
Colossesi 1:1-2
1 Παῦλος, ἀπόστολος Ἰησοῦ Χριστοῦ διὰ θελήματος Θεοῦ, καὶ Τιμόθεος ὁ ἀδελφός, 2 τοῖς ἐν Κολοσσαῖς ἁγίοις καὶ πιστοῖς ἀδελφοῖς ἐν Χριστῷ· χάρις ὑμῖν καὶ εἰρήνη ἀπὸ Θεοῦ πατρὸς ἡμῶν καὶ Κυρίου Ἰησοῦ Χριστοῦ.
1 Paũlos, apóstolos Iēsoũ Khristoũ dià thelḗmatos Theoũ, kaì Timótheos ho adelphós, 2 toĩs en Kolossaĩs hagíois kaì pistoĩs adelphoĩs en Khristō̃ͅ; kháris humĩn kaì eirḗnē apò Theoũ patròs hēmō̃n kaì Kuríou Iēsoũ Khristoũ.
1 Paolo, per volontà di Dio apostolo di Gesù il Messìa, e il fratello Timoteo –
2 ai santi fratelli nel Messìa che sono in Colosse: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e del Signore Gesù il Messìa.
1:1
Paolo è la versione italiana della traslitterazione greca del nome latino Paulus, usato nelle Lettere e negli Atti degli apostoli per riferirsi a Saul di Tarso (giovane, colto e zelante fariseo della tribù di Beniamino) dopo la sua conversione alla fede cristiana, raccontata nel libro degli Atti (capp. 9, 22 e 26). A Roma e poi nell’Impero romano, Paulus era molto usato sia come nome che come cognome già prima dei tempi di Gesù. Paolo potrebbe averlo scelto come suo nuovo nome in antitesi al principale personaggio biblico a cui si riferiva il suo nome ebraico. Infatti, mentre paulus in latino significa “piccolo” o anche “poco”, il re Saul (in ebraico Shaùl, che significa “richiesto”), anche lui un benianimita, era stato il primo re di Isaele. Un re non “secondo il cuore di Dio” (come sarebbe stato Davide, che infatti lo sostituì), ma forte, bello e molto alto di statura (cf. 1Samuele, 9:1).
Apostolo, come molti altri termini neotestamentari, è un prestito linguistico dalla parola apóstolos che, nel greco del NT, si riferisce a uno specifico ministero, ma che già nel greco classico era usata per riferirsi a messi e ad ambasciatori, in quanto deriva dal verbo apostéllō che significa “mandare, inviare”.
Gesù è la derivazione italiana dal latino Iesus e precedentemente dal greco Iēsoũs che appare già nella traduzione dei Settanta (LXX) dell’Antico Testamento, in corrispondenza al nome proprio ebraico Yehōšūa riferito a Giosuè, l’assistente di Mosè che diventa poi il protagonista eponimo del primo dei libri che, nel canone ebraico, compongono la raccolta chiamata Profeti (Nevi’im). Yehōšūa significa “YHWH salva”, come è attesto anche dalla parola dell’angelo che annuncia a Giuseppe, riguardo alla sua futura moglie Maria: “ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati” (Mat 1:21).
L’italiano Messìa riprende il termine ebraico Mashìach, traduzione del greco Khristós. Come mashìach deriva dal verbo mashach (“spalmare con olio”), così khristós deriva dall’equivalente verbo greco khríō. Il riferimento è all’usanza del popolo di Israele di ungere con olio il capo di sacerdoti e re.
Timoteo era un giovane ebreo della città licaonica di Listra (o di Derbe), che aveva creduto nel Messìa. Incontrò Paolo nel secondo viaggio dell’apostolo in Asia Minore e diventò suo compagno di missione. È il destinatario di due delle epistole paoline.
2:2
Colosse era una cittadina della Frigia, situata nella valle del Lycus in Anatolia (Asia Minore), circa 200 km a est della grande città portuale di Efeso. Nel primo secolo d.C., Colosse era solo una piccola città agricola, ma nel V secolo a.C., aveva goduto di una fiorente economia grazie al commercio dei tessuti, ma aveva successivamente perso di importanza a causa della costruzione di una via commerciale nel terzo secolo che passava a Laodicea, più a ovest di Colosse. Paolo scrive una lettera alla piccola comunità cristiana di Colosse, senza avere probabilmente mai visitato la città (cf. Col 2:1).

E del potrebbe essere inteso anche come e dal. Infatti il genitivo in cui troviamo espresso il sintagma “Signore Gesù il Messìa” (Kuríou Iēsoũ Khristoũ) può essere letto sia come genitivo di appartenenza relativo al Padre (“dal Padre nostro e del“), sia come genitivo dipendente dalla preposizione apò che significa “da” e che, usata in questo senso, regge proprio il genitivo (“dal Padre nostro e dal“). Altre frasi simili nei Vangeli e nelle Lettere (lo stesso Col 1:3) fanno propendere per la prima ipotesi.
Signore traduce il termine greco kúrios. La LXX, usa questa parola per rendere in greco sia il nome proprio di Dio (YHWH) sia il nome comune che significa “signore, padrone” (adòn).
Colossesi 1:3-8
3 Εὐχαριστοῦμεν τῷ Θεῷ καὶ πατρὶ τοῦ Κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ πάντοτε περὶ ὑμῶν προσευχόμενοι, 4 ἀκούσαντες τὴν πίστιν ὑμῶν ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ καὶ τὴν ἀγάπην τὴν εἰς πάντας τοὺς ἁγίους, 5 διὰ τὴν ἐλπίδα τὴν ἀποκειμένην ὑμῖν ἐν τοῖς οὐρανοῖς, ἣν προηκούσατε ἐν τῷ λόγῳ τῆς ἀληθείας τοῦ εὐαγγελίου 6 τοῦ παρόντος εἰς ὑμᾶς, καθὼς καὶ ἐν παντὶ τῷ κόσμῳ, καὶ ἔστι καρποφορούμενον καὶ αὐξανόμενον καθὼς καὶ ἐν ὑμῖν, ἀφ’ ἧς ἡμέρας ἠκούσατε καὶ ἐπέγνωτε τὴν χάριν τοῦ Θεοῦ ἐν ἀληθείᾳ, 7 καθὼς ἐμάθετε ἀπὸ Ἐπαφρᾶ τοῦ ἀγαπητοῦ συνδούλου ἡμῶν, ὅς ἐστι πιστὸς ὑπὲρ ὑμῶν διάκονος τοῦ Χριστοῦ, 8 ὁ καὶ δηλώσας ἡμῖν τὴν ὑμῶν ἀγάπην ἐν Πνεύματι.
