Anche se viviamo nel presente, viviamo non tanto delle cose che sono successe e succedono ora, ma soprattutto delle cose che possiamo aspettarci che succedano in un futuro più o meno prossimo: è dal tipo di cose che ci aspettiamo che dipende la qualità della nostra vita. Quando, per una ragione o per l’altra, non ci importa più di quello che potrà succedere nel futuro, poco a poco ci lasciamo morire.
Così, oltre che di risolvere i problemi presenti, spesso ci preoccupiamo per quelli futuri. Anzi, per lo più, i nostri problemi presenti consistono proprio nella ricerca più o meno affannosa di strumenti (tipicamente, soldi o conoscenze) per risolvere i problemi che non si sono ancora presentati, ma che pensiamo potrebbero farlo.
Come cambia tutto questo quando crediamo a Gesù?
Finché c’è speranza, c’è vita
Molti sperano di vincere alla lotteria, o, più operativamente, di incontrare qualcuno che, finalmente, creda nei loro progetti, e li finanzi, cosa che è peraltro successa a più di una persona. Alcuni hanno anche vinto alla lotteria, o hanno ricevuto qualche importante lascito. Molto pochi però sono quelli che hanno realmente beneficiato dei vantaggi acquisiti grazie a questi “fortunati” eventi. Spesso, cose che apparivano come un bene si sono rivelate poi come una fonte di guai, se non altro di tensione e scontento. Del resto, per restare delusi, non occorre aver mirato così in alto.
Abbiamo imparato che la delusione è la necessaria conseguenza delle illusioni, di cui più o meno volontariamente nutriamo la nostra anima. Sappiamo anche già che qualsiasi traguardo, una volta raggiunto, non fa che spostare in avanti la meta a cui aspiriamo, sia perché abbiamo sempre bisogno di guardare avanti, sia perché non riusciamo a essere soddisfatti di quello che abbiamo ottenuto. Eppure, non riusciamo a smettere di illuderci nella speranza che le cose cambieranno radicalmente quando avremo raggiunto i nostri obbiettivi.
A lungo andare, però, l’entusiasmo viene solitamente meno. Salomone scriveva che “la speranza rimandata [letteralmente “trascinata”] fa ammalare il cuore”, aggiungendo subito dopo che “il desiderio realizzato è un albero di vita” (Proverbi, 13:12). La differenza tra un cuore malato e una vita abbondante sta quindi, secondo le Scritture, tra fantasticare cose che non si realizzeranno mai davvero (perché non durano, e quindi appena le avremo avute saranno già perse) e desiderare invece le cose che si realizzeranno di sicuro.
Il Signore ha detto ai suoi di cercare innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia (Matteo, 6:33). Se ci ha detto lui di cercare qualcosa, possiamo essere certi che questa ricerca andrà a buon fine, perché lui stesso ci ha assicurato che “chi cerca trova” (Matteo, 7:8). Esiste quindi un desiderio che è come un albero di vita perché verrà senz’altro realizzato: il regno di Dio viene di sicuro perché il governo appartiene a Dio per definizione, e per questo la giustizia secondo Dio viene certamente rimunerata, già in questa vita (Matteo, 19:29). Vedremo meglio come.
Ma cosa sono il regno e la giustizia di Dio? Gesù ha detto che la giustizia di Dio sta nel cercare Dio per la sua gloria e non per la gloria che ce ne può venire (Giovanni 7:18). Questa è la giustizia che viene dalla fede, cioè dalla fedeltà del nostro cuore. Ora, per avere questa giustizia dobbiamo certamente compiere uno sforzo quotidiano (Luca, 19:23), perché nessuno la possiede per nascita naturale. Una prima risposta alla nostra domanda sulla natura del regno di Dio e della sua giustizia è quindi che la giustizia di Dio è quella che viene dallo sforzo di essere fedeli a lui, cioè dal desiderio di glorificare il Signore e non noi stessi. Queste cose che dobbiamo cercare (cioè che possiamo sperare di trovare) stanno quindi innanzitutto nel nostro cuore: dentro di noi e nei rapporti che stabiliamo con gli altri. Infatti Gesù ha esplicitamente detto: “il regno di Dio è dentro di voi” (Luca 17:21, dove dentro di voi, nell’originale è entòs hymòn ἐντός ὑμῶν , che significa sia “dentro di voi” che “tra di voi”).
Per questo, nello stesso libro dei Proverbi, è scritto: “Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa, poiché da esso provengono le sorgenti della vita” (Proverbi, 4:23). La parola cuore, nella lingua della Bibbia, significa i pensieri e i desideri che si formano dentro di noi, e che possono essere orientati alle cose che durano o a quelle che passano. Ci torniamo dopo.
Ansia e preoccupazioni
Quando speriamo che avvenga qualcosa, diventiamo facilmente anche preoccupati della possibilità che non avvenga e avvengano invece altre cose che non vorremmo avvenissero. Più ci facciamo degli scenari a partire dalle situazioni che conosciamo, più ansiosi diventiamo per il nostro futuro, che finiamo per immaginare pieno di problemi.
Gesù ci ha detto di non fare così: “Non siate dunque in ansia, dicendo: Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?” (Matteo, 6:31). Ma a noi, spesso, queste sembrano solo belle parole. Dovremmo invece credere che, se Dio ci ha detto di non preoccuparci di quello che ci avverrà, non ci potrà dire di avere sbagliato a non preoccuparci abbastanza. Se pensiamo alla possibilità di questo rimprovero futuro, è perché temiamo il nostro stesso giudizio, o quello degli altri uomini, piuttosto che quello di Dio. Anche su questo torneremo tra poco.
La parola di Dio insiste invece sul fatto che dobbiamo liberarci dell’ansia, come di una condizione tipica dell’uomo naturale, l’uomo cioè che si lascia guidare dalla sua anima e che perciò non conosce le cose di Dio (Paolo dice che “l’uomo naturale [psychikòs, ψυχικός] non riceve le cose dello Spirito di Dio, perché esse sono pazzia per lui; e non le può conoscere, perché devono essere giudicate spiritualmente”, 1Corinzi 2:14). E ci esorta a guardare a Dio e non alle cose materiali, perché la sorgente del nostro bene futuro non sono i beni che pensiamo di aver accumulato noi, ma è Dio, che ci ha provveduto ogni cosa e che continuerà a provvedere tutto quello che ci serve per il nostro e per l’altrui bene: “Non angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio in preghiere e suppliche, accompagnate da ringraziamenti” (Filippesi, 4:6).
L’ansia procede dalla mancanza di fede, cioè di fiducia e fedeltà (questo è il senso dei termini originali, rispettivamente greco ed ebraico, pìstis ed ‘emunah). Dall’assenza o dal difetto di un rapporto personale con il nostro Dio: Colui che non possiamo vedere, ma che, per fede, sappiamo essere il creatore e il Signore di ogni cosa (compresi noi stessi, con tutte le nostre cellule e quello che sanno fare). “Per fede comprendiamo che i mondi sono stati formati dalla parola di Dio; così le cose che si vedono non sono state tratte da cose apparenti.” (Ebrei, 11:3). Per fede sappiamo che Dio ha creato ogni cosa e che regna per mezzo della sua parola. Conoscendolo ed essendogli fedeli, possiamo perciò essere certi che non verrà mai meno alle sue promesse e che provvederà per noi come ha sempre provveduto per tutti.
Materialismo e malinconia
Se invece pensiamo che le cose derivino direttamente e solamente da altre cose, senza bisogno di Dio, finiremo facilmente per credere che quello che siamo e quello che abbiamo dipenda soltanto da noi, o al massimo dai nostri genitori e dai nostri amici. Non avremo perciò tempo di cercare Dio. Nel mondo, così, potremo forse anche avere successo, e varie soddisfazioni. Ma quando, dopo esserci affaticati per ottenere qualcosa, ci renderemo conto di non essere affatto soddisfatti, e che niente ci potrà mai dare una vera gioia, allora sopravverrà una profonda tristezza, un abbattimento dello spirito che ci porterà a sentire un vuoto interiore e a “vedere tutto nero”. Gli antichi attribuivano questa patologia dell’umore a un travaso di bile nera e la chiamavano perciò melancholia (da due parole che in greco significano rispettivamente “nero” e “bile”).
Salomone si domandava: “lo spirito abbattuto chi lo solleverà?” (Proverbi 18:14b). Aveva appena osservato che è “lo spirito dell’uomo quello che lo sostiene quando è infermo” (Proverbi 18:14a); e poco prima aveva scritto anche che “uno spirito abbattuto fiacca le ossa” (Proverbi, 17:22). L’abbattimento caratteristico della malinconia è infatti accompagnato da una convinzione che condiziona tutto lo spirito della persona, perché la tristezza è proiettata al futuro. Anche oggi la malinconia è una condizione da cui non è facile uscire, perché trova radice nella ragione stessa che diamo alla nostra vita. Quando viviamo per le cose che passano, per forza, prima o poi, quando ci rendiamo conto di aver inseguito cose che non potevano darci quello di cui avevamo veramente bisogno, finiremo per domandarci, assieme all’Ecclesiaste, che senso abbia “cercare di afferare il vento”…
La malinconia è fatta anche della nostalgia per l’entusiamo che non possiamo più avere, quando vediamo che le cose che avevamo tanto desiderato (e sperare di ottenere le quali ci aveva dato tanta energia) non erano in realtà così belle o così importanti e risolutive come ce le eravamo immaginate. Per questo, a quelli che lo cercavano solo perché avevano mangiato i pani e i pesci della moltiplicazione, Gesù ha detto: “adoperatevi non per il cibo che perisce, ma per il cibo che dura in vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà, poiché su di lui il Padre, cioè Dio, ha apposto il proprio sigillo.” (Giovanni, 6:27).
Il “cibo che perisce” per il quale – chi con più, chi con meno lena – lavoriamo tutti, quando lavoriamo con i nostri strumenti e per i nostri scopi, è un cibo che dura solo per un tempo. Chi è meno lungimirante vive per i piaceri che durano lo spazio di un pasto (o di una notte), chi lo è di più, studia e lavora per crescere come persona e/o professionalmente, e circondarsi così di persone e/o di professionisti di una certa qualità, con cui portare a termine imprese di una certa importanza. Tutti quanti, però, fino a quando non stiamo agendo per l’amore di Dio che dura in eterno, vedremo prima o poi perire il “cibo” per cui ci siamo adoperati. E questo anche se avremo creduto di servire Dio, perché abbiamo usato i doni che procedono dalla sua grazia (cfr. Matteo 7:22 e 1Corinzi 13:1-3).
Fede e speranza
L’energia per compiere un’opera viene dall’attesa di ciò che speriamo possa seguire il suo compimento. Scrive sempre Salomone: “La fame del lavoratore lavora per lui, perché la sua bocca lo stimola” (Proverbi, 16:26). Infatti è il desiderio, anzi il bisogno che una cosa avvenga presto, ciò che ci dà la forza di adoperarci con le nostre azioni e con le nostre parole (rivolte agli uomini e soprattutto a Dio in preghiera, se crediamo in lui) perché quella data cosa si produca nella nostra realtà. Questo desiderio, che chiamiamo anche speranza, è quindi fondamentale per ogni tipo di azione, ed è ciò che ne definisce il senso.
Nella breve lista delle cose più importanti (e che non passeranno mai), che Paolo elenca dopo aver menzionato alcuni doni che passeranno (come le profezie, le lingue e la conoscenza), la speranza viene subito dopo la fede, e immediatamente prima dell’amore: “queste tre cose durano: fede, speranza, amore” (1Corinzi, 13:8-13). Altrove, la parola di Dio ci mostra che queste tre cose sono strettamente collegate. Abbiamo infatti visto che, per operare, occorre avere uno scopo, cioè una speranza. Una fede senza speranza non riesce ad operare e non è perciò viva (perché la fede, come dice Giacomo “se non ha opere, è per se stessa morta”, Giacomo, 2:17). Ed è scritto che la fede opera attraverso l’amore (Galati, 5:6).
Anche la definizione con cui inizia il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei collega direttamente la fede alla speranza. L’autore scrive infatti che “la fede è sostanza di cose che si sperano” (Ebrei, 11:1a). Il termine per “sostanza” nel testo originale è hypòstasis (ὑπόστασις), letteralmente significa “ciò che sta sotto, ciò che che sostiene, sostanza”. Nella stessa Lettera (3:14), il termine è usato per significare “certezza, sicurezza, fondamento”. La fede è quindi strettamente correlata alle promesse di cui si fida. Dal presente guarda avanti, verso il futuro, a cui in qualche modo si appende.
In ebraico, una delle principali parole per “speranza” è thiqvah (תִּקְוָה). La stessa parola che in altri contesti – per esempio in Giosuè 2:18 e 21 – traduciamo con “cordicella” (in quel passo è il filo di colore rosso che Rahab doveva appendere alla finestra della sua casa per evitarne la distruzione). La radice è quella del verbo che significa “raccogliere, tenere assieme” (qavah, קָוָה) usato la prima volta (in Genesi, 1:9) per descrivere l’azione delle acque di sotto quando si separano dalla terra e si raccolgono per formare i mari. Dà comunque il senso di una tensione, di qualcosa che viene tirato. Per questo, probabilmente, l’autore della Lettera agli Ebrei parla della speranza in Cristo come di “un’ancora dell’anima, sicura e ferma” fissata per noi nel luogo più inaccessibile della santità di Dio (Ebrei, 6:19-20). La salvezza conquistata per noi da Gesù è una realtà che non abbiamo ancora mai posseduto, se non per fede e appunto in speranza.
Paolo afferma anche che: “se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i più miseri fra tutti gli uomini” (1Corinzi, 15:19). La nostra speranza in Cristo deve essere soprattutto in una realtà che nessuno ha ancora mai conosciuto. “Le cose che occhio non ha visto e che orecchio non ha udito e che non sono salite in cuor d’uomo, sono quelle che Dio ha preparato per quelli che lo amano.” (1Corinzi, 2:9).
Speranza e purezza di cuore
Parlando della buona e della cattiva coscienza abbiamo citato il verso in cui Paolo, scrivendo a Timoteo, indica quali siano le sorgenti del vero amore che procede dall’opera di Dio e può sostenerla, e abbiamo visto come la fede e la buona coscienza siano indispensabili per quest’opera: “lo scopo di questo incarico è l’amore che viene da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera” (1Timoteo, 1:5). Se, come abbiamo considerato, il passato è l’oggetto dalla coscienza e la fede è il nostro organo spirituale per percepire il presente, consideriamo ora come le nostre attese e le nostre intenzioni, cioè il nostro futuro (almeno ciò che ne possiamo immaginare noi) abbiano a che fare con la purezza del cuore.
Sarebbe anzi meglio dire che la purezza del cuore ha a che fare con il fatto di non immaginarci il futuro. Che non viviamo cioè in vista di cose che ci possiamo immaginare perché le abbiamo già viste nel nostro passato, o nella vita di altri. Ma che guardiamo piuttosto a ciò che non si può vedere, perché solo quello che non si può vedere è veramente futuro, cioè veramente eterno. Come dice anche Paolo, quando esorta ad avere “lo sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono; poiché le cose che si vedono sono per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne.” (2Corinzi 4:18).
Sia della fede che della speranza è infatti scritto che non vedono il loro oggetto. Nella seconda parte del primo verso del capitolo 11 della Lettera agli Ebrei la fede è ulteriormente definita come “…prova di cose che non si vedono” (Ebrei 11:1b) e anche Paolo nella Lettera ai Romani scrive che “…la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora?” (Romani, 8:24b). La differenza tra fede e speranza consiste nel fatto che, mentre la fede sa che ciò (o, meglio, colui) in cui crede, per quanto invisibile, è presente ed efficace, la speranza si riferisce a qualcosa (o a qualcuno) che ancora non c’è: non solo perché è invisibile agli occhi del fedele, ma perché deve ancora arrivare, cioè non è pienamente presente, ma lo sarà in futuro.
“[L’amore] non cerca il proprio interesse” (1Corinzi, 13:5). Chi ha un cuore puro non cerca il proprio interesse, non cerca di accumulare potere. Il potere, come il denaro, è fondamentalmente quantitativo, difatti si può misurare e si misura nel confronto (o nel conflitto). L’avidità (in greco, pleonexìa πλεονεξία, cioè, letteralmente “avere di più”) è la forma generale di ogni impurità, perché si basa sull’indifferenza rispetto al bisogno dell’altro e sul desiderio di controllarne il destino o di usarlo come si fa con uno strumento inanimato. Avere un cuore puro significa avere invece pensieri puri, che possono essere manifestati senza vergogna, perché non sono in vista del proprio potere sugli altri, ma per il bene di tutti.
Prima di mangiare del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, l’uomo e la donna erano nudi e non se ne vergognavano (Genesi, 2:25), perché la nudità, come accade normalmente per i bambini, non richiamava il pensiero del piacere sessuale e di una prevedibile serie di mosse compiute per soddisfarlo.
Allegri nella speranza
Se la tristezza viene dal vedere che i nostri sogni non si sono realizzati come avremmo voluto e dal pensiero che quindi il futuro non ci può riservare niente di veramente buono, l’allegria nasce invece dalla certezza che spunterà la luce. E che, se viviamo “saggiamente, giustamente e piamente nella nostra epoca”, come ci insegna la grazia di Dio, possiamo avere e accogliere rispettivamente “la beata speranza e l’apparizione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo” (Tito, 2: 11-1).
Paolo ha scritto che il regno di Dio consiste in “giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Romani, 14:17), perché consiste nell’affidare al SIGNORE il nostro cuore, cioè i nostri desideri e i nostri pensieri, in modo che li orienti lui secondo la sua eterna e buona volontà (Proverbi, 21:1). “Il cuore del re, nella mano del SIGNORE, è come un corso d’acqua; egli lo dirige dovunque gli piace.” (Proverbi, 21:1). Questo è il re secondo il cuore di Dio, il figlio in cui Dio si è compiaciuto. E se Dio si rallegra di noi come un padre che si rallegra di un figlio saggio (Proverbi, 10:1), certamente anche noi saremo pieni di gioia!
Su questa base, lo Spirito Santo ci esorta a essere non solo “pazienti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera”, ma anche e innanzitutto “allegri nella speranza” (Romani 12:12). Del resto, non possiamo esserlo da soli, ma soltanto grazie alla comunione con lui, cioè grazie al rapporto personale con Dio, che è Spirito (Giovanni, 4:24).
Dall’Essere all’Io sono
L’autore della Lettera agli Ebrei ha scritto che senza fede è impossibile piacere a Dio, “perché chi si accosta a Dio deve credere che egli è, e che egli è il rimuneratore di quelli che lo cercano.” (Ebrei, 11:6). Ma cosa significa credere che Dio è?
I filosofi dell’antichità si sono posti il problema di definire la proprietà più generale di tutte le cose e, per quel che ne sappiamo, a cominciare da Parmenide (che visse vicino a Salerno nel V secolo a.C.), sono arrivati a parlare dell’Essere, concludendo che doveva trattarsi di una realtà più profonda e vera di quella degli enti che possiamo osservare con i nostri sensi, e che ora sono e domani non sono più.
Lungo i secoli della nostra civiltà, gli uomini (soprattutto i maschi) hanno riflettuto, scritto e discusso moltissimo sulla natura dell’Essere, intendendolo in tanti modi diversi (spesso anche come Essere supremo, o Dio), ma gli hanno per lo più attribuito una natura impersonale, considerandolo necessariamente al di là delle nostre vicissitudini e dei nostri sentimenti.
Lo studio dell’Essere, tecnicamente denominato ontologia, fin dai tempi di Aristotele è stato considerato parte della metafisica, cioè di ciò che non ha che fare con il mondo delle cose in cui ci muoviamo, ma con la sua trascendente totalità. Più recentemente, un filosofo tedesco del secolo scorso, Martin Heidegger ha riassunto l’essenza della metafisica con la domanda “perché l’Essere piuttosto che il nulla?”. Lo stesso filosofo ha individuato la radice di ogni inautenticità nel dimenticare la differenza tra l’Essere e gli enti.
Anche la parola di Dio ci mette in guardia contro la confusione tra il Dio creatore e noi sue creature. “Infatti i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie, dice il SIGNORE” (Isaia, 55:8). Ma la sua posizione non è affatto metafisica. Dio non è un’idea astratta, né il motore immobile o il pensiero del pensiero come lo vedeva Aristotele, né la Coincidenza degli opposti, o la Sostanza, o l’Assoluto, come lo lo hanno chiamato filosofi più poeticamente orientati. Nella Bibbia, la differenza tra l’Essere-unico-e-immutabile e gli enti soggetti a continuo mutamento non significa che Dio non sia una persona.
Molti secoli prima che Parmenide si interrogasse sul rapporto tra apparenza e realtà, il misterioso Essere dei filosofi si era infatti già presentato ai patriarchi del popolo di Israele e l’aveva fatto in modo del tutto personale, come una voce che lo chiamava per nome e gli diceva di conoscere le afflizioni del suo popolo e gli ordinava di andare a liberare Israele dal dominio del faraone in Egitto. Sappiamo che non si trattava di una persona come le altre o di un dio come gli altri dèi, perché, quando a questa voce che gli parlava dal pruno ardente, Mosè ha chiesto di rivelargli il suo nome, “Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono. Poi disse: Dirai così ai figli d’Israele: l’IO SONO mi ha mandato da voi. Dio disse ancora a Mosè: Dirai così ai figli d’Israele: Il SIGNORE (YHWH), il Dio dei vostri padri, il Dio d’Abraamo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe mi ha mandato da voi. Tale è il mio nome in eterno; così sarò invocato di generazione in generazione.” (Esodo 3:14-15).
I figli di Israele, anzi già i patriarchi, conoscevano il SIGNORE (YHWH), cioè usavano il suo santo Nome, al quale facevano anche altari e sacrifici. Ma di questo nome non conoscevano il senso. Io sono colui che sono (‘ehyeh asher ‘ehyeh אֶֽהְיֶה אֲשֶׁר אֶֽהְיֶה) è il senso del tetragramma YHWH (che contiene la radice nel verbo essere, ma in una terza persona in una forma verbale che non si usa nel linguaggio quotidiano), come è stato rivelato a Mosè per primo (Esodo, 6:2). E l’originale del sintagma ‘ehyeh asher ‘ehyeh con cui il SIGNORE (YHWH) si presenta a Mosè significa anche “io ero colui che sarò” o “io sarò quello che ero” (‘ehyeh è la prima persona del futuro del verbo essere, e il futuro in ebraico è usato anche come imperfetto). Cioè: io sono proprio io, non cambierò mai.
Eppure questo Dio ha un volto, un volto che Mosè desiderò sempre contemplare. In Esodo, 33:15 è infatti scritto “Se la tua presenza non viene con me, non farci partire di qui”, dove la parola italiana presenza traduce un termine che in ebraico si usa normalmente per “volto”: paniym פָּנִים). E non solo Mosè, ma tutti gli uomini di Dio. E come ha scritto Davide, non per curiosità ma per lo stesso amore di Dio: “Il mio cuore mi dice da parte tua: Cercate il mio volto!Io cerco il tuo volto, o SIGNORE (eth paneikhah YHWH ‘evaqesh אֶת־פָּנֶיךָ יְהוָה אֲבַקֵּֽשׁ)” (Salmi 27:8).
Certamente, Il SIGNORE non è una creatura. Pensare questo significherebbe rendere una creatura Dio, cioè peccare di idolatria, il più grave dei peccati e l’origine di tutti gli altri. Non solo nell’Antico Testamento. Per citare solo un passo tra tanti, Paolo annuncia l’ira di Dio per coloro che hanno servito la creatura anziché il Creatore (Romani, 1:18-25). Ma la differenza tra noi e Dio è quella che passa tra il finito e l’infinito, non tra la un’esistenza personale e un Essere impersonale. Al contrario della letteratura filosofica, la Bibbia ci presenta un Dio personale, anzi infinitamente più personale di noi: se quello che ci rende persone è l’unità e la continuità delle nostre esperienze, cioè non solo l’unicità del punto di vista da cui le viviamo ma anche la sua permanenza, il SIGNORE, che si è fatto conoscere come colui che rimane sempre lo stesso, è l’origine stessa di questa unità.
E infatti l’essere uno di Dio è ciò che Gesù (e anche alcune scuole farisaiche) ha indicato come il fondamento dell’insegnamento di Dio, cioè il primo comandamento, dal quale discendono tutti gli altri: “Ascolta, Israele: Il Signore, nostro Dio, è l’unico Signore [in realtà, il greco del Nuovo Testamento, come l’ebraico di Deuteronomio 6:4, usa il numerale “uno”]: Ama dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la mente tua, e con tutta la forza tua” (Marco, 12:29-30).
Per questa unicità e questa unità che caratterizzano innanzitutto e primariamente il SIGNORE (la parola ekhad che significa “uno” ha la stessa radice di parole che significano “insieme”), noi lo possiamo, anzi lo dobbiamo amare con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima, mettendo da parte nostra tutto il nstro impegno. In lui e solo in lui ogni cosa è collegata in un tutto, attraverso la sua parola per mezzo della quale sono state fatte tutte le cose (Giovanni, 1:1-3).
Così, se siamo persone capaci di conoscere e di amare è perché siamo stati dotati dell’unità di Dio, quando Dio ci ha fatti a sua immagine, maschio e femmina (Genesi, 1:27). Ciò che ci rende umani, attraverso la parola, è infatti proprio la capacità di unificare mantenendo le differenze, di conoscere e di distinguere, e di fare in qualche modo nostro il nostro prossimo (per esempio ospitandolo, o considerando nostri i suoi problemi), rispettando allo stesso tempo la sua libertà e la sua differenza, la sua individualità, la sua coscienza, cioè la sua unità e la sua unicità.
Amare significa volere diventare uno con l’oggetto del nostro amore, senza però costringerlo, o “fagocitarlo”. Così è formata la casa di Dio. “Non per potenza, né per forza, ma per lo Spirito mio, dice il SIGNORE degli eserciti.” (Zaccaria, 4:6). E proprio per rispettare la nostra individualità, il SIGNORE, cioè l’Io sono, ci lascia liberi di scegliere tra amarlo in spirito e verità o soltanto in apparenza, per il nostro tornaconto: la libertà di scegliere tra la vita (l’integrità, e la vera comunione con lui e con il nostro prossimo) e la morte (l’ipocrisia e l’impurità che ci separano da Dio e dagli altri uomini).
La parola profetica
Israele, e anche noi, abbiamo spesso scelto la morte anziché la vita, e per questa ragione, noi, come Israele, abbiamo tutti sofferto qualche forma di cattività. Gesù ha detto che chi pecca diventa schiavo del peccato (Giovanni 8:34), e questo ci è successo a tutti quanti. Ma, perché il suo popolo in cattività non disperasse del tutto e al contrario si rincuorasse e fortificasse nella fede, il Signore ha detto a Israele, e dice oggi anche a noi che gli vogliamo essere fedeli: “… io so i pensieri che medito per voi, dice il SIGNORE (YHWH): pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza.” (Geremia, 29:11).
Anche il profeta Isaia consola e incoraggia il popolo di Israele ricordando che la forza e il coraggio vengono da Colui che può dire Io sono: “Non lo sai tu? Non l’hai mai udito? Il SIGNORE (YHWH) è Dio eterno, il creatore degli estremi confini della terra; egli non si affatica e non si stanca; la sua intelligenza è imperscrutabile. Egli dà forza allo stanco e accresce il vigore a colui che è spossato. I giovani si affaticano e si stancano; i più forti vacillano e cadono ma quelli che sperano nel SIGNORE acquistano nuove forze, si alzano a volo come aquile, corrono e non si stancano, camminano e non si affaticano.” (Isaia, 40:28).
Isaia stava consolando i giudei con più di un secolo di anticipo. Parlava infatti a coloro che erano stati deportati a Babilonia, cosa che sarebbe avvenuta dopo la sua morte. E più avanti infatti scrive, parlando da parte di Dio: “Io, io sono il SIGNORE, e fuori di me non c’è salvatore. Io ho annunziato, salvato, predetto, e non un dio straniero in mezzo a voi; voi me ne siete testimoni, dice il SIGNORE; io sono Dio. Da che fu il giorno, io sono; nessuno può liberare dalla mia mano; io opererò; chi potrà impedire la mia opera?” (Isaia, 43:11-13).
Isaia presenta a più riprese l’annuncio delle cose future come la prerogativa del SIGNORE, e la ragione per il suo popolo di non temere nessun altro dio e nessun’altra nazione: “Così parla il SIGNORE, re d’Israele e suo redentore, il SIGNORE degli eserciti: Io sono il primo e sono l’ultimo, e fuori di me non c’è Dio. Chi, come me, proclama l’avvenire fin da quando fondai questo popolo antico? Che egli lo dichiari e me lo provi! Lo annuncino essi l’avvenire, e quanto avverrà! Non vi spaventate, non temete! Non te l’ho io annunciato e dichiarato da tempo? Voi me ne siete testimoni. C’è forse un Dio fuori di me? Non c’è altra Rocca; io non ne conosco nessuna.” (Isaia, 44:6-8).
La nuova mente che abbiamo in Cristo (1Corinzi, 2:16) riceve forza direttamente da Dio, per fede nella sua parola. Perché il SIGNORE ci parla dall’eternità facendoci sapere sia le cose che sono successe, sia quelle che succederanno. E la parola stessa ci spiega che le cose che sono successe sono successe anche per insegnarci la via da percorrere in futuro. Come ha scritto anche Paolo riguardo alla storia di Israele nel deserto, dicendo che quelle cose “avvennero loro per servire da esempio e sono state scritte per ammonire noi, che ci troviamo nella fase conclusiva delle epoche.” (1Corinzi 10:11).
Anche Pietro invita a guardare alle Scritture che registrano eventi passati per annunciare la realtà futura come a un riferimento sicuro per la nostra mente e la nostra attesa delle cose future “abbiamo inoltre la parola profetica più salda: farete bene a prestarle attenzione, come a una lampada splendente in luogo oscuro, fino a quando spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vostri cuori. Sappiate prima di tutto questo: che nessuna profezia della Scrittura proviene da un’interpretazione personale; infatti nessuna profezia venne mai dalla volontà dell’uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo.” (2Pietro 1:19-21).
Atto profetico per eccellenza è l’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli, celebrata come seder pasquale in memoria della liberazione del popolo di Israele dalle mani del Faraone in Egitto, ma anche come annuncio del regno del Padre (Matteo, 26:29). Un atto profetico che siamo stati invitati a rinnovare celebrando la cena del Signore come discepoli dei suoi discepoli fino al giorno d’oggi, e annunciando contemporaneamente la sua morte per noi nel passato e il suo futuro ritorno (1Corinzi, 11:27).
Come la matematica, la parola di Dio non è un’opinione. Le cose che dice sono avvenute in passato e avverranno sempre, perché il senso delle parole che raccontano gli eventi passati non si esaurisce nel passato ma ci informa sulla verità, cioè su ciò che sarà sempre vero anche se sempre in nuove forme. Così, per esempio (ma non è solo un esempio), Gesù ci dice di ricordarci della moglie di Lot (Luca, 17:32) come di un segno eterno per non guardare mai indietro con nostalgia, né oggi né domani. Perché “nessuno che abbia messo la mano all’aratro e poi volga lo sguardo indietro, è adatto per il regno di Dio.” (Luca, 9:6).
La speranza viva che riceviamo in Cristo non deve essere in vista della restaurazione di qualcosa che possiamo ricordare o che può esserci raccontato da qualche altro uomo. La realtà di Dio è sempre diversa da quella che conosciamo, perché di fatto noi non conosciamo la realtà. “Il giorno del Signore verrà come un ladro: in quel giorno i cieli passeranno stridendo, gli elementi infiammati si dissolveranno, la terra e le opere che sono in essa saranno bruciate. Poiché dunque tutte queste cose devono dissolversi, quali non dovete essere voi, per santità di condotta e per pietà, mentre attendete e affrettate la venuta del giorno di Dio, