
La fede in Gesù come Signore e salvatore ci porta a cambiare il modo in cui percepiamo il nostro hic et nunc, ma, dicevamo, con Cristo entriamo nella luce (“Risvegliati tu che dormi … e Cristo ti inonderà di luce!”; Efesini, 5:14), e così, per mezzo della fede in quello che ci ha detto e in quello che ci ha fatto, riusciamo a guardare con fiducia anche oltre il nostro orizzonte immediato; acquistiamo cioè un nuovo sguardo, sia sul nostro futuro, sia sul nostro passato.
In realtà non si tratta solo del nostro sguardo o del nostro sapere. Il passato influisce sulla nostra condizione presente perché la nostra condizione presente è effettivamente conseguenza delle scelte che abbiamo fatto. Paolo ha scritto che “il salario del peccato è la morte” (Romani, 6:23a). Così, se si scelto la via del peccato, il risultato non può essere la vita. Nel suo primo salmo Davide definisce la felicità come la condizione di chi “non ha camminato secondo il consiglio degli empi, non si è fermato sulla via dei peccatori e non si è seduto in compagnia degli schernitori” (Salmi, 1:1; nel testo originale, a differenza delle principali traduzioni moderne, tutti questi verbi sono al tempo al passato). Così se in passato abbiamo camminato per la via sbagliata, nel presente non possiamo attenderci la felicità. Ma, continua l’apostolo Paolo, “il dono di Dio è la vita eterna, in Cristo Gesù, nostro Signore.” (Romani, 6:23b). Se il nostro passato ci incastra in una condizione di prigionia e schiavitù (Giovanni, 8:34), la parola di Dio ci offre invece una duratura liberazione.
Ravvedimento
Rispetto al passato, l’azione che ci chiede di compiere la parola di Dio è molto semplice da dire, anche se molto meno semplice da fare. Il comando è: Ravvedetevi!
Non lo dice solo a coloro che non hanno ancora creduto. Quella al ravvedimento è l’esortazione più frequentemente rivolta non solo ai pagani, non solo al popolo di Israele prima di Cristo, ma anche ai cristiani e anche, anzi soprattutto, ai cristiani maturi. Per esempio, le sette lettere alle chiese dell’Apocalisse (capitoli 2 e 3), sono indirizzate a credenti che avevano già avuto la loro vita trasformata dall’incontro con Gesù. Eppure queste lettere contengono ben sei volte un’accalorata esortazione a ravvedersi.
Ravvedersi traduce il verbo greco metanoèin (μετανοεῖν), che significa letteralmente “cambiare mente”, cioè “cambiare idea, modo di pensare”. Soprattutto riguardo a Dio. Prima di credere alla Bibbia, non avevamo una grande opinione di Dio. Anche se forse non l’avremmo mai osato affermare, pensavamo di essere in qualche modo più giusti o più attenti noi, almeno per quanto riguardava la nostra stessa vita e quella dei nostri cari. Con la nostra giustizia, o con la nostra bravura, pensavamo di poterci guadagnare una certa immortalità. Ce ne rassicuravamo celebrando gli altri uomini, dando debitamente credito al nome dei viventi e soprattutto glorificando le opere di quelli che sono morti.
Gesù invece ci ha fatto chiaramente sapere che solo Dio è veramente buono (Matteo, 19:17). E che le cose che gli uomini considerano sublimi, per Dio sono piuttosto nauseabonde (Luca, 16:15). Ai suoi stessi discepoli, non si è trattenuto dal ricordare che erano malvagi (Matteo, 7:11). E certamente non lo ha detto per accusarli, o per farli sentire male. Lo ha menzionato come un indiscutibile dato di fatto.
La parola di Dio ci ricorda continuamente che non siamo giusti, ma non certo per inchiodarci alla nostra ingiustizia. Piuttosto affinché possiamo metterci a cercare la vera giustizia, che viene dalla fede nella bontà di Dio, ed essere liberati dalla superbia che ci allontana dalla verità, liberati dall’orgoglio, cioè, di aver fatto (e poter fare) del bene con le nostre sole forze. La parola di Dio ci vuole liberare anche dall’altro estremo, che è anche la diretta conseguenza della superbia, cioè dal rimorso e dal senso di colpa che ci appesantiscono (in forma rispettivamente acuta e cronica) quando ci ricordiamo dei nostri fallimenti e dei nostri misfatti. Superbia e senso di colpa sono causalmente connessi perché, come è scritto, la superbia precede la caduta (Proverbi, 16:18). A differenza del ravvedimento (e come la superbia), il senso di colpa – che per altro viene dalle accuse dello stesso nemico di Dio che ci ha portato a peccare – non ci dà nessun desiderio e nessuna speranza di potere un giorno essere diversi da quello che siamo stati nel passato.
Se siamo onesti con noi stessi, ci rendiamo conto da soli di quello che siamo. Critiche e accuse ci servono a poco. Perché, se non abbiamo conoscenza della bontà e della grazia di Dio, non possiamo sperare di poter essere diversi. Ci viene così da dubitare che ci sia un Dio e soprattutto che questo Dio ci ami e ci possa aiutare a cambiare.