3 Eukharistoũmen tō̃ͅ Theō̃ͅ kaì patrì toũ Kuríou hēmō̃n Iēsoũ Khristoũ pántote perì humō̃n proseukhómenoi, 4 akoúsantes tḕn pístin humō̃n en Khristō̃ͅ Iēsoũ kaì tḕn agápēn tḕn eis pántas toùs hagíous, 5 dià tḕn elpída tḕn apokeiménēn humĩn en toĩs ouranoĩs, hḕn proēkoúsate en tō̃ͅ lógōͅ tē̃s alētheías toũ euangelíou 6 toũ paróntos eis humãs, kathṑs kaì en pantì tō̃ͅ kósmōͅ, kaì ésti karpophoroúmenon kaì auxanómenon kathṑs kaì en humĩn, aph’ hē̃s hēméras ēkoúsate kaì epégnōte tḕn khárin toũ Theoũ en alētheíaͅ, 7 kathṑs emáthete apò Epaphrã toũ agapētoũ sundoúlou hēmō̃n, hós esti pistòs hupèr humō̃n diákonos toũ Khristoũ, 8 ho kaì dēlṓsas hēmĩn tḕn humō̃n agápēn en Pneúmati.
3 Rendiamo grazie al Dio Padre del nostro Signore Gesù il Messìa pregando sempre per voi4 perché abbiamo saputo della vostra fede nel Messìa Gesù e dell’amore verso tutti i santi.
5 per via della speranza che è stata riposta per voi nei cieli, della quale avete già saputo dalla parola della verità del vangelo,
6 che è presso di voi, così come in tutto il mondo, e che sta portando frutto e crescendo così come anche in voi dal giorno in cui avete ascoltato e avete avuto intima conoscenza della grazia di Dio in verità.
7 Così come avete Imparato da Epafra nostro amato conservo, Il quale è per voi fedele servitore di Cristo.
8 Ed è lui che ci ha manifestato il vostro amore nello spirito.
1:3
Rendere grazie traduce in italiano il verbo eukharistéō che contiene la parola kháris “grazia, favore”. Da questo verbo viene il termine eukharistía “ringraziamento”, dal quale la Chiesa Cattolica ha coniato il nome del sacramento che riprende i gesti di Gesù nella cena pasquale (Matteo, 26:27 e paralleli).
Per voi può essere riferito a “pregando sempre”, nel senso di “voi siete i destinatari del favore richiesto della nostra costante proghiera”. Ma perì humō̃n può essere riferito anche a eukharistoũmen (“ringraziamo”) e inteso anche come “riguardo a voi” (argomento del ringraziamento, oltre che oggetto della preghiera).
1:4
Sapere, in questo contesto, rende meglio il senso di “sentire” o “ascoltare” che, nel greco del Nuovo Testamento è per lo più espresso con il verbo akoúō, che traduce a sua volta l’ebraico shama`, un verbo che, a seconda del contesto, ha il significato di “obbedire”, ma anche di “capire il senso di qualcosa”, o di “venire a conoscenza di qualche fatto”.
L’amore a cui si riferisce Paolo è l’amore-carità (agápē), l’amore di chi vede il bisogno dell’altro e agisce per soddisfarlo come se si trattasse di un proprio bisogno. Sempre Paolo, ma in un’altra lettera, ne dà la più bella e famosa definizione: “L’amore è paziente, è benevolo; l’amore non invidia; non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non addebita il male, non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa.” (1 Corinzi 13:4-7).
I santi di cui parla Paolo sono i credenti vivi. L’idea che per essere chiamati “santi” occorra essere morti – e attraversare un processo (nel senso legale del termine) di beatificazione e di canonizzazione – risale al tardo Medio Evo ma deriva dalla pratica già invalsa fin dai primi secoli dell’era cristiana (soprattutto dopo l’editto di Costantino, che aveva trasformato la fede cristiana in religione di stato) di rivolgere un culto alle anime dei santi che, secondo un evidente residuo di paganesimo peraltro tuttora presente all’interno della Chiesa Cattolica, venivano considerati come possibili intercessori.
1:5
La speranza è altrove paragonata a “un’àncora dell’anima, sicura e ferma” (Ebrei 6:19). Il ché corrisponde bene al concetto ebraico di “speranza come sicurezza futura”: tiqvah. La radice di questa parola (qof.vav.he) contiene infatti il senso di “tirare”: un cavo, una corda, e anche una sostanza, un fluido (come le acque, in Genesi 1:9-10). Riposta nei cieli la nostra speranza, sarà rivolto al cielo anche il nostro cuore. “Perché dov’è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore” (Mat 6:21). Un tema di fondamentale importanza sul quale Paolo tornerà ancora all’inizio del terzo capitolo di questa stessa lettera ai Colossesi.
Parola, lógos è un termine centrale della teologia cristiana (Giovanni 1:1-4), ma è anche un concetto fondamentale del pensiero classico greco. Oltre e più che “parola”, lógos significa “ragione” e “discordso”. Nel greco della Bibbia traduce l’ebraico davar che si riferisce alla struttura stessa della cosa a cui si riferisce la parola (o le parole, il discorso) e difatti, oltre che “parola” significa anche “fatto”, “cosa”.
La parola verità (alḗtheia) contiene in greco un riferimento alla “scoperta di ciò che è nascosto”: la radice lēth preceduta dall’alfa privativa viene infatti dal verbo lanthánō che significa appunto “nascondere”. La verità corrisponde al “non-nascondimento” di ciò è coperto dall’apparenza. In ebraico, invece, la verità (‘emet) c’entra di più con la radice da cui derivano parole che significano “credere” (lehamin), “fede” (‘emunah), la prima educazione del bambino (‘aman) e probabilmente anche la stessa parola per “madre” (‘em). Anche qui, come si vede dal contesto (cf. in particolare il verso 1:23), l’accento è messo più sulla saldezza dalla verità che sulla rivelazione da lei operata. Non bisogna mai dimenticare che gli autori del Nuovo Testamento, anche se usano parole greche, conservano una mentalità ebraica.
