giorno dell’espiazione” (Yom Kippur, della quale festa solenne abbiamo già parlato considerando il comandamento di osservare il sabato) entrava nel luogo santissimo per coprire con il sangue di capri e di torelli “i peccati suoi e del popolo” (Ebrei, 9:7; curiosamente, la radice del verbo coprire si è conservata identica a quella del verbo ebraico chaf+pe+resh da cui deriva il nome della festa).
L’idea che non si possa vedere Dio e rimanere in vita è ripresa insistentemente nei libri dell’Antico Testamento, e il timore che deve incuterci la conoscenza del Dio vivente non è attenuato dalle parole che Gesù ci è venuto a dire da parte del Padre, né da quelle degli apostoli.
Paolo ha detto che Dio giudicherà tutti gli uomini per mezzo di Cristo, e l’Apocalisse ci parla di terribili flagelli che stanno per colpire l’umanità ribelle e di un lago di fuoco pronto per il diavolo e tutti coloro che non avranno ricevuto la salvezza di Dio. L’anonimo autore della Lettera agli Ebrei ci ricorda infatti che “il nostro Dio è anche un fuoco consumante” (Ebrei, 12:29). Gesù stesso aveva detto apertamente “Io vi mostrerò chi dovete temere. Temete Colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella gheenna. Sì, vi dico, temete lui.” (Luca, 12:5).
Il timore di Dio ci deve essere mostrato da Gesù e rammentato dai suoi discepoli perché, per nostra natura, temiamo solo ciò che vediamo. Ma il timore di Dio è di vitale importanza per la nostra vita, per la vita presente oltre che per la futura. Già qui in terra infatti il timore di Dio è il principio della sapienza (Proverbi, 9:10), un bene più prezioso dell’oro (e che occorre cercare a costo di tutti gli altri sforzi, come Salomone scrive della sapienza in Proverbi, 4:7), e anche estremamente raro: il proponimento di non temere più l’uomo e il suo giudizio basato sull’apparenza, ma di sforzarci invece di “camminare nella verità”, per usare un’espressione cara all’apostolo Giovanni.
Anche noi cristiani evangelici, dopo un primo momento di zelo, tendiamo a lasciare che questo bene scarseggi nella nostra vita (come l’olio delle cinque vergini stolte della parabola in Matteo, 25:1-13). Di fatto, ci rendiamo per lo più ben poco conto di chi sia Colui che Giacobbe ha chiamato “il Terrore di Isacco” (Genesi, 31:42 e 53), e spesso fantastichiamo di una nuova “dispensazione” in cui saremmo entrati in Cristo, con nuove regole e speciali condoni. Ma se ascoltiamo con maggiore attenzione la parola di Dio, ci accorgiamo che l’evidente diminuzione del timore di Dio nella nostra società è solo l’inizio del castigo a venire…
Certamente, con il nuovo patto annunciato dal profeta Geremia e compiuto da Gesù sulla croce, possiamo tutti contare su di un “misericordioso sommo sacerdote” (Ebrei, 2:17) grazie al cui sacrificio ci è oggi possibile avvicinarci a Dio senza morire. Ma la bontà del SIGNORE non ce lo deve fare immaginare come un Dio pentito e buonista. Per metterci in guardia contro le tentazioni, Gesù non esita a citare la terribile visione con cui si conclude il libro di Isaia: lo spettacolo dei cadaveri degli uomini che si son ribellati al SIGNORE, il cui verme non morrà e il cui fuoco non si estinguerà (Marco, 9:46 e 48).
Non dobbiamo dimenticare che è appunto grazie al perdono delle nostre iniquità e dei nostri peccati (Geremia, 31:34) che, in questo nuovo patto, tutti noi credenti (e non solo i figli di Aaronne, com’era nel primo patto) possiamo entrare nella presenza di Dio, perché questo perdono è costato il sangue di Gesù, necessario per coprire i nostri peccati e la nostra ingiustizia (sia quella evidente per tutti, sia quella evidente agli occhi della verità, che consiste nelle opere di una giustizia apparente e impura, come ha scritto il profeta parlando della “nostra giustizia” come di un “panno mestruale”: Isaia, 64:6). Perché era questa nostra fondamentale ingiustizia ciò che aveva creato una barriera tra noi e il SIGNORE, come ha scritto il profeta Isaia: “… le vostre iniquità vi hanno separato dal vostro Dio; i vostri peccati gli hanno fatto nascondere la faccia da voi, per non darvi più ascolto.” (Isaia, 59:2). Una barriera in entrambe le direzioni: il peccato allontana Dio da noi, ma allontana anche noi da Dio. Infatti, “chi commette il peccato diventa schiavo del peccato” (Giovanni, 8:34) e diventa perciò anche insensibile alla realtà di Dio, perché non si possono servire due padroni (Luca, 16:13).