Il ravvedimento di cui parlano le Sacre Scritture è la porta stretta che conduce alla salvezza, cioè al cambiamento di cui abbiamo bisogno e che dobbiamo continuare a cercare (Matteo, 7:13-14). La parola di Dio infatti ci dice chiaramente che, se continuiamo nel nostro egoismo e nella nostra ingiustizia, non ci servirà a un bel niente aver espletato i nostri doveri religiosi. Se non sono accompagnate da una vita giusta, le nostre devozioni non sono affatto gradite a Dio e non ci cambieranno ai suoi occhi (che non possono essere ingannati dalle apparenze). Scrive infatti il profeta Isaia, parlando da parte del Signore: “Quando stendete le mani, distolgo gli occhi da voi; anche quando moltiplicate le preghiere, io non ascolto; le vostre mani sono piene di sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete davanti ai miei occhi la malvagità delle vostre azioni; smettete di fare il male; imparate a fare il bene; cercate la giustizia, rialzate l’oppresso, fate giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova! Poi venite, e discutiamo [il verbo – יָכַח yakach – usato qui nella forma passiva significa più precisamente “riprendere”, “convincere” sottinteso di peccato], dice il SIGNORE; anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come la neve; anche se fossero rossi come porpora, diventeranno come la lana” (Isaia, 1:15-18).
Il battesimo (cioè l’immersione nell’acqua e la fuoriuscita dall’acqua, questo è il senso della parola greca baptismòs βαπτισμός) esprime l’immersione nella (cioè l’identificazione con la) morte/sepoltura/risurrezione di Cristo. Lo si chiede quando ci si lascia convincere dallo Spirito santo che si è peccatori e che non c’è altra via per essere salvati se non quella preparata da Dio con il sacrificio di Gesù Cristo. Prima di allora, si è vissuta la propria vita sotto giudizio. I peccati contro Dio e contro il prossimo pesano sulla coscienza, sporcandola sempre di più, fino a rischiare di ucciderla, e impediscono di aprirsi sia davanti a Dio, sia davanti al nostro prossimo.
Il battesimo in acqua, che segue il primo ravvedimento quando abbiamo finalmente compreso il sacrificio di Cristo, esprime innanzitutto il bisogno di una trasformazione interiore. L’acqua del battesimo non lava il corpo (l’esterno), ma la mente (l’interno), ha cioè la funzione di cancellare la memoria della corruzione, così come aveva fatto il diluvio ai tempi di Noè. Lo spiega così anche l’apostolo Pietro: parlando del diluvio, dice proprio che “quell’acqua era figura del battesimo, che non è eliminazione di sporcizia dal corpo, ma la richiesta di una buona coscienza verso Dio. Esso ora salva anche voi, mediante la risurrezione di Gesù Cristo” (1Pietro, 3:21).
Il ravvedimento è infatti prodotto in noi dal riconoscere sia che Cristo è dovuto morire per le nostre colpe, sia che Dio non ha condannato l’innocente alla corruzione dopo la sua morte, ma l’ha risuscitato dai morti. Anzi, attraverso di lui, ha dato vita eterna a tutti gli uomini che credono alla sua giustizia, cioè alla giustizia e la necessità di quello che Gesù ha detto e ha fatto per noi nel nome del Padre.
Il battesimo è il primo passo in una nuova (e angusta) via che procede nello stesso senso, e con le stesse difficoltà: anche dopo la conversione, occorre continuare a riconoscere il proprio bisogno di grazia e contare sempre sulla guida dello Spirito Santo. Ai credenti della Galazia, che rischiavano di ascoltare un insegnamento diverso da quello che aveva portato loro, Paolo ha scritto con il suo solito fervore “Siete così insensati? Dopo aver cominciato con lo Spirito, volete ora raggiungere la perfezione con la carne?” (Galati 3:3). La nostra coscienza non è infatti purificata da un gesto rituale, né tanto meno da una vita vissuta per compiere le opere insegnate dalla Legge. Non perché queste siano sbagliate (non potrebbero anzi essere indicate opere più giuste), ma perché, come abbiamo già visto, se guardiamo al bene o al male che abbiamo fatto noi, non possiamo che innalzarci o deprimerci, mancando così di ricevere la felicità che Dio ci vuole dare. E che proviene anche da una coscienza pulita, cioè dalla possibilità di non pensare più a noi stessi, cioè di smettere di sentirci condannati per il male che abbiamo fatto, ma di smettere anche di felicitarci con noi stessi per il bene che è stato fatto attraverso di noi, o attraverso altre creature che ammiriamo e in cui ci identifichiamo. E contemplare in pace le opere eterne di Dio.
La coscienza nella vita quotidiana
Ma cos’è la coscienza? La definizione scientificamente più onesta parte dal suo contrario: “la coscienza è quella cosa che scompare ogni notte quando ci addormentiamo e riappare in prossimità del risveglio, prima con i sogni e poi, sempre più nitidamente, nello stato di veglia”.
Quando qualcuno ha subito un infortunio e vogliamo capire se ha perso coscienza o è ancora in sé, i manuali di primo soccorso ci insegnano a fargli domande come “Che anno è? Che giorno è? Dove siamo? Come ti chiami? Dove abiti?”. Se risponde a tono vuol dire che è ancora cosciente.
Ciò che chiamiamo coscienza, se vogliamo tentare una definizione positiva, è insomma il complesso coerente di conoscenze che abbiamo della nostra posizione (nello spazio-tempo e rispetto ai gruppi sociali di cui facciamo parte), delle nostre azioni (e, almeno in parte, delle loro motivazioni), dei nostri propri pensieri, delle nostre percezioni, ecc. : il flusso più o meno continuo e recuperabile delle cose che sappiamo su di noi quando siamo svegli. Cose che talvolta vorremmo anche dimenticare: andando a dormire, bevendo sostanze narcotizzanti, o facendo altre cose che sappiamo di non dover fare, nel tentativo appunto di “cauterizzare” la nostra coscienza. Ma non è sempre così facile.
La consapevolezza di noi stessi, assieme alla possibilità di esprimerla, è una dotazione di Dio per tutta l’umanità. Lo scrive anche Paolo, nella Lettera ai Romani: “Infatti quando degli stranieri, che non hanno la Legge, adempiono per natura le cose richieste dalla Legge, essi, che non hanno la Legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la Legge comanda è scritto nei loro cuori, perché la loro coscienza ne rende testimonianza e i loro pensieri si accusano o anche si scusano a vicenda.” (Romani 2:14-15).