Vangelo, come apostolo, battesimo, Cristo e tanti altri termini, è un prestito linguistico dal greco del Nuovo Testamento. Ricalca il termine eu.angélion, che letteramente significa “buona notizia” e che a sua volta traduce l’ebraico besorah (dalla radice beth.sin.resh, che è la stessa per altro della parola basar “carne”, cf verso 1:22). L’articolo determinativo che qui, come in quasi tutto il Nuovo Testamento (fanno eccezione 2Corinzi 11:4 e Galati 1:6-9, dove si parla di false dottrine), accompagna la parola vangelo, serve a identificare la buona notizia per eccellenza: quella del regno di Dio.
1:6
Portare frutto (karpo.phoréō) – secondo moltissimi passi dell’Antico e soprattutto del Nuovo Testamento – è lo scopo ultimo della parola di Dio. Si tratta principalmente della trasformazione della vita interiore ed esteriore di colui che riceve la parola con fede e la custodisce nel suo cuore. Come Paolo aveva già scritto ai Galati: “… il frutto (karpòs) dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo” (Galati 5:22).
Avere intima conoscenza di rende il senso di epiginṓskō in cui il verbo ginṓskō (“conoscere”) viene rafforzata dal preposizione epí– e assume così spesso anche il senso di “riconoscere”, cioè di “conoscere al punto di essere capaci di riconoscere”.
1:7
Epafra è il nome greco (Epaphrãs, probabile forma abbreviata di Epaphróditos) di un credente di origine pagana che – da quanto apprendiamo dalle lettere di Paolo (ai Colessesi e a Filemone) – ha avuto un importante ruolo nella costituzione della chiesa di Colosse, e che è anche stato vicino a Paolo nella sua prigionia per Cristo (Filemone 1:23).
Conservo traduce alla meglio il greco sundoúlos, che contierne la preposizione sun (“con”) e il nome comune doulos (“servo”, e anche “schiavo”).
Servitore traduce il greco diákonos, il cui calco italiano, analogamente a quanto è avvenuto con la parola apòstolos, ha preso un preciso senso tecnico nella terminologia ecclesiastica (cf. Atti cap 6). Il nome comune diákonos viene dal verbo dia.konéō (che viene per lo più usato nel senso di “servire, assistere”; forse dall’idea di “sporcarsi i piedi attraversando la polvere”: diá significa infatti “attraverso” e kónis “polvere”).
1:8
“Manifestare” è il principale di vari possibili sensi del verbo dēlóō, che può essere altrimenti reso con “fare conoscere”, “rendere evidente”, “palesare”.
L’amore (anche qui agápē) può esprimersi anche in azioni spirituali, come la preghiera, la predicazione del vangelo, o la cura dell’anima.
Colossesi 1:9-14
9 Διὰ τοῦτο καὶ ἡμεῖς, ἀφ’ ἧς ἡμέρας ἠκούσαμεν, οὐ παυόμεθα ὑπὲρ ὑμῶν προσευχόμενοι καὶ αἰτούμενοι ἵνα πληρωθῆτε τὴν ἐπίγνωσιν τοῦ θελήματος αὐτοῦ ἐν πάσῃ σοφίᾳ καὶ συνέσει πνευματικῇ, 10 περιπατῆσαι ὑμᾶς ἀξίως τοῦ Κυρίου εἰς πᾶσαν ἀρέσκειαν, ἐν παντὶ ἔργῳ ἀγαθῷ καρποφοροῦντες καὶ αὐξανόμενοι εἰς τὴν ἐπίγνωσιν τοῦ Θεοῦ, 11 ἐν πάσῃ δυνάμει δυναμούμενοι κατὰ τὸ κράτος τῆς δόξης αὐτοῦ εἰς πᾶσαν ὑπομονὴν καὶ μακροθυμίαν,
12 μετὰ χαρᾶς εὐχαριστοῦντες τῷ Θεῷ καὶ πατρὶ τῷ ἱκανώσαντι ἡμᾶς εἰς τὴν μερίδα τοῦ κλήρου τῶν ἁγίων ἐν τῷ φωτί, 13 ὃς ἐρρύσατο ἡμᾶς ἐκ τῆς ἐξουσίας τοῦ σκότους καὶ μετέστησεν εἰς τὴν βασιλείαν τοῦ υἱοῦ τῆς ἀγάπης αὐτοῦ, 14 ἐν ᾧ ἔχομεν τὴν ἀπολύτρωσιν, τὴν ἄφεσιν τῶν ἁμαρτιῶν·
9 Dià toũto kaì hēmeĩs, aph’ hē̃s hēméras ēkoúsamen, ou pauómetha hupèr humō̃n proseukhómenoi kaì aitoúmenoi hína plērōthē̃te tḕn epígnōsin toũ thelḗmatos autoũ en pásēͅ sophíaͅ kaì sunései pneumatikē̃ͅ, 10 peripatē̃sai humãs axíōs toũ Kuríou eis pãsan aréskeian, en pantì érgōͅ agathō̃ͅ karpophoroũntes kaì auxanómenoi eis tḕn epígnōsin toũ Theoũ, 11 en pásēͅ dunámei dunamoúmenoi katà tò krátos tē̃s dóxēs autoũ eis pãsan hupomonḕn kaì makrothumían,
12 metà kharãs eukharistoũntes tō̃ͅ Theō̃ͅ kaì patrì tō̃ͅ hikanṓsanti hēmãs eis tḕn merída toũ klḗrou tō̃n hagíōn en tō̃ͅ phōtí, 13 hòs errhúsato hēmãs ek tē̃s exousías toũ skótous kaì metéstēsen eis tḕn basileían toũ huioũ tē̃s agápēs autoũ, 14 en hō̃ͅ ékhomen tḕn apolútrōsin, tḕn áphesin tō̃n hamartiō̃n;
9 Per questo anche noi, dal giorno in cui abbiamo saputo di voi, non smettiamo di pregare per voi e di chiedere che sia resa completa la [vostra] conoscenza della volontà sua, in ogni sapienza e intelligenza spirituale,
10 così che vi comportiate in modo degno del Signore, verso un totale desiderio di piacer[gli], portando frutto in ogni opera buona e crescendo verso l’intima conoscenza di Dio.
11 essendo resi potenti in ogni potenza per la forza della gloria sua, verso una totale calma sopportazione,
12 ringraziando con gioia il Padre che ci ha resi capaci di partecipare all’eredità dei santi nella luce:
13 è Lui che ci ha liberati dall’autorità delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del figlio dell’amore suo,
14 nel quale abbiamo la redenzione e la remissione dei peccati.
1:9
Avere saputo rende in italiano quello che, tradotto più letteralmente, sarebbe “avere sentito”. Il testo nell’originale – ēkoúsamen – corrisponde all’aoristo della prima persona plurale del verbo akoúō che, come già detto a proposito del verso 1:5, traduce l’ebraico shama‘, un verbo che significa “sentire”, “ascoltare”, “obbedire”, ma anche “ricevere una notizia”, “venire a sapere”.
Per voi, come al verso 1:3, traduce anche qui il sintagma hupèr humō̃n. Qui però non c’è nessuna possibile ambiguità sintattica con altri verbi che vi si possano ricollegare.
1:10
Comportarsi traduce qui peripatéō, un verbo che significa letteralmente “camminare, passeggiare”. Nel greco del Nuovo Testamento, il comportamento e la moralità sono il primo senso di verbi che significano “camminare”, o anche “andare”. Si tratta di una metafora che nella lingua ebraica accompagna il senso spirituale di parole che, come derekh (“via”) o régel (“piede”, ma anche “abitudine”), si riferiscono ai nostri comportamenti e alle nostre scelte morali.
Desiderio di piacere rende il greco aréskeia, termine che si riferisce a un atteggiamento ossequioso spesso considerato negativamente (cf. per es. Galati 1:10). Non qui, dove, anche in assenza di pronomi nel testo, il contesto lo riferisce direttamente al Signore.
Portando frutto, cioè trasformando la vita degli uomini (vedi nota a 1:6).
Intima conoscenza traduce epígnōsis (vedi nota a 1:6).
1:11
Resi potenti in ogni potenza traduce la perifrasi contenuta nel testo originale: en pásēͅ dunámei dunamoúmenoi. Il greco del Nuovo Testamento, fortemente influenzato com’è dalla lingua ebraica, usa volentieri espressioni cosiddette “tautologiche”, in cui la ripetizione di una stessa parola (o radice) serve a rafforzarne il significato. Il sostantivo dúnamis e il verbo dunamóō (come per altro il più basilare verbo dúnamai “potere”) si riferiscono all forza come potenziale, potenza. Ai discepoli Gesù aveva detto che avrebbero ricevuto potenza (dúnamis) quando lo Spirito Santo sarebbe sceso su di loro, per renerli capaci di essere suoi testimoni (“testimone” in greco è mártus) “in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all’estremità della terra” (Atti 1:8).
Forza, in greco krátos. Più che alla forza fisica necessaria a sollevare un peso, la parola si riferisce alla forza come capacità di governo e di controllo. Il verbo kratéō significa “tenere saldamente”: enkráteia è la “temperanza” (la parola viene tradotta anche come “continenza” o “autocontrollo”). Da questa radice derivano anche parole come teocrazia, aristocrazia o democrazia.
Gloria è la normale traduzione del greco dóxa, un termine che deriva dal verbo dokéō, che significa “credere”, nel senso di “supporre”, o “ritenere”. Dóxa ha a che fare con il credito di cui si può godere in società, e anche con l’opinione e l’apparenza. Molti filosofi greci la consideravano infatti contraria alla verità. Paolo ha in mente l’idea ebraica di gloria, che non ha niente a che vedere con l’apparenza o con l’opinione, ma piuttosto con l’importanza. In ebraico, “gloria” (kavod) ha infatti la stessa radice (caf.beth.daleth) del verbo che significa “essere pesante” (kavad). Per questo, altrove, Paolo parla di “un sempre più grande, smisurato peso eterno di gloria” (come risultato della nostra “momentanea, leggera afflizione”, 2Corinzi 4:17).
Calma sopportazione traduce il senso di quella che in greco appare espressa con una classica endiadi: due sostantivi, inquesto caso hupomonḕ e makrothumía sono abbinati in modo da significare quello che, di norma, andrebbe espresso con un sostantivo accompagnato da un aggettivo. Il greco hupomonḕ, (normalmente tradotto con “pazienza”) significa letteralmente “sottostanza”, e si riferisce chiaramente alla condizione di sforzo a cui si è sottoposti durante una prova. Makrothumía si riferisce invece alla “lentezza all’ira” e al “coraggio”, come antonimi di “irascibilità” e “impazienza” (ritornerà in Col 3:6).
1:12
Eredità traduce la parola greca klḗros che significa letteralmente “lotto” (anche in itakian si è conservata questa omonimia tra l’estrazione a sorte . Nel Nuovo Testamento (e anche nella versione dei LXX), klḗros e il termine collegato klēronomía traducono una parola ebraica (nachal) la cui radice ha piuttosto a che vedere con il fluire di un fiume o della linfa che dalla vite passa ai tralci che o che dal ceppo dell’olivo naturale arriva fino ai rami dell’innesto (Romani 11)
1:13
Figlio dell’amore suo rispetta – traducendola letteralmente – la frase che troviamo nel testo originale e che equivale a “suo amato figlio”. Si tratta di una costruzione, molto comune nelle Scritture, in cui la qualità di qualcosa o di qualcuno viene espressa come appartenenza a un nome astratto. Così, per esempio, nel verso 1:5, en tō̃ͅ lógōͅ tē̃s alētheías toũ euangelíou, che abbiamo tradotto nella parola della verità del vangelo, avrebbe potuto essere legittimamente reso come nella veritiera parola del vangelo.
1:14
Redenzione traduce il termine apolútrōsis significa letteralmente “riscattamento da”. Il termine veniva usata per parlare della liberazione dalla prigionia dopo che era stato pagato il riscatto (lútron, dal verbo lúō “sciogliere”).
Remissione traduce áphesis, dal verbo aphíēmi, un composto del verbo híēmi che ha già di per se il senso di lasciare andare. L’idea espressa qui è quella della liberazione dalla schiavitù del peccato (“chi commette il peccato è schiavo del peccato” Giovanni 8:34; condizione che Paolo in Romani 7:14 riconosce come propria della sua stessa carnalità), ottenuta mediante il pagamento del riscatto sulla croce. Anche nella traduzione dei LXX áphesis appare assieme ad apolútrōsis (Levitico 25:30-33, dove si parla del possesso dei terreni rispetto al Giubileo). Entrambi i termini sono marcati dalla preposizione apó– che significa “da”.
Colossesi 1:15-20
15 ὅς ἐστιν εἰκὼν τοῦ Θεοῦ τοῦ ἀοράτου, πρωτότοκος πάσης κτίσεως, 16 ὅτι ἐν αὐτῷ ἐκτίσθη τὰ πάντα, τὰ ἐν τοῖς οὐρανοῖς καὶ τὰ ἐπὶ τῆς γῆς, τὰ ὁρατὰ καὶ τὰ ἀόρατα, εἴτε θρόνοι εἴτε κυριότητες εἴτε ἀρχαὶ εἴτε ἐξουσίαι· τὰ πάντα δι’ αὐτοῦ καὶ εἰς αὐτὸν ἔκτισται· 17 καὶ αὐτός ἐστι πρὸ πάντων, καὶ τὰ πάντα ἐν αὐτῷ συνέστηκε, 18 καὶ αὐτός ἐστιν ἡ κεφαλὴ τοῦ σώματος, τῆς ἐκκλησίας· ὅς ἐστιν ἀρχή, πρωτότοκος ἐκ τῶν νεκρῶν, ἵνα γένηται ἐν πᾶσιν αὐτὸς πρωτεύων, 19 ὅτι ἐν αὐτῷ εὐδόκησε πᾶν τὸ πλήρωμα κατοικῆσαι 20 καὶ δι’ αὐτοῦ ἀποκαταλλάξαι τὰ πάντα εἰς αὐτόν, εἰρηνοποιήσας διὰ τοῦ αἵματος τοῦ σταυροῦ αὐτοῦ, δι’ αὐτοῦ εἴτε τὰ ἐπὶ τῆς γῆς εἴτε τὰ ἐν τοῖς οὐρανοῖς.
15 hós estin eikṑn toũ Theoũ toũ aorátou, prōtótokos pásēs ktíseōs, 16 hóti en autō̃ͅ ektísthē tà pánta, tà en toĩs ouranoĩs kaì tà epì tē̃s gē̃s, tà horatà kaì tà aórata, eíte thrónoi eíte kuriótētes eíte arkhaì eíte exousíai; tà pánta di’ autoũ kaì eis autòn éktistai; 17 kaì autós esti prò pántōn, kaì tà pánta en autō̃ͅ sunéstēke, 18 kaì autós estin hē kephalḕ toũ sṓmatos, tē̃s ekklēsías; hós estin arkhḗ, prōtótokos ek tō̃n nekrō̃n, hína génētai en pãsin autòs prōteúōn, 19 hóti en autō̃ͅ eudókēse pãn tò plḗrōma katoikē̃sai 20 kaì di’ autoũ apokatalláxai tà pánta eis autón, eirēnopoiḗsas dià toũ haímatos toũ stauroũ autoũ, di’ autoũ eíte tà epì tē̃s gē̃s eíte tà en toĩs ouranoĩs.
15 Il quale è immagine del Dio invisibile, primogenito di ogni creazione.
16 Perché in lui sono state create tutte le cose, sia quelle che sono in cielo che quelle che sono sulla terra, le visibili e le invisibili: sia troni, sia signorie, sia princìpi, sia autorità: tutte le cose sono attraverso di lui e in vista di lui sono state create.
17 Lui è prima di ogni cosa e in lui tutte le cose stanno [da sempre] insieme.
18 E lui è il capo del corpo, [cioè] della chiesa; lui che è principio, primogenito dai morti; affinché in ogni cosa sia lui il primo.
19 Perché è stato ritenuto bene che in lui abitasse tutta la pienezza.
20 e che attraverso di lui tutte le cose comunicassero verso colui che ha fatto la pace per mezzo del sangue della sua croce, attraverso di lui [comunicassero] cioè, sia le cose che sono sulla terra che quelle che sono nei cieli.
1:15
Immagine qui traduce la parola eikṑn, la stessa che, nel greco della LXX, è usata per tradurre “immagine” in Genesi 1:26-7, dove si parla della creazione dell’uomo a immagine di Dio. La parola ebraica usata nel testo originale è tzélem, ed è collegata a tzal “ombra”. Si tratta dell’immagine come “fedele impronta”. Eikṑn viene infatti da eikṑ, un verbo (usato raramente nelle Scritture) che significa “lasciare spazio”.
Primogenito traduce prōtótokos (prō̃tos “primo” + tíktō “produrre, generare”) un termine che nella Bibbia si riferisce innanzitutto alla sfera legale dell’eredità (vedi verso 1:12). Ma qui il riferimento è anche all’intera genealogia del creato. Infatti, se si considera l’affermazione contenuta all’inizio del Vangelo di Giovanni riguardo alla parola (“in lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini” Giovanni 1:4) – e ribadita dallo stesso Gesù in Giovanni 8:12 (“Io sono la luce del mondo”) – ricollegandosi all’inizio della creazione (“Dio disse: Sia luce! E luce fu”), si può intravedere lo stretto legame tra la parola, la luce, e la prioità di entrambe rispetto all’ordine che regna nell’Universo a cui Paolo sta plausibilmente facendo allusione in queso verso e nei successivi.
1:16
Troni, signorie, princìpi, autorità (rispettivamente thrónoi, kuriótētes, arkhaì, exousíai) sono gerarchie celesti, altrove indicate come costituenti l’insieme dei “dominatori di questo mondo di tenebre (…) forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti”, contro il quale esercito si svolge il nostro vero combattimento con le armi e l’autorità del Messìa (Efesini 6:12; cf anche Colossesi 2:10-16). Arkhaì è per altro il plurale della stessa parola che viene usata per indicare l’origine di tutte le cose (vedi anche 1:18).
1:17
Stanno [da sempre] insieme traduce il perfetto indicativo del verbo sunístēmi, verbo composto da sun– (“con”) + hístēmi (“stare”), che è alla radice di parole come sistema, sistemare, ecc. Nel greco antico, l’aspetto del tempo perfetto comprende un’azione che dal passato arriva fino al presente, da qui la traduzione al tempo presente, con l’aggiunta di da sempre per rendere il senso del passato remoto.
1:18
Il capo del corpo, la chiesa traduce le parole greche hē kephalḕ toũ sṓmatos, tē̃s ekklēsías che più letteralmente suonebbero “la testa del corpo, [cioè] della chiesa”. Quella della casa di Dio come corpo è una metafora che troviamo nelle stesse parole di Gesù quando, rispondendo a coloro che questionavano la sua autorità, disse: “Distruggete questo tempio, e in tre giorni lo farò risorgere (…) parlava del tempio del suo corpo.” (Giovanni, 2:19-21). Il corpo sta per il tempio, cioè per la casa di Dio, ma anche per il popolo di Dio, i figli di Dio, cioè i credenti che formano la chiesa, come un edificio spirituale che è composta da pietre viventi. Nella lingua ebraica, c’è infatti uno stretto collegamento tra edificio (b’niyn), pietre (avaniym), e figli (baniym). Il collegamento appare esplicitato anche nella Prima lettera dell’apostolo Pietro, quando, riferendosi al Messìa, scrive “accostandovi a lui, pietra vivente, rifiutata dagli uomini ma davanti a Dio scelta e preziosa, anche voi, come pietre viventi, siete edificati per formare una casa spirituale, un sacerdozio santo…” (1 Pietro 2:4-5). Paolo qui, più avanti (versi 1:22 e 1:24) e anche atrove estende questo simbolismo anche al corpo umano. “Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e tutte le membra non hanno una medesima funzione, così noi, che siamo molti, siamo un solo corpo in Cristo, e, individualmente, siamo membra l’uno dell’altro.” (Romani 12:4-5; cf. anche 1Corinzi 12:12-31). Del resto, la metafora dell’edificazione del corpo è utilizzata anche in una delle rarissime allusioni di Gesù alla sua chiesa perché, quando afferma che questa sarà edificata sulla roccia (pétra) della rivelazione ricevuta da Pietro (Matteo 16.18), troviamo proprio il verbo oikodoméō (“costruire una casa”), che peraltro riprende nel significato lo stesso verbo (con radice beth+nun+he) che è utilizzato in Genesi 2:22 per descrivere la “edificazione” della donna dal “costato” preso dall’uomo. La parola greca per “chiesa” (ekklēsía) deriva dal verbo kaléō (“chiamare, invitare”) con l’aggiunta della preposizione ek- (“fuori”). La parola ekklēsía ricorda l’ebraico qehilah che oggi si usa per “comunità” e che viene dalla stessa radice da cui proviene il titolo del Qoheleth di Salomone, non per niente tradotto dai LXX come Ekklēsiastēs. L’idea è quella di un insieme di persone che si radunano rispondendo alla chiamata di un predicatore.
Principio traduce arkhḗ, la stessa parola che appare all’inizio del Vangelo di Giovanni (En arkhē̃ͅ ē̃n ho lógos … “In principio era la parola”) e all’inizio della stessa Bibbia, nella traduzione dei LXX (En arkhē̃ͅ epoíēsen ho Theòs tòn ouranòn kaì tḕn gē̃n “In principio Dio creò i cieli e la terra”).
1:19
Pienezza (plḗrōma) è il sostantivo che indica l’effetto astratto dell’azione di riempire o anche di adempiere (plēróō). Più avanti, Paolo parla della “pienezza della deità” tò plḗrōma tē̃s theótētos (Colossesi 2:9). Giovanni ne aveva già scritto con riferimento a Gesù, la parola di Dio: “infatti dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia sopra grazia” (Giovanni 1:16)
1:20
Comunicassero traduce l’infinito aoristo di apokatallássō, verbo composto contenente due preposizioni –apó “da” e katá “giù” – che aggiungono al senso primo di allássō (“scambiare”) il senso di un completo ripristino della comunicazione inizialmente interrotta. Cf infra 1:22, dove lo stesso verbo è tradotto come riconciliare.
Colossesi 1:21-23
21 Καὶ ὑμᾶς ποτε ὄντας ἀπηλλοτριωμένους καὶ ἐχθροὺς τῇ διανοίᾳ ἐν τοῖς ἔργοις τοῖς πονηροῖς, 22 νυνὶ δὲ ἀποκατήλλαξεν ἐν τῷ σώματι τῆς σαρκὸς αὐτοῦ διὰ τοῦ θανάτου, παραστῆσαι ὑμᾶς ἁγίους καὶ ἀμώμους καὶ ἀνεγκλήτους κατενώπιον αὐτοῦ, 23 εἴ γε ἐπιμένετε τῇ πίστει τεθεμελιωμένοι καὶ ἑδραῖοι καὶ μὴ μετακινούμενοι ἀπὸ τῆς ἐλπίδος τοῦ εὐαγγελίου οὗ ἠκούσατε, τοῦ κηρυχθέντος ἐν πάσῃ κτίσει τῇ ὑπὸ τὸν οὐρανόν, οὗ ἐγενόμην ἐγὼ Παῦλος διάκονος.
21 Kaì humãs pote óntas apēllotriōménous kaì ekhthroùs tē̃ͅ dianoíaͅ en toĩs érgois toĩs ponēroĩs, 22 nunì dè apokatḗllaxen en tō̃ͅ sṓmati tē̃s sarkòs autoũ dià toũ thanátou, parastē̃sai humãs hagíous kaì amṓmous kaì anenklḗtous katenṓpion autoũ, 23 eí ge epiménete tē̃ͅ pístei tethemeliōménoi kaì hedraĩoi kaì mḕ metakinoúmenoi apò tē̃s elpídos toũ euangelíou hoũ ēkoúsate, toũ kērukhthéntos en pásēͅ ktísei tē̃ͅ hupò tòn ouranón, hoũ egenómēn egṑ Paũlos diákonos.
21 Voi pure, che, a causa del vostro servizio alle opere malvagie, eravate un tempo estranei e nemici
22 egli ora, attraverso la morte, ha riconciliato con il corpo della sua carne, perché siate santi e immacolati e irreprensibili al suo cospetto,
23 a condizione però che rimaniate fondati sulla fede e [in essa] ben piazzati non vi lasciate allontanare dalla speranza del vangelo che avete ascoltato, e che è stata annunciato in tutta la creazione sotto il cielo, del quale io Paolo sono diventato servitore.
1:21
Voi pure traduce kaì humãs. Il pronome personale è nel caso accusativo e indica l’oggetto del verbo che appare soltanto nel verso successivo: apokatḗllaxen “ha riconciliato”.
Servizio traduce diakonía, dalla stessa radice di diákonos (vedi la nota al verso 1:7), ma qui la parola ha un senso decisamente negativo.
Estranei traduce apēllotriōménoi che è in realtà un participio (medio-passivo) e non un aggettivo, e che andrebbe perciò tradotto più letteralemente con estraniati. Il verbo allotrióō viene dall’aggettivo allótrios “estraneo”, “straniero” con l’aggiunta dellla preposizione apó “da”.
1:22
La morte: non solo la sua, ma anche di tutti coloro che credono i lui. Lo stesso Paolo aveva scritto ai Corinzi “… infatti l’amore di Cristo ci costringe, perché siamo giunti a questa conclusione: che uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono; e che egli morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro.” (2Corinzi, 5:14-15). Nella nostra morte alle a liberazione dalla radice del peccato . Chi vuole essere mio discepolo. Cfr Colossesi 3:3
Ha riconciliato traduce l’aoristo di apokatallássō (cf. la nota al verso 1:20).
Il corpo della carne del Messìa rappresenta la comunione tra i credenti che se ne cibano, la vita pratica in cui si realizza l’adempimento del comandamento dell’amore per Dio e per il prossimo, sul quale si fonda la Legge mosaica (Matteo 22:38 e parall.) e che Gesù ha adempiuto perfettamente vivendo ubbidientemente e in vista della croce. Come abbiamo già visto di passaggio (nota al verso 1:5), “carne” e “buona notizia” condividono in ebraico la stessa radice (beth.sin.resh). Spiritualmente, questo trova la sua motivazione nella buona notizia che la stessa parola di Dio “è diventata carne” (Giovanni 1:14). Gesù ha anche detto che ci avrebbe dato da mangiare la sua carne “Io sono il pane vivente, che è disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che io darò è la mia carne, [che darò] per la vita del mondo” (Giovanni 6:51). Il cibo spirituale di cui Gesù si è cibato e che ha dato anche ai suoi discepoli è l’adempimento del mandato celeste nello spazio e nel tempo di un corpo mortale sulla terra. Non si può sopravvalutare l’importanza del fatto che la Parola ha abitato in un corpo come il nostro e in una precisa realtà storica. “Poiché molti seduttori sono usciti per il mondo, i quali non accettano che Gesù Cristo sia venuto in carne. Questo è il seduttore e l’anticristo.” (2Giovanni 1:7).
Irreprensibile traduce con qualche approssimazione l’aggettivo composto an-én-klētos (“non chiamabile in [giudizio]”).
1:23
Rimaniate fondati sulla fede traduce un giro di parole (epiménete tē̃ͅ pístei tethemeliōménoi) retto dal verbo composto epiménō “restare su”. Il dativo in cui è espresso il sintagma nominale tē̃ͅ pístei (“sulla fede”) è retto sia dalla preposizione epí contenuta nel primo verbo che dal secondo verbo, che funge da avverbio aggiungendo l’informazione su come bisogna restare fermi fede, usando il fondamento che, secondo l’insegnamento di Gesù, è l’ubbidienza alla parola nella vita quotidiana (Matteo 7:25-26). Questa condizione è di immensa importanza per la comprensione del vangelo. Il verbo ménō è spesso tradotto con “dimorare”, come in Giovanni 15:5 “Io sono la vite, voi siete i tralci. Colui che dimora (ho ménōn) in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto; perché senza di me non potete fare nulla”.
La speranza del vangelo è la speranza trasmessa dal vangelo (vedi la nota a 1:5, sia su speranza che su vangelo).
Servitore traduce ancora diákonos, questa volta in senso positivo.
Colossesi 1:24-29
24 Νῦν χαίρω ἐν τοῖς παθήμασί μου ὑπὲρ ὑμῶν καὶ ἀνταναπληρῶ τὰ ὑστερήματα τῶν θλίψεων τοῦ Χριστοῦ ἐν τῇ σαρκί μου ὑπὲρ τοῦ σώματος αὐτοῦ, ὅ ἐστιν ἡ ἐκκλησία, 25 ἧς ἐγενόμην ἐγὼ διάκονος κατὰ τὴν οἰκονομίαν τοῦ Θεοῦ τὴν δοθεῖσάν μοι εἰς ὑμᾶς, πληρῶσαι τὸν λόγον τοῦ Θεοῦ, 26 τὸ μυστήριον τὸ ἀποκεκρυμμένον ἀπὸ τῶν αἰώνων καὶ ἀπὸ τῶν γενεῶν, νυνὶ δὲ ἐφανερώθη τοῖς ἁγίοις αὐτοῦ, 27 οἷς ἠθέλησεν ὁ Θεὸς γνωρίσαι τίς ὁ πλοῦτος τῆς δόξης τοῦ μυστηρίου τούτου ἐν τοῖς ἔθνεσιν, ὅ ἐστι Χριστὸς ἐν ὑμῖν, ἡ ἐλπὶς τῆς δόξης· 28 ὃν ἡμεῖς καταγγέλλομεν νουθετοῦντες πάντα ἄνθρωπον καὶ διδάσκοντες πάντα ἄνθρωπον ἐν πάσῃ σοφίᾳ, ἵνα παραστήσωμεν πάντα ἄνθρωπον τέλειον ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ· 29 εἰς ὃ καὶ κοπιῶ ἀγωνιζόμενος κατὰ τὴν ἐνέργειαν αὐτοῦ τὴν ἐνεργουμένην ἐν ἐμοὶ ἐν δυνάμει.
24 Nũn khaírō en toĩs pathḗmasí mou hupèr humō̃n kaì antanaplērō̃ tà husterḗmata tō̃n thlípseōn toũ Khristoũ en tē̃ͅ sarkí mou hupèr toũ sṓmatos autoũ, hó estin hē ekklēsía, 25 hē̃s egenómēn egṑ diákonos katà tḕn oikonomían toũ Theoũ tḕn dotheĩsán moi eis humãs, plērō̃sai tòn lógon toũ Theoũ, 26 tò mustḗrion tò apokekrumménon apò tō̃n aiṓnōn kaì apò tō̃n geneō̃n, nunì dè ephanerṓthē toĩs hagíois autoũ, 27 hoĩs ēthélēsen ho Theòs gnōrísai tís ho ploũtos tē̃s dóxēs toũ mustēríou toútou en toĩs éthnesin, hó esti Khristòs en humĩn, hē elpìs tē̃s dóxēs; 28 hòn hēmeĩs katangéllomen nouthetoũntes pánta ánthrōpon kaì didáskontes pánta ánthrōpon en pásēͅ sophíaͅ, hína parastḗsōmen pánta ánthrōpon téleion en Khristō̃ͅ Iēsoũ; 29 eis hò kaì kopiō̃ agōnizómenos katà tḕn enérgeian autoũ tḕn energouménēn en emoì en dunámei.
24 Ora mi rallegro nelle mie sofferenze per voi perché partecipo nella mia carne a quanto ancora manca delle afflizioni del Messìa per il suo corpo, che è la chiesa,
25 della quale sono diventato servitore secondo l’amministrazione di Dio che mi è stata data per voi,
26 il mistero che era stato nascosto per [tutte] le età e a tutte le popolazioni, ma che ora è stato manifestato ai suoi santi,
27 ai quali Dio ha voluto fare conoscere quale [sia] la ricchezza della gloria di questo mistero tra i non ebrei che è il Messìa in voi, la speranza della gloria;
28 il quale [Messìa] noi annunciamo ammonendo ogni uomo e istruendo ogni uomo in ogni sapienza, allo scopo di presentare ogni uomo perfetto nel Messìa Gesù.
29 al quale scopo mi affatico con l’attività di colui che mi rende attivo con [la sua] potenza.
1:24
Sofferenze traduce il plurale di páthēma, sostantivo astratto che si riferisce a ciò che risulta dall’azione di soffrire (espressa in greco da páskhō, verbo con il doppio tema – paskh e path – dal cui presente nel greco moderno e nelle lingue slave deriva il nome della Pasqua cristiana, incentrata sulla passione di Gesù). Parlando di Paolo al momento della sua conversione il Signore Gesù aveva detto – in rivelazione ad Anania – che uello che fino ad allora era stato un terribile nemico dei credenti era in realtà uno strumento che lui stesso si era scelto per portare il suo nome davanti ai popoli, ai re, e ai figli di Israele, e che gli avrebbe mostrato quanto avrebbe dovuto soffrire (patheĩn) per il suo nome (Atti 9:16).
La congiunzione perché non è presente come tale nel testo, dove troviamo solo un kai che andrebbe classicamente tradotto con “e” o con “anche”. In realtà però la congiunzione kai – che, dopo l’articolo determinativo, è la seconda parola più frequente nel testo greco del Nuovo Testamento – non significa solo “e”, o “anche”: soprattutto nel corpus della Koinè, può assumere molti altri significati, e diventare una congiunzione con valore concessivo, temporale, o anche causale.
Partecipo riassume un po’ brutalmente la lunga perifrasi con cui andrebbe più precisamente tradotto il verbo antanaplērō̃: “faccio la mia parte nel portare a compimento”.
Afflizione traduce thlĩpsis dal verbo thlī́bō, che non è escluso abbia a che fare con il latino tribulatio, e che significa “spremere”, “schiacciare”, e corrisponde a un senso generale di “avversità”. Lo stesso senso che in ebraico è espresso dalla radice yod.tzade.resh che si riferisce all’azione di “formare” (yatsar) e che contiene anche le consonanti principali di parole che significano “avversario” (tsar) e “ristrettezza, difficoltà” (tsarah). Paolo qui si riferisce alla formazione della chiesa come corpo (cioè come Sposa: vedi nota al verso 1:18) del Messìa, un’opera che non è – evidentemente – ancora arrivata al suo compimento.
1:26
Mistero è una parola che ci arriva dal greco mustḗrion, termine che appare spesso anche nel Nuovo Testamento (soprattutto nelle Lettere di Paolo) e che gli etimologi fanno derivare da mŭ́stēs (“iniziato”) muéō (muéō, “iniziare”), a sua volta derivante da mū́ō (“chiudo”, da cui peraltro deriva anche miope). Curiosamente però nei libri profetici troviamo anche la parola mistar – che viene dalla radice samech.thav.resh “nascondere” – e che significa “luogo segreto”, “nascondiglio”.
Età traduce il termine greco aiṓn, a volte reso con “eone”, più speso con “secolo”, “evo”, nel senso di epoca il cui inizio e la cui fine sorpassano la memoria dell’uomo. Da aiṓn deriva l’aggettivo aiṓnios che normalmente traduciamo con eterno. In ebraico ad aiṓn corrisponde la parola ‘olam che, oltre a “eternità”, vuole dire anche “universo” (la radice ayin.lamed.mem ha anche questa a che fare con il rascondimento).
Popolazione traduce qui geneá, sostantivo femminile che significa sia “stirpe” che “generazione”.
Ai suoi santi, cioè a coloro che credono in lui (vedi nota al verso 1:4)
1:27
Non ebrei rende il senso di éthnē – plurale del sostantivo neutro éthnos (“nazione”) – che traduce a sua volta l’ebraico goyim. A Israele si è rivelato il Dio di tutte le nazioni, l’unico Dio come suona la premessa del primo comandamento nota come lo shema’: “ascolta Israele il SIGNORE il nostro Dio è l’unico SIGNORE” (Deuteronomio 6:4). Il SIGNORE (YHWH) è unico perché è uno (‘echad) e raduna sotto il suo comando tutte autorità dei cieli e della terra (Colossesi 1:16 e 2:10).
La speranza della gloria si riferisce alla gloria che sarà anche nostra, cioè di tutti i credenti – sia ebrei che non ebrei – quando sarà rivelata la gloria del Messìa (cf. Colossesi 3:2-4). Per il senso della parola ebraica per “gloria” (kavod), vedi la nota al verso 1:11.
1:28
La sapienza, in greco sophía, nella mentalità ebraica corrisponde più che alle capacità dialettiche e intellettuali a cui principalmente pensavano i greci, alla forza morale che procede dal timore di Dio (Proverbi 9:10). Per Paolo, la perfezione della sapienza è stata manifestata da Gesù sulla croce (1Corinzi 1:23-24).
Perfetto nel Messìa: non si tratta di presentare al Messìa i credenti come perfetti, ma piuttosto di presentare a Dio ogni uomo completamente nascosto nel Messìa, completamente cosciente cioè del proprio bisogno della giustizia di Dio, che non procede dalle proprie opere, ma soltanto dalla grazia senza la quale non è possibile né fare, né voler fare niente di buono (Filippesi 2:12-13).
1:29
Attività traduce qui la parola enérgeia (normalmente resa con il termine atto). Potenza e atto (dúnamis kaì enérgeia) formano, nella filosofia di Aristotele, una coppia di concetti che si appaia e si incrocia con altre coppie come materia e forma, accidente e sostanza, ecc. Qui Paolo usa questi termini in modo non tecnico, anche se non filosoficamente sgrammaticato. Rispetto alla terminologia filosofica, l’uso di questi termini è però totalmente innovativo: la potenza è ciò che rende possibile l’atto, o attività, ma non si identifica con la materia (prima o seconda che sia), bensì con l’intima conoscenza della forza di Dio (cf i versi 1:6 e 1:10-11), che viene comunicata dallo Spirito Santo (vedi la nota su potenza al verso 1:11).