In effetti, la realtà di Dio non può cambiare, e anche oggi, come prima di Cristo, l’avvicinamento a Dio non può essere senza conseguenze per la nostra vita. Nessuno può entrare in contatto con Dio e rimanere lo stesso. A meno che non si decida di ignorarlo, come fa la maggioranza delle persone, aiutata in questo anche dalle diverse forme della religiosità “cristiana”. Ma se lo vogliamo ascoltare e imparare da lui, dobbiamo essere pronti a un cambiamento radicale. Gesù infatti l’ha detto chiaramente: “chi non rinuncia a (ouk apostàssetai οὐκ ἀποτάσσεται, lett. “non mette via in ordine per partire”, cioè “non saluta”) tutto quello che ha, non può essere mio discepolo” (Luca, 14:34). Per seguire Gesù dobbiamo lasciare la nostra vecchia vita e cominciarne una nuova, con una nuova destinazione e dei nuovi interessi.
Come spiega l’apostolo Paolo, quando crediamo a Cristo, anche se siamo ancora vivi e la nostra vita è anzi più felice e abbondante di prima, dobbiamo riconoscerci morti: “infatti l’amore di Cristo ci costringe, perché siamo giunti a questa conclusione: che uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono; e che egli morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro.” (2Corinzi, 5:14-15).
Così, in questa nuova vita non si entra per caso o per sbaglio, ma occorre anzi un considerevole sforzo cosciente, sia per entrarci sia per non uscirne. Non si diventa cristiani solo perché si nasce in una nazione o in una famiglia cristiana, e non si resta cristiani senza che ci costi fatica. Gesù ha infatti esclamato: “quanto stretta è la porta e angusta la via che porta alla vita!” (Matteo, 7:14).
Anche se, con l’editto di Costantino, il cristianesimo è diventato la religione ufficiale dell’Impero romano, i requisiti per entrare nel regno di Dio non sono cambiati. La massificazione della fede ha certamente portato a importanti riformulazioni sulla natura della vita eterna nell’immaginario collettivo, così come le istituzioni religiose sono venute formandolo nei secoli: il paradiso è diventato un luogo per pochissimi eletti, mentre l’accesso a questa ambitissima meta (così lontana da non poter condizionare la vita delle persone normali) è presentato come possibile, forse, solo grazie all’intervento favorevole di questi santi (creature straordinarie e comunque morte) e alle loro intercessioni, garantite da una struttura capace di preservare la memoria e la nostra devozione a queste irraggiungibili rarità. Ma tutte queste idee sono completamente diverse dalla verità presentata dal Vangelo: l’apostolo Paolo, per fare solo un esempio, raccomanda infatti al giovane Timoteo di essere molto chiaro nell’insegnare che “c’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo, che ha dato se stesso come prezzo di riscatto per tutti.” (1Timoteo, 2:5-6).
Eppure, perfino nelle chiese evangeliche che sono sorte dopo la Riforma e che sono tutte dottrinalmente basate sul rifiuto dell’idolatria e del culto ai santi (e ai morti), rimane sempre presente la tendenza a ritenersi salvati solo in virtù della salvezza e della guida di altri, come se l’essere salvati dipendesse da qualcos’altro oltre che dalla fede nel sacrificio di Cristo.
Tendiamo sempre ad appoggiarci agli uomini e a guardare agli uomini, per imparare da ciò che vediamo. Cosa assolutamente normale, come è normale che i bambini seguano l’esempio dei loro genitori. Per questo “la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi” (Giovanni, 1:14). E anche gli apostoli e tutti i servi di Dio sono stati chiamati a dare innanzitutto l’esempio, seguendo i comandamenti di Dio nella loro vita. Sono infatti diventati molto conosciuti tra i credenti della loro epoca e alcuni di loro li conosciamo abbastanza bene ancora oggi. Lo stesso è accaduto a tutti gli uomini che Dio ha chiamato al suo servizio anche nelle epoche ssuccessive a quella dei primi apostoli. Il Signore Gesù ha però messo in guardia dall’approfittare di questa necessaria visibilità, e soprattutto dal ricercarla, dicendo ai suoi discepoli: “Ma voi non vi fate chiamare Rabbì; perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli.” (Matteo, 23:8).
Il punto è che, anche se il SIGNORE ha apprezzato il timore che il popolo ha manifestato davanti alla sua apparizione, non ha per noi un progetto migliore di quello di farsi conoscere direttamente da ciascuno, e desidera ugualmente per tutti che lo cerchiamo personalmente con tutto il nostro cuore (perché solo così lo possiamo trovare, come è scritto in Geremia, 29:13). La legge è stata pronunciata con parole umane perché fosse comprensibile a tutti, e tanto più è diventata comprensibile e chiara dopo che la parola di Dio si è fatta carne appunto perché potessimo capire quanto bene ci conosce e ci capisce il SIGNORE. Alla fine dei libri di Mosè è infatti scritto: “Questo comandamento che oggi ti do, non è troppo difficile per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi nel cielo e ce lo porterà e ce lo farà udire perché lo mettiamo in pratica? Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi passerà per noi di là dal mare e ce lo porterà e ce lo farà udire perché lo mettiamo in pratica? Invece, questa parola è molto vicina a te; è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica” (Deuteronomio, 30:11-14; passo ripreso da Paolo come esempio di “parola della fede” in Romani, 10:6-10).
Eppure l’impressione che ci fa la parola di Dio è che i suoi standard siano troppo alti per noi. Ed è infatti proprio così. Per questo, tendiamo sempre a mandare avanti qualcun altro. Non l’hanno fatto solo gli Israeliti sul Sinai, ma lo facciamo anche noi cristiani di oggi (agli incontri di preghiera, alle veglie e ai digiuni…), e anche dove ufficialmente non c’è distinzione tra il clero e i credenti laici, ci sono sempre quelli a cui viene delegato il servizio e quelli (la stragrande maggioranza) che preferiscono mantenersi nella loro zona di comodo. Perché la perfezione a cui ci chiama il SIGNORE (“Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste.” Matteo, 5:48) richiede una fatica che non sempre si ha voglia di fare (e, se si decide di farla, non sempre è per dei motivi veramente buoni; di modo che, quando decidiamo di impegnarci, rischiamo anche di finire messi peggio di prima e totalmente fuori strada), perché di ogni nostra azione cerchiamo sempre un ritorno immediato (in proporzione alla nostra pigrizia e poca fede).
Gesù ha parlato esplicitamente dei dieci comandamenti una volta che un giovane ricco gli si è rivolto chiedendogli cosa dovesse fare di buono per ottenere la salvezza. Gli ha risposto: “Perché m’interroghi intorno a ciò che è buono? Uno solo è il buono. Ma se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti. Quali? gli chiese. E Gesù rispose: Questi: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso. Onora tuo padre e tua madre, e ama il tuo prossimo come te stesso. E il giovane a lui: Tutte queste cose le ho osservate; che mi manca ancora? Gesù gli disse: Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi, vieni e seguimi. Ma il giovane, udita questa parola, se ne andò rattristato, perché aveva molti beni. E Gesù disse ai suoi discepoli: Io vi dico in verità che difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. E ripeto: è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio. I suoi discepoli, udito questo, furono sbigottiti e dicevano: Chi dunque può essere salvato? Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: Agli uomini questo è impossibile; ma a Dio ogni cosa è possibile.” (Matteo, 19:17-26).
Per rispondere alla richiesta di perfezione che ci viene da Dio abbiamo bisogno di una vigorosa spinta dall’alto. Per questo, il SIGNORE ha promesso che avrebbe mandato il suo Spirito su “ogni persona” (Gioele, 2:28; citato da Pietro – secondo il racconto di Atti 2:17 – il giorno della prima Pentecoste dopo la resurrezione di Cristo, quando questa promessa ha cominciato ad adempiersi). Altrove, la parola ci parla di uno “spirito di supplica”. Lo spirito della verità, che ci fa comprendere che non abbiamo altra possibilità di salvezza se non quella di supplicare la grazia di Dio: “Spanderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme lo Spirito di grazia e di supplica; essi guarderanno a me, a colui che essi hanno trafitto, e ne faranno cordoglio come si fa cordoglio per un figlio unico, e lo piangeranno amaramente come si piange amaramente un primogenito.” (Zaccaria, 12:10).
Per imparare la perfezione di Dio in Cristo Gesù, dobbiamo rinunciare ad accontentarci della nostra imperfezione spirituale, dobbiamo smettere cioè di scendere a compromessi con il nostro egoistico interesse, che ci porta a faticare innanzitutto per la nostra immagine e per il credito che abbiamo presso gli uomini. Un’ardua impresa che, come abbiamo già detto e ripetuto, Dio non si aspetta che possiamo compiere senza il suo aiuto. Ma, da parte nostra, dobbiamo mettercela tutta (2Pietro, 1:5).
Tra i nostri “possedimenti”, le cose a cui è più difficile rinunciare sono i meriti e i diritti che riteniamo di esserci guadagnati con le nostre fatiche, o comunque con la nostra onestà. Ci costa moltissimo ammettere un torto, ma ancora di più ci costa rinunciare ad avere ragione. Il libro di Giobbe è una profonda illustrazione di questo aspetto della natura umana, e ci mostra anche come Dio, invitandoci a rinunciare alla nostra “giustizia”, non ci vuole affatto defraudare di ciò che ci spetta, ma piuttosto portarci a un livello più alto di intimità con il suo cuore e la sua giustizia.
Vediamo così che ai pensieri e alle meditazioni che stiamo seguendo a commento delle poche parole scritte immediatamente dopo l’enunciazione dei dieci comandamenti si collega abbastanza intimamente la breve conclusione dell’insegnamento sulla preghiera che Gesù ha fatto ritornando unicamente sul punto del perdono, sottolineandone così l’importanza centrale: “Perché se voi perdonate agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.” (Matteo, 6: 14-15).
C’è una parabola che illustra questo principio (e fa simmetricamente il paio con la parabola del cosiddetto “fattore infedele” di Luca 16:1-8, della quale abbiamo già parlato più volte). Gesù la racconta quando Pietro gli chiede se dovrà perdonare suo fratello fino a sette volte. Dopo avergli risposto che dovrà perdonarlo non solo sette, ma fino a settanta volte sette, la aggiunge a commento e illustrazione: “Perciò il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Avendo cominciato a fare i conti, gli fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti. E poiché quello non aveva i mezzi per pagare, il suo signore comandò che fosse venduto lui con la moglie e i figli e tutto quanto aveva, e che il debito fosse pagato. Perciò il servo, gettatosi a terra, gli si prostrò davanti, dicendo: Abbi pazienza con me e ti pagherò tutto. Il signore di quel servo, mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Ma quel servo, uscito, trovò uno dei suoi conservi che gli doveva cento denari; e, afferratolo, lo strangolava, dicendo: Paga quello che devi! Perciò il conservo, gettatosi a terra, lo pregava dicendo: Abbi pazienza con me, e ti pagherò. Ma l’altro non volle; anzi andò e lo fece imprigionare, finché avesse pagato il debito. I suoi conservi, veduto il fatto, ne furono molto rattristati e andarono a riferire al loro signore tutto l’accaduto. Allora il suo signore lo chiamò a sé e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito, perché tu me ne supplicasti; non dovevi anche tu aver pietà del tuo conservo, come io ho avuto pietà di te? E il suo signore, adirato, lo diede in mano degli aguzzini fino a quando non avesse pagato tutto quello che gli doveva. Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello.” (Matteo, 18:35)
Perdonare di cuore non è affatto facile, e tanto meno facile doveva esserlo in un paese occupato dall’esercito romano, sotto la cui pressione non tutti riuscivano a mantenersi integri, anzi molto pochi. Ma Gesù ha ordinato di dare il nostro perdono a tutti quelli che ce lo chiedono. Lo ha ordinato ai suoi discepoli di allora e anche di oggi, cioè a noi. “Se tuo fratello pecca, riprendilo; e se si ravvede, perdonalo. Se ha peccato contro di te sette volte al giorno, e sette volte torna da te e ti dice: Mi pento, perdonalo. Allora gli apostoli dissero al Signore: Aumentaci la fede!” (Luca, 17:3-5). Lo stesso dobbiamo dire anche noi: chi non ha qualche risentimento, qualcosa (o qualcuno) che non riesce a perdonare anche e soprattutto a (o tra) coloro che gli sono più vicini?
La fede non è una virtù astratta. È un rapporto di fiducia, che nel caso di un superiore si esprime con l’obbedienza. La fede in Dio deriva dall’obbedienza e si esprime con l’obbedienza verso la sua parola. In Romani 10:17, Paolo scrive che la fede viene dall’ascolto: il testo dice ex akoès (ἐξ ἀκοῆς), con una parola che ha la stessa radice di hypakoè (ὑπακοή), che significa appunto “obbedienza”. Perché ascolta davvero chi ascolta per mettere in pratica quello che ascolta. Ed è solo ascoltando la parola di Dio e mettendola in pratica nella nostra vita che possiamo renderci conto della sua verità.
Per questo la legge è stata data per essere messa in pratica, ma è stata compiuta veramente solo da Gesù, perché per essere messa in pratica davvero richiedeva la giustizia di Dio. Ascoltando quella che Paolo chiama “la legge del peccato” (cioè la legge espressa nel primo patto, che aveva come scopo quello di farci conoscere il nostro peccato, come è scritto in Romani, 3:20), possiamo fare un esame di coscienza e trovarci inadempienti; ma, anche se non troviamo nessuna cosa di cui vergognarci, questo esame non ci porta comunque a essere giusti agli occhi di Dio, perché anche se troviamo scuse che ci sembrano sufficienti per bilanciare le accuse della nostra coscienza, sappiamo di non essere stati con Dio e di non aver partecipato a tutta la sua sofferenza per l’umanità. Sappiamo di essere stati e di continuare a essere innanzitutto egoisti. Per questo, Giacomo nella sua lettera (1:23) dice che ascoltare la legge senza riuscire a metterla in pratica è come guardarsi allo specchio: ci rendiamo conto delle nostre mancanze ma rimaniamo comunque da soli, perché quello che vediamo non è realmente uno che ci possa aiutare. L’immagine allo specchio ci dà coscienza di quello che siamo, ma non può guidarci a un vero cambiamento.
Invece, “chi guarda attentamente nella legge perfetta, cioè nella legge della libertà, e in essa persevera, non sarà un ascoltatore smemorato ma uno che la mette in pratica; egli sarà felice nel suo operare.” (Giacomo, 1:25). Come abbiamo già ricordato (sempre parlando dell’ottava parola), la legge perfetta è la legge compiuta da Gesù Cristo sulla croce, la legge della libertà che ci fa operare nella giustizia, se e quando ci fidiamo di Dio e stabiliamo con lui un rapporto personale attraverso l’unico mediatore che è Cristo Gesù, la parola stessa di Dio (Apocalisse, 19:13). Difatti Paolo esclama: “la legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Romani, 8:2).
La parola di Dio ci rivela così l’importanza della preghiera, spiegandoci che da soli non possiamo “fare niente” (Giovanni, 15:5), ma assicurandoci anche che chiedendo al Padre nel nome di Gesù ogni cosa diventa possibile (Giovanni, 16). Questa è la “gloriosa libertà dei figli di Dio” (Romani, 8:21).
Pregare nel nome di Gesù significa pregare secondo il suo insegnamento, non ipocritamente o superficialmente, ma con fede e sincerità, riconoscendo la grazia che ci è stata fatta e vivendo di conseguenza. Come raccomanda anche Paolo: “Rivestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi.” (Colossesi, 3:12-13).
Gesù ha raccomandato di fare attenzione a come si ascolta (Luca, 8:18) e ha paragonato chi ascolta senza ubbidire a un uomo che costruisce la sua casa sulla sabbia (Matteo, 7:26). Così, alla richiesta degli apostoli di fare crescere la loro fede per riuscire a perdonare (e poter essere quindi perdonati a loro volta), Gesù ha risposto con un’altra similitudine che ci parla di umiltà e obbedienza: “Ora, chi è colui tra di voi, il quale, avendo un servo che ari, o che pasturi il bestiame, quando, tornando dai campi, entra in casa, subito gli dica: Passa qua, mettiti a tavola? Anzi, non gli dice egli: Preparami la cena, e cingiti, e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, poi mangerai e berrai tu? Tiene egli in grazia da quel servo, ch’egli ha fatte le cose che gli erano state comandate? Non penso proprio. Così ancora voi, quando avrete fatte tutte le cose che vi son comandate, dite: Noi siamo servi inutili; poiché abbiamo fatto ciò ch’eravamo in obbligo di fare.” (Luca, 17:7-10).
La fede che ci serve per perdonare ed essere perdonati ci può venire solo da Dio. A chi altro possiamo rivolgerci per ottenerla? Ma come facciamo a cercarlo se non abbiamo fede in lui? Per perdonare abbiamo bisogno di essere perdonati, ma più abbiamo bisogno di perdono, meno lo riconosciamo. Nella nostra mente e nella nostra vita si formano così dei circoli viziosi, delle spirali – o, meglio, dei gorghi – da cui è molto difficile liberarsi.
Un’episodio della vita di Gesù mette particolarmente in luce questa molteplicità di aspetti della nostra vita spirituale. “Uno dei farisei lo invitò a pranzo; ed egli, entrato in casa del fariseo, si mise a tavola. Ed ecco, una donna che era in quella città, una peccatrice, saputo che egli era a tavola in casa del fariseo, portò un vaso di alabastro pieno di olio profumato; e, stando ai piedi di lui, di dietro, piangendo, cominciò a rigargli di lacrime i piedi; e li asciugava con i suoi capelli; e gli baciava e ribaciava i piedi e li ungeva con l’olio. Il fariseo che lo aveva invitato, veduto ciò, disse fra sé: Costui, se fosse profeta, saprebbe che donna è questa che lo tocca; perché è una peccatrice. E Gesù, rispondendo gli disse: Simone, ho qualcosa da dirti. Ed egli: Maestro, di’ pure. Un creditore aveva due debitori; l’uno gli doveva cinquecento denari e l’altro cinquanta. E poiché non avevano di che pagare condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più? Simone rispose: Ritengo sia colui al quale ha condonato di più. Gesù gli disse: Hai giudicato rettamente. E, voltatosi verso la donna, disse a Simone: Vedi questa donna? Io sono entrato in casa tua, e tu non mi hai dato dell’acqua per i piedi; ma lei mi ha rigato i piedi di lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; ma lei, da quando sono entrato, non ha smesso di baciarmi i piedi. Tu non mi hai versato l’olio sul capo; ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Perciò, io ti dico: i suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato; ma colui a cui poco è perdonato, poco ama. Poi disse alla donna: I tuoi peccati sono perdonati.” (Luca, 17:36-48).
La realtà spirituale, come e anche più di quella naturale, è una realtà dinamica e complessa: “piove sempre sul bagnato”, e nel deserto piove molto raramente. Le cose non stanno mai ferme, perché quelle che noi vediamo come posizioni sono in realtà delle vie. “A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”, o “che crede di avere” (Matteo, 25:29; Luca, 8:18). Il fariseo che si riteneva più giusto della donna peccatrice (e anche di Gesù) era sulla via che porta a un progressivo indurimento, perché, non ritenendo di aver avuto una grande grazia, amava poco il suo Dio e per questo non riceveva un vero perdono, cioè un vero ripristino del suo rapporto con il SIGNORE: anche se aveva invitato Gesù a casa sua, non si avvicinava davvero a Dio ma anzi si allontanava dalla presenza del SIGNORE. Mentre quella donna che sapeva di averne avuto un grande bisogno riceveva quel perdono con gioia e gratitudine, e più lo riceveva, più si avvicinava a Dio, aumentando così la sue fede, la sua speranza e il suo amore, per esserne sempre più piena. Ma Gesù parla a entrambi i cuori, sia a quello della donna che aveva capito la grazia di Dio, sia a quello del fariseo che ancora non aveva capito, perché anche quest’ultimo potesse avere l’opportunità di ravvedersi.
La nostra salvezza sta nel credere all’amore di Dio e nell’ascoltare la sua parola che ci invita a rimanere in lui (1Giovanni, 4:16), in modo da essere corretti (“potati”), e portare così un abbondante frutto di amore e di gioia anche per gli altri (Giovanni, 15:1-5). Paolo ricorda che ciò che ci porta al ravvedimento è la bontà di Dio (Romani, 2:4). Ma, di nuovo, anche noi dobbiamo fare la nostra parte, appunto credendo a questa bontà e non dimenticando che viviamo grazie al sacrifico di Cristo. E imparando quindi a ringraziare Dio per ogni cosa, non dimenticando di compiere cioè quello che abbiamo visto che la Bibbia chiama “il sacrifico della lode (o del ringraziamento)”.
Ne abbiamo già più volte parlato (l’ultima delle quali meditando sull’ottava parola), come della “chiave di Davide” per raggiungere il cuore di Dio. Quando si ringrazia, infatti, non si ringrazia una cosa, ma qualcuno che si riconosce come la sorgente del bene per cui lo si ringrazia e si esprime la certezza che quel bene fosse rivolto proprio a noi. Il ringraziamento è la base del rapporto personale. Per questo, nel ringraziamento occorre un nome e una storia, e questa storia, per noi uomini verso il Dio di Abraamo, di Isacco e di Giacobbe, è quella che culmina con la morte di Gesù sulla croce, grazie alla quale “offriamo continuamente a Dio un sacrificio di lode: cioè, il frutto di labbra che confessano il suo nome.” (Ebrei, 13:15).
Riconoscere l’opera di Dio in tutte le nostre vie (Proverbi, 3:6) è il modo per ringraziarlo e per perdonare a nostra volta ogni strumento che Dio ha voluto usare per farsi conoscere nella nostra vita, anche causandoci quello che ai nostri occhi non poteva apparire che come un male. Abbiamo già visto questo principio manifestarsi nel momento clou della vita di Giuseppe (a cui abbiamo già alluso a proposito del quarto comandamento e di cui abbiamo parlato ancora più approfonditamente meditando sul perdono, a proposito del sesto), quando cioè Giuseppe spiega ai suoi fratelli che il terribile male che loro avevano pensato di fargli era stato trasformato da Dio in una immensa benedizione, perché essendo diventato l’amministratore di tutti i beni in Egitto Giuseppe aveva ora il potere di ospitare tutta la su famiglia estesa e di farli sopravvivere alla carestia. Secoli dopo, quella benedizione si sarebbe però di nuovo trasformata in una maledizione, perché il popolo di Israele da gradito ospite nel frattempo si era trasformato in un popolo di schiavi (Esodo, 1:8-14). Ma anche quella terribile situazione sarebbe stata l’occasione per Dio di rivelare al suo popolo il suo Nome, così che potessero amarlo come il loro personale salvatore (Esodo, 20:2; Deuteronomio, 6:4-5). Guardando fedelmente alla fedeltà di Dio, le situazioni cambiano e possiamo dover attraversare molte tribolazioni, ma possiamo anche sapere che il SIGNORE ci libera da tutte (Salmi, 34:17-19). Possiamo cercare innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e avere da Dio in aggiunta anche tutte le cose che non abbiamo chiesto (Matteo, 6:33), come era già successo a Salomone, che però poi a un certo punto ha distolto lo sguardo dal SIGNORE.
Viceversa, se non amiamo Dio e sospettiamo che Dio non ci ami non possiamo ringraziarlo per tutto quello che ci capita. Lo facciamo a stento per le cose evidentemente buone; attribuendole, quando ci capitano, piuttosto alla nostra bravura, educazione, naturale bontà, o al caso, o all’opera magica o politica di qualche creatura, visibile o invisibile. Ma certamente, se non abbiamo un vero rapporto di fiducia, non riusciamo a ringraziare Dio per le cose che ci sembrano cattive e che ci spaventano a morte, e che ci fanno perdere quel minimo di fede in Dio che ci è rimasto. E attraverso la nostra paura della morte (fisica o civile) il diavolo può regnare incontrastato sulle nostre anime (Ebrei, 2:15).
Così non sia, perché tutta la parola di Dio si è realizzata nella storia ed è stata scritta e insegnata nei secoli proprio per darci modo di reagire alle circostanze non solo con le nostre forze o con la forza dei nostri alleati o aiutanti, ma con la forza e il coraggio che vengono dalla fede in Dio, al quale possiamo rivolgerci in preghiera. Per insegnarci cioè a stabilire un rapporto intimo, sincero e profondo con il SIGNORE (questo il senso del primo e del secondo patto: “patti chiari, amicizia lunga” dice anche il proverbio). Il rapporto aperto per tutti da Cristo Gesù, che ha potuto insegnare ai suoi discepoli a chiamare “Padre nostro” il Re di tutto l’Universo.
Per pregare, non dobbiamo essere già degni di parlare con Dio, basta essere umili e sinceri (“ecco su chi io poserò il mio sguardo: su chi è umile, ha il cuore afflitto e trema alla mia parola” Isaia, 66:2). La preghiera è un dialogo che certamente richiede da parte nostra un passo di fede. Ma all’inizio un solo passo è sufficiente. E in questo passo possiamo anche chiedere che il Signore venga in aiuto alla nostra incredulità (Marco, 9:24). La fede può essere qnche minima sul nascere, perché se ne abbiamo anche pochissima può svilupparsi e diventare sempre più forte man mano che viene a essere esercitata e confermata dall’esperienza delle risposte di Dio. Come un piccolo seme che può crescere e diventare anche un grande albero (Matteo, 13:31 e 17:20).
Quando invece si interrompe il rapporto con il SIGNORE, perché si sceglie di confidare in un idolo, cioè in un dio più accomodante e meno invadente (ma anche morto), il cielo diventa di rame e la terra di ferro, secondo la profezia di Mosè (Deuteronomio, 28:23). L’ambiente che ci circonda non è più vivo, e le nostre preghiere rimbalzano su una realtà ancora più dura del nostro cuore.
Ma c’è ancora speranza, per tutti quelli che la vogliono trovare. Come ne è rimasta per il popolo di Israele anche dopo tutte le trasgressioni che sono raccontate nei libri dello stesso Antico Testamento, così anche per tutti gli uomini di tutte le nazioni a cui la Bibbia è arrivata grazie al sacrificio di Cristo e alle esortazioni contenute nel Nuovo. Infatti, mentre la devozione verso un dio morto che ci siamo fatti noi per i nostri scopi (o che si è presentato per i suoi) ci porta a vivere in una realtà morta (abbandonata alle leggi della fisica degli oggetti inanimati, o della biologia e dell’etologia; o alla cattiveria delle creature – visibili e invisibili – che ci possono divorare o sottomettere; o anche, in una visione meno drammatica, alle leggi del caso e della probabilità), la fede nel Dio vivente su cui è fondata la Chiesa (Matteo, 16:16) ci trasmette la forza e la solidità che vengono da una “speranza viva” (1Pietro, 1:3). Ci toglie dal buio della disperazione e fa albeggiare all’orizzonte il senso di questa nostra vita.
La realtà del regno messianico descritto negli ultimi capitoli del libro di Isaia è al contrario caratterizzata da un contatto immediato tra Dio e il suo popolo: “Avverrà che, prima che m’invochino, io risponderò; parleranno ancora, che già li avrò esauditi.” (Isaia, 65:24) che ci garantirà la possibilità di rispondere alle circostanze e di vedere trasformate le situazioni attorno a noi in risposta alle nostre preghiere (addirittura anticipate dalla preconoscenza di Dio), non vivendo quindi più la nostra vita come spettatori di una tragedia, ma come figli del Re che ha autorità su ogni cosa in terra e in cielo e che ci invita a disturbarlo per ogni cosa importante ai nostri occhi, soprattutto quando siamo mossi dal suo amore.
“Perciò, come dice lo Spirito Santo: Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori…” (Ebrei, 3:7-8)