Le diverse culture, attraverso i loro linguaggi e i loro particolari stili di vita, hanno sviluppato aspetti diversi della coscienza, ma tutti gli uomini ne sono in qualche modo dotati, perché tutti ricordano la loro propria storia, e di questa storia sanno cosa possono vantare e cosa devono confessare, o nascondere.
Dalla coscienza umana derivano, più o meno linearmente, anche tutte le leggi stabilite dagli uomini, che servono a codificare le linee di condotta accettabili e quelle non accettabili. La lingua inglese distingue tra coscienza come stato mentale (consciousness) e coscienza morale (conscience). L’italiano, il latino e il greco no. E c’è un senso in questa omonimia, che può apparire a prima vista come un’imprecisione; perché, appunto, la coscienza morale dipende dallo stato mentale che chiamiamo semplicemente coscienza (perché altrimenti non siamo responsabili di quello che facciamo), e anche perché quella che chiamiamo buona e cattiva coscienza corrispondono a quello che sappiamo di avere fatto o non fatto in passato.
La coscienza di ciascuno raduna le nostre conoscenze in un soggetto unico (parliamo infatti di individuo, parola che è etimologicamente connessa all’indivisibilità della nostra persona), al quale corrisponde di diritto un nome proprio. Cosa che non ci impedisce di produrre dei soggetti fittizi: in letteratura costruendo dei personaggi o addirittura degli autori (pseudonimi); nello spionaggio; nei giochi di ruolo o, più semplicemente, nei giochi che si facevano da bambini… Questo sdoppiamento del soggetto, accettabile in arte, nel gioco, o nella guerra prende però un altro valore etico quando è in vista di un proprio tornaconto, perché la nostra stessa coscienza ne è danneggiata. In questi casi usiamo termini come voltaggabbana, opportunista, ipocrita, … Per coloro che danno un alto significato all’integrità della propria coscienza, parliamo invece di uomini e donne tutti di un pezzo.
Come abbiuamo già accennato e come stiamo per vedere meglio anche dal punto di vista della filosofia e della scienza, l’integrità morale ha molto a che vedere con l’integrazione delle nostre conoscenze in un’unità indivisibile operata dalla nostra coscienza. Ma come si forma questa integrazione? E dove?
La coscienza in filosofia e nelle neuroscienze
Quello di capire cosa sia e come funzioni la coscienza è stato definito come il problema della filosofia e, oggi, delle neuroscienze. Il fatto di essere coscienti di noi stessi, e di essere in grado di esprimere la nostra identità ci rende diversi da tutti gli altri organismi, ma è qualcosa che sfugge la nostra intelligenza. Eppure questa certezza del nostro essere pensante è la base di ogni altra certezza naturale. Il pensiero cosciente sta all’origine della filosofia greca (pensiamo al Noûs di Talete e di Anassagora), e anche di quella moderna (pensiamo al Cogito di Cartesio). Di fatto, però, filosofi e scienziati ancora non hanno saputo definirla con precisione. Anche loro ne devono parlare come di una misteriosa facoltà mentale. E constatare che è da questa facoltà mentale che procede non solo la nostra vita interiore ma anche la percezione di tutte le cose attorno a noi come le percepiamo (riconoscendole e nominandole come oggetti dotati di senso). I colori, i suoni, gli odori e i sapori sono quelli che sono per ciascuno di noi perché possiamo confrontarli con i colori, gli odori e i sapori della nostra vita, in una rete infinita di associazioni che formano la memoria del tempo che abbiamo vissuto e fanno di noi quello specialissimo individuo che siamo soltanto noi.
Essere coscienti significa essere in grado di assemblare le informazioni che ci riguardano e collegare quindi il nostro presente con il nostro passato, in modo da ricostruire internamente quell’unità che fa di noi degli individui. L’unità è infatti una delle più peculiari caratteristiche dell’esperienza cosciente. L’altra è l’infinita varietà che viene dalla sensibilità alle infinite forme del reale. Sappiamo che siamo svegli perché discerniamo i dettagli di una realtà che possiamo guardare sempre più nel piccolo, o nel grande: la stessa realtà alla quale ci siamo adattati in un’esperienza di apprendimento che continua dalla nostra nascita, anzi dalla nascita dell’uomo. La coscienza, come il sistema dei significati a cui rimandano tutte le cose, è costituita una complessa rete di collegamenti che grazie al linguaggio siamo in grado (seppur imperfettamente) di comunicare e trasmettere di generazione in generazione.
Nella nostra testa, a questa esperienza unitaria e infinitamente diversificata corrisponde la struttura più complessa dell’universo conosciuto: il sistema talamo-corticale. La corteccia cerebrale (nei due emisferi cerebrali e in altre strutture interne tra cui per esempio l’ippocampo) è un intricata ma ordinatissima matassa di cellule collegate le une alle altre anche attraverso associazioni che si sviluppano e si stabilizzano nel tempo soprattutto grazie alla simultaneità dell’attivazione dei circuiti neurali coinvolti nelle diverse esperienze.
Il cervello non è costituito solo dal sistema talamo corticale. Anzi nella maggior parte degli animali questo sistema occupa solo una ridotta parte del cranio. Ci sono infatti azioni anche molto fini che compiamo senza l’intervento della coscienza, azioni – come camminare, nuotare o andare in bicicletta – che abbiamo imparato a compiere da piccoli e che il nostro corpo non dimentica più. Azioni nelle quali, per altro, gli animali risultano di solito molto più performanti di noi. Coscientemente scegliamo dove andare, ma non abbiamo bisogno di pensare a come farlo, perché il nostro cervello dà i suoi ordini al corpo senza che ce ne dobbiamo occupare.
La parte dell’encefalo che governa gran parte di queste sequenze di azioni – il cervelletto – si caratterizza per una struttura cellulare arboriforme che permette un controllo gerarchico e un alto grado di informazione, ma nessuna connessione tra le cellule ai vertici delle piramidi. Danni o mutilazioni alla corteccia e alle connessioni che la costituiscono (per esempio, la scissura del corpo calloso, che connette i due emisferi cerebrali) possono avere sostanziali ripercussioni sulla coscienza dell’individuo che li ha subiti, mentre la rimozione del cervelletto non provoca alcuna alterazioni dello stato di coscienza, ma solo un importante ingoffimento dei movimenti.
La coscienza, come l’erba dei campi, emerge quindi da questa specie di rizoma di connessioni che è la corteccia, organizzata secondo l’ordine vivente che risulta da quelle sensazioni, associazioni e ricordi che man mano, grazie ai suoi collegamenti con il talamo, permette lei stessa di stabilire, dandoci la capacità di integrare, in una delicata unità, l’esperienza di tutta la vita.
Lo studio scientifico del cervello, insomma, ci porta a riconoscere quello che la sapienza aveva già insegnato fin dai tempi antichi. La verità di una frase, di un discorso o di un’azione non sta in una corrispondenza speculare con una realtà esterna, ma ne l suo integrarsi con la totalità delle connessioni che formano la nostra mente. Una vivente metafora del nostro rapporto con la mente di Dio, la mente di Colui che cura il minimo dettaglio in vista della totalità dell’Universo e la totalità dell’Universo in vista del minimo dettaglio.
La coscienza nella Bibbia
Davide ha espresso bene il peso e la fenomenologia della cattiva coscienza quando ha scritto “… riconosco le mie colpe [l’originale dice semplicemente “conosco”, usando la prima forma del verbo yada’ יָדַע, “conoscere”], il mio peccato è sempre davanti a me” (Salmi, 51:3).
Tutto il sistema di sacrifici di riparazione insegnato attraverso Mosè ha precisamente lo scopo di lavare la coscienza dei figli di Israele dai peccati che avevano commesso più o meno volontariamente (e per eliminare dal popolo coloro i cui peccati non potevano essere rimessi).
Anche se non fa che precisare parole già presenti nella lingua ebraica (in particolare, il termine da’ath דַּעַת “conoscenza”), il concetto di “coscienza” appare come termine del lessico biblico solo con l’arrivo della lingua greca. Cioè, nei testi originali, soltanto con il Nuovo Testamento.
La parola è sunèidesis (συνείδησις), sostantivo composto dalla preposizione sun che significa “con”, e la radice verbale eid che significa “vedere, conoscere, sapere” (la stessa radice della parola idea). Equivale esattamente al latino conscientia (cum+scientia).
La prima apparizione del termine (e l’unica nei vangeli) la troviamo verso la conclusione dell’episodio della donna colta in flagrante adulterio: “…E, siccome continuavano a interrogarlo, egli [Gesù], alzato il capo, disse loro: Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei. E, chinatosi di nuovo, scriveva in terra. Essi, udito ciò, e accusati dalla loro coscienza, uscirono uno a uno, cominciando dai più vecchi fino agli ultimi.” (Giovanni, 8:7-9).
La seconda volta che il termine sunedesis appare nel Nuovo Testamento, ci troviamo nel libro degli Atti, all’inizio del capitolo 23, quando Paolo è chiamato a rendere conto della sua fede davanti ai capi dei giudei e “… fissato lo sguardo sul sinedrio, disse: fratelli, fino ad oggi mi sono condotto davanti a Dio in tutta buona coscienza”.
Curiosamente, poco dopo, Polo fa riferimento proprio all’unica apparizione del termine sunéidesis nella traduzione greca dell’Antico Testamento. Difatti leggiamo che, in risposta a quell’affermazione di Paolo, “Il sommo sacerdote Anania comandò a quelli che erano vicini a lui di percuoterlo sulla bocca. Allora Paolo gli disse: Dio percuoterà te, parete imbiancata; tu siedi per giudicarmi secondo la legge e violando la legge comandi che io sia percosso?» Coloro che erano là presenti dissero: Tu insulti il sommo sacerdote di Dio?» Paolo disse: Fratelli, non sapevo che fosse sommo sacerdote; perché sta scritto: “Non dirai male del capo del tuo popolo” (Atti, 23:2-5). Il riferimento è a un verso dell’Ecclesiaste: “Non maledire il re, neppure con il pensiero” (Ecclesiaste, 10:20). Quello che in italiano rendiamo con neppure con il pensiero nella traduzione alessandrina detta dei Settanta, che era utilizzata da tutti gli ebrei della diaspora, suona καί γε ἐν συνειδήσει σου kài ghe en suneidèsei sou. Cioè, “[ne]anche nella tua coscienza”.
In sostanza, la buona coscienza di cui Paolo si era potuto vantare davanti al sinedrio – e di cui torna a parlare giorni dopo davanti al governatore Felice, al quale dice di esercitarsi “ad avere sempre una coscienza pura davanti a Dio e davanti agli uomini” (Atti 24:16) – consiste nel non trasgredire volontariamente nessun comandamento di Dio. Cioè di non aver commesso un peccato sapendo di stare facendo qualcosa di male agli occhi del Signore.
Gesù aveva comunque insegnato in varie occasioni che la conoscenza porta con sé una maggiore responsabilità: “Quel servo che ha conosciuto la volontà del suo padrone e non ha preparato né fatto nulla per compiere la sua volontà, riceverà molte percosse; ma colui che non l’ha conosciuta e ha fatto cose degne di castigo, ne riceverà poche. A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto; e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà” (Luca, 12:47-48). E Giacomo, nella sua lettera apostolica, conclude la sua esortazione all’umiltà dicendo “Chi dunque sa fare il bene e non lo fa, commette peccato” (Giacomo 4:17). Sapere o non sapere di dovere o di non dover fare una certa cosa cambia totalmente, davanti a Dio, il valore di una stessa azione, o di una stessa omissione. Perché quello che conta per Dio sono le motivazioni del nostro cuore.
Anche Davide aveva scritto: “Trattieni inoltre il tuo servo dai peccati volontari, e fa’ che non prendano il sopravvento su di me; allora sarò integro e puro da grandi trasgressioni.” (Salmi, 19:13).
Dell’importanza della buona coscienza è comunque Paolo che parla più diffusamente ed esplicitamente: in molte delle sue lettere, soprattutto nelle ultime. Ma fin dalle prime, la buona e la cattiva coscienza, cioè, in ultima analisi, l’intenzione, la motivazione che sta dietro alle nostre azioni, sono proprio al centro del suo insegnamento.
L’opera della coscienza non è quella di renderci giusti. Paolo lo chiarisce ai Corinzi, scrivendo loro “io non ho coscienza di alcuna colpa; ma non per questo però sono giustificato… (1Corinzi 4:4). Semmai, come la Legge (da cui dipende direttamente, almeno per gli ebrei osservanti), di mostrarci che non lo siamo (infatti nessuno riesce a osservarla in toto).
La buona coscienza è insomma un fatto negativo. Come la salute (secondo la famosa definizione del chirurgo francese René Leriche, che ne parlava come della vita “nel silenzio degli organi”), la buona coscienza più che in un sentimento di positiva bontà e approvazione consiste nell’assenza di rimproveri interni. Una condizione necessaria per la salvezza, ma non sufficiente. Come la Legge, che è data per i peccatori (1Timoteo, 1:9), la coscienza serve a sapere cosa non fare (o non ripetere, una volta fatto), ma non ci insegna cosa fare, né come farlo. Infatti, come non sono le accuse (e spesso neanche le critiche, cioè i giudizi) dei nostri pari ad aiutarci davvero a cambiare in meglio, così nemmeno la condanna di Dio ci porta a fare il bene. Al contrario, è la sua bontà che ci “spinge a ravvedimento” (Romani, 2:4).
Abbiamo già parlato del fatto che il senso di colpa non produce che l’amarezza per il proprio fallimento e il desiderio di fuggire dalla vita. Anche il rimprovero serve fino a un certo punto, dopo di che diventa controproducente. Isaia all’inizio del suo libro parlando ai giudei da parte del Signore, scrive “Per quale ragione colpirvi ancora? Aggiungereste altre rivolte. ” (Isaia 1:5a).
Dopo averci dato la Legge, Dio ha compiuto l’opera della sua grazia dando suo figlio in sacrificio per tutti quelli che avrebbero creduto in lui. Come aveva scritto il Salmista: “Se tieni conto delle colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma presso di te è il perdono, perché tu sia temuto.” (Salmi 130:3-4). Il giusto timore di Dio, più che dalla paura di un castigo, procede dall’assicurazione del perdono concesso per grazia, cioè per amore. Parlando della fede, abbiamo già visto che questo timore, che nei Proverbi è descritto come “il principio della sapienza” (Proverbi, 9:10), significa piuttosto “considerazione” che “paura” (anche che il verbo ebraico per “temere” yare’ יָרֵא è strettamente collegato al verbo che significa vedere cioè ra’ah רָאָה).
Il timore del SIGNORE corrisponde alla coscienza del fatto che tutto quello che facciamo gli è totalmente palese, nelle intenzioni oltre che nei risultati. Se la sapienza è definita dal timore del Dio vivente che ci vede e ci giudica secondo verità, la stoltezza corrisponde alla certezza del contrario, alla certezza del fatto cioè che non esiste nessun Dio che ci vede e che giudica la verità delle nostre azioni, delle nostre parole e dei nostri pensieri. Davide infatti ha scritto (due volte) : “Lo stolto ha detto in cuor suo: Dio non c’è” (Salmi, 14:1a e 53:1a).
Stolto, cioè, non è necessariamente colui che si professa ateo dicendo apertamente di non credere nell’esistenza di Dio, ma piuttosto colui che, magari dichiarandosi credente, vive come se Dio non ci fosse davvero, perché questo è quello che dice a se stesso. E così compie le sue azioni per apparire buono davanti agli uomini, non tenendo conto del giudizio del SIGNORE (Colui che è e che vede ogni cosa).
E in questa categoria rischiamo di cadere un po’ tutti. Difatti Davide continua scrivendo “Sono corrotti, fanno cose abominevoli; non c’è nessuno che faccia il bene. Il SIGNORE ha guardato dal cielo i figli degli uomini, per vedere se vi è una persona intelligente, che ricerchi Dio. Tutti si sono sviati, tutti sono corrotti, non c’è nessuno che faccia il bene, neppure uno.” (Salmi, 14:1b-3).
Falsa coscienza
Dopo aver fatto il male, abbiamo due possibili comportamenti, che dipendono da quanto ci teniamo alla verità, e quindi all’integrità della nostra coscienza. Uno è ammettere la nostra colpa, l’altro è coprirla. Il timore di Dio porta alla prima scelta (“chi copre le sue colpe non prospererà, ma chi le confessa e le abbandona otterrà misericordia.” Proverbi, 28:13), quello degli uomini alla seconda. Ma delle volte ci comportiamo con Dio come se fosse un uomo e potessimo fargli credere quello che non è vero. Cosa che ci porta lontano dalla verità, fino a domandarci cosa sia la verità, e se ne esista una.
Come esseri umani cerchiamo sempre di trovare delle scuse. In una certa misura sappiamo tutti che c’è qualcosa di sbagliato in noi. Paolo l’ha confessato chiaramente: “Io so che in me (cioè nella mia carne) non abita alcun bene.” (Romani, 7:18). Invece noi, fino a quando non riconosciamo il nostro bisogno di grazia da parte di Dio (e per certi versi anche dopo averlo riconosciuto), cerchiamo di dimostrare agli altri e a noi stessi che dopo tutto in noi c’è qualche cosa di buono. Così, come abbiamo letto, i nostri “pensieri si accusano o anche si scusano a vicenda.” (Romani 2:14-15).
Gesù ha detto e ripetuto che chi vuole essere suo discepolo deve rinunciare a se stesso e prendere ogni giorno la sua croce (Matteo, 10:38 e 16:24; Marco, 8:34; Luca, 9:23 e 14:27). Questo significa anche rinunciare alle proprie ragioni e alle proprie scure. Non pensare più di acquistare valore davanti a Dio per quello che abbiamo fatto o che possiamo fare, ma ogni giorno mettere a morte, mediante lo spirito, le opere del corpo (Romani 8:13). Rinunciando cioè a presentare se stessi e presentando piuttosto l’opera di Dio.
Questo necessario cambio di rotta (le Scritture parlano di conversione) è anche, in qualche modo, un cambio d’identità. Scrive difatti Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me! La vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me.” (Galati, 2:20). Questa via, aperta da Gesù con il suo esempio, è l’unica che ci porta alla salvezza, l’unica che ci permetta cioè di dimenticare il nostro passato e acquistare una coscienza pura.
Per questo, Gesù ha sgridato non tanto i peccatori, quanto quelli che si consideravano giusti, perché mentre dicevano di dare gloria a Dio si sforzavano in realtà di presentare la propria giustizia davanti agli uomini, e non potevano perciò che essere degli ipocriti: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché siete simili a sepolcri imbiancati, che appaiono belli di fuori, ma dentro sono pieni d’ossa di morti e d’ogni immondizia.” (Matteo 23:27).
Come i farisei allora, anche noi oggi, sapendo di non poter giustificare le cattive azioni che commettiamo in segreto (soprattutto nel nostro cuore), cerchiamo di coprirle con delle buone azioni fatte in pubblico e per il pubblico. Da queste cose Gesù ha messo ripetutamente in guardia i suoi dicendo, dicendo tra le altre cose, proprio riguardo alle opere giuste: “Quando fai l’elemosina [in ebraico l’elemosina è chiamata con la stessa radice della parola giustizia], non far suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere onorati dagli uomini.” (Matteo, 6:2).
Questo desiderio di essere riconosciuti come persone – e di avere coperti la nudità e gli anonimi atti del corpo – non è un male in sé. Paolo ne parla come di una necessità spirituale (cf. 2Corinzi, 5:1-4). È una conseguenza della conoscenza del bene e del male acquisita mangiando del frutto di quell’albero al centro del giardino del quale il SIGNORE aveva detto ad Adamo di non prendere e mangiare. Prima di mangiare di quel frutto, l’uomo e la donna erano nudi e non se ne vergognavano (Genesi, 2:25). Da allora, invece, a differenza degli animali, quando siamo svestiti sappiamo sempre molto bene di essere nudi.
Quando Dio chiama Adamo nell’Eden, lui si nasconde, poi spiega: “Ho udito la tua voce nel giardino e ho avuto paura, perché ero nudo, e mi sono nascosto. Dio disse: Chi ti ha mostrato che eri nudo? Hai forse mangiato del frutto dell’albero, che ti avevo comandato di non mangiare?” (Genesi, 3: 10-11). Prima di questo incontro, ma dopo aver mangiato del frutto di quell’albero, quando si erano aperti i loro occhi e si erano accorti di essere nudi, avevano cucito assieme delle foglie di fico e se ne erano fatte delle cinture (Genesi 3:7). Ma questa copertura non era sufficiente, così “per Adamo e sua moglie il SIGNORE Dio fece delle tuniche di pelle, e li vestì” (Genesi, 3:21). Il che ha un senso abbastanza chiaro anche per noi oggi. Le nostre opere, cioè le opere che facciamo noi, con il nostro nome, non coprono la nostra nudità (o la nostra astuzia animale: ‘arom עָרוֹם la parola che significa “nudo” in ebraico è praticamente la stessa di quella che significa “astuto”, ‘arum עָרוּם). Solo ciò che Gesù ha compiuto sulla croce è in grado di coprire (espiare) i nostri peccati davanti a Dio.
Isaia ha scritto: “Tutti quanti siamo diventati come l’uomo impuro, tutta la nostra giustizia come un abito sporco; tutti quanti appassiamo come foglie e la nostra iniquità ci porta via come il vento.” (Isaia 64:6). I nostri sacrifici dimostrano la nostra sofferenza interiore e il nostro bisogno di coprire la nostra vergogna, ma non possono in realtà rivestirci di nessuna vera giustizia, perché sono comunque fatti nel nostro nome e in vista della nostra personale giustificazione, e rischiano di farci sentire più giusti e meritevoli di altri, o in credito di fronte al Signore. Con le proprie forze nessuno può espiare il suo peccato. E più uno pensa di poter invece farlo, contando magari sulle ricchezze che può distribuire, o su altre buone opere che la sua esperienza gli permette di realizzare, meno in realtà è qualificato per servire a qualcosa nel regno dei cieli. Ma, come ha detto Gesù, quello che è impossibile per noi uomini, non è impossibile per Dio “perché ogni cosa è possibile a Dio” (Marco 8:27). Perché il Signore, che cerca amore (carità, chesed חֶסֶד) e non sacrifici (Osea, 6:6), per poter trovare in noi quello che desidera, ha sparso il suo stesso amore nei nostri cuori (Romani, 5:5).
Lo spiega con maggior eloquenza l’autore della Lettera agli Ebrei “… I doni e i sacrifici offerti secondo quel sistema [la Legge data attraverso Mosè] non possono, quanto alla coscienza, rendere perfetto colui che offre il culto, perché si tratta solo di cibi, di bevande e di varie abluzioni, insomma, di regole carnali imposte fino al tempo di una loro riforma. Ma venuto Cristo, sommo sacerdote dei beni futuri, egli, attraverso un tabernacolo più grande e più perfetto, non fatto da mano d’uomo, cioè, non di questa creazione, è entrato una volta per sempre nel luogo santissimo, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue. Così ci ha acquistato una redenzione eterna. Infatti, se il sangue di capri, di tori e la cenere di una giovenca sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano, in modo da procurar la purezza della carne, quanto più il sangue di Cristo, che mediante lo Spirito eterno ha offerto se stesso puro di ogni colpa a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente!” (Ebrei, 9:9-14).
Eppure, anche tra i credenti convertiti, nonostante la conversione avvenga proprio quando si riconosce che solo Dio può purificarci e rivestirci di vera giustizia, è spesso ancora molto forte la tentazione di dare più valore alle cose che ci fanno fare bella figura. Forse perché vediamo onorare gli altri e vorremmo essere anche noi onorati come loro.
Troviamo questa miseria spirituale fin dall’inizio. La chiesa a Gerusalemme era appena nata e cresceva rigogliosa nella gioia della comunione fraterna, “ma un uomo di nome Anania, con Saffira sua moglie, vendette una proprietà, e tenne per sé parte del prezzo, essendone consapevole anche la moglie; e, un’altra parte, la consegnò, deponendola ai piedi degli apostoli.” (Atti 5:1-2). Si trattava di un atto compiuto seguendo l’esempio di vari altri che avevano venduto i loro beni e dato tutto il ricavato all’opera del Signore (Atti, 4:34-37), con il quale indicavano che avevano fatto la stessa cosa anche loro. Come ha detto loro l’apostolo Pietro, alle cui indignate parole entrambi i coniugi, uno dopo l’altro, sono morti di un colpo, non ci sarebbe stato niente di male se si fossero tenuto per se tutto il ricavato della vendita. Il problema è che invece, probabilmente per acquistare (o per non perdere) il favore della comunità, questi due membri della prima chiesa hanno deciso di mentire. E non solo agli uomini, ma, in ultima analisi, anche a Dio (Atti, 5:4).
Questa tragedia si ripete ogni volta che la coscienza dell’uomo, dopo essere stata purificata dal sangue versato da Gesù sulla croce, perde la dimensione divina che aveva acquistato e torna a giudicare nei termini dei vecchi criteri di convenienza egoistica all’interno del teatro del mondo (magari di quello ecclesiastico).
Sono tanti i modi in cui possiamo mentire davanti a Dio, perché non lo vediamo e per questo pensiamo che neanche lui ci veda. Infatti Dio sembra che tardi a farsi presente, mentre gli uomini e le circostanze attorno a noi sono molto presenti, e spesso anche pressanti. “Qual è mai il servo fedele e prudente che il padrone ha costituito sui domestici per dare loro il vitto a suo tempo? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà così occupato! Io vi dico in verità che lo costituirà su tutti i suoi beni. Ma, se egli è un servo malvagio che dice in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”; e comincia a battere i suoi conservi, a mangiare e bere con gli ubriaconi, il padrone di quel servo verrà nel giorno che non se l’aspetta, nell’ora che non sa, e lo farà punire duramente e gli assegnerà la sorte degli ipocriti. Lì sarà il pianto e lo stridor dei denti.” (Mat 24:45-5)
Il verbo tradotto, in modo un po’ arbitrario, con l’espressione “farò punire duramente”, nell’originale è dichotomeō διχοτομέω, che significa letteralmente “divido in due”. La sorte degli ipocriti è di essere divisi in due, perché il giudizio di Dio non fa che rivelare la condizione di una coscienza divisa: tra la realtà della propria vita e l’immagine che si vuole presentare agli altri (e, forse, di riflesso, anche a se stessi).
Un servo, se è veramente un servo, sa molto bene quello che deve fare. Se cerca la propria gloria e si comporta insinceramente con il suo padrone, sporca di nuovo la coscienza che era stata lavata a prezzo del sangue di Cristo (1Timoteo 4:2, Tito 1:15). Non desidera perciò incontrare il suo padrone e anzi nel suo cuore si compiace di avere ancora un po’ di tempo per pensare a se stesso.
Fede e coscienza
Nel linguaggio parlato, coscienza sporca si usa come un sinonimo di malafede. Forse però ora possiamo essere più precisi e dire che la coscienza sporca, più che un fenomeno simile alla malafede, è una sua diretta conseguenza, e la sua principale ragion d’essere. Da quello che abbiamo meditato fin qui, la fede e la coscienza risultano infatti strettamente correlate, come lo sono il nostro presente e il nostro passato. Quello che faccio oggi determina la mia coscienza di domani; d’altra parte, quello che so di aver fatto ieri mi porta anche ad agire in modo diverso da come agirei se non lo sapessi, o se sapessi di aver fatto qualcosa di diverso.
Abbiamo visto che la bontà della nostra coscienza consiste nella possibilità di formarci un quadro non contraddittorio di tutto ciò che sappiamo di noi e della vita, parole, azioni, pensieri. Ora, questa possibilità è data dai fatti che avvengono attorno a noi, del cui ordine e senso siamo responsabili nella misura in cui ne siamo anche autori e concause. Con le nostre parole e le nostre azioni determiniamo infatti il tipo di rapporti – veri o falsi, puri o impuri- che costituisce il nostro mondo affettivo.
Per questo l’apostolo Paolo ha scritto che “tutto è puro per quelli che sono puri; ma per i contaminati e gli increduli niente è puro; anzi, sia la loro mente sia la loro coscienza sono impure.” (Tito 1:15). Molto tempo prima anche Salomone aveva insegnato “Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa, poiché da esso provengono le sorgenti della vita.” (Proverbi, 4:23).
Possiamo amare e agire secondo il vero amore di Dio se il nostro cuore e la nostra coscienza sono puri, e questo dipende dalla fede con cui viviamo il nostro presente. Al giovane Timoteo Paolo spiegava l’importanza del servizio che gli stava affidando, dicendogli che “lo scopo di questo incarico è l’amore che viene da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera” (1Timoteo, 1:5).
Nelle loro lettere gli apostoli hanno insistito molto sull’importanza di mantenere pulita la propria coscienza, stando molto attenti a non trasgredire volontariamente i comandamenti di Dio, cioè a non andare coscientemente contro la sua volontà. Per esempio, ribellandosi alle autorità costituite, anche quando queste non sono favorevoli alla chiesa. Paolo dichiara che ogni autorità viene da Dio, “perciò è necessario stare sottomessi, non soltanto per timore della punizione, ma anche per motivo di coscienza.” (Rom 13:5). “Perché – aggiunge Pietro – è una grazia se qualcuno sopporta, per motivo di coscienza dinanzi a Dio, sofferenze che si subiscono ingiustamente.” (1Pietro, 2:19).
Dati i tempi che correvano, queste di Pietro e di Paolo non erano certo parole facili da pronunciare e da accettare. Ma credere a Dio significa anche affidargli la propria vita facendo il bene nonostante si riceva in cambio del male (1Pietro, 4:19). Paolo dava tanta importanza alla propria buona coscienza e a quella dei suoi fratelli e conservi che non si è trattenuto dal riprendere l’apostolo Pietro quando ha notato che stava comportandosi in modo incoerente e opportunista (Galati, 2:11-15).
Perché è con le nostre azioni, cioè con le cose che facciamo sapendo cosa stiamo facendo, che esprimiamo (in parole e in fatti) il rinnovamento del nostro cuore e la nostra fede in Dio. Se davvero crediamo che c’è un Dio vivente che ha dato il suo figlio prediletto per la nostra salvezza e che giudicherà grandi e piccoli per i motivi delle loro azioni, ci dobbiamo comportare in un modo diverso da come ci comporteremmo se non credessimo che ci sia un giusto giudice e non pensassimo di avere un debito d’amore con lui. In questo senso, se non ha opere, la fede è morta (Giacomo, 2:17 e 26). Perché, se la mia fede non è capace di cambiare il mio modo di agire, vuol dire che quello che credo sono davvero soltanto parole. Le azioni che compio perché credo in Dio sono quelle che dimostrano (a me stesso, agli altri e anche a Dio) la verità della mia fede e del mio rapporto con Dio. Non si tratta di azioni rituali, o di cerimonie esteriori, ma del nostro modo di vita, della nostra pazienza, della nostra disponibilità e generosità, dell’abnegazione, della prontezza a servire. “Infatti, in Cristo Gesù non ha valore né la circoncisione né l’incirconcisione; quello che vale è la fede che opera per mezzo dell’amore.” (Galati 5:6).
Paolo scrive al giovane Timoteo, raccomandandogli di continuare combattere il buon combattimento, “conservando la fede e una buona coscienza; alla quale alcuni hanno rinunciato, e così, hanno fatto naufragio quanto alla fede.” (1Timoteo 1:18b-19).
Le opere della fede sono i nostri nuovi abiti, di cui abbiamo bisogno di essere ricoperti davanti a Dio (Apocalisse, 19:8). Non sono opere fatte nel nostro nome o perché si conservi memoria di noi. Sono fatte da Dio e per la gloria di Gesù, dimostrando l’amore, la gioia, la pazienza e la bontà che sono di Dio. Non sono le opere edilizie, artistiche o scientifiche che gli uomini possono ammirare e riverire, ma il frutto di silenziose e sofferte scelte di fedeltà che spesso solo Dio conosce. Ci danno una nuova identità, nell’unico nome in cui è dato agli uomini di essere salvati (Atti, 4:12), e che è il nome stesso della salvezza (Yeshua’ יְשׁוּעַ significa “Colui che è salva”).
Nell’ultima delle parabole del regno di Dio raccolte nel vangelo di Matteo, in cui Gesù descrive il suo ritorno in gloria e il giudizio di tutta la gente di tutte le nazioni in base alle opere di ciascuno a pro dei suoi minimi discepoli, quelli che saranno accolti e benedetti non ricorderanno di avere fatto nulla per il regno, né quelli che saranno respinti si ricorderanno di non aver fatto qualcosa (Matteo, 25:31-46). Questa è la salvezza di Dio, che ha purificato “la nostra coscienza dalle opere morte” (Ebrei, 9:14), perché potessimo conoscerlo e adorarlo “in spirito e verità” (Giovanni, 4:24).
“Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti; infatti siamo opera sua, essendo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone, che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo.” (Efesini 2:8-10).
[…] soprattutto, Paolo), questa capacità mentale di orientarsi tra le varie esperienze viene chiamato coscienza (il termine greco syneidesis συνείδησις – come il latino conscientia, da cui deriva […]
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[…] che corrisponde a una condivisione non solo fisica, ma anche e soprattutto di conoscenza: una nuova coscienza, una nuova persona. E questo peccato è innanzitutto un peccato contro Dio e contro il suo piano […]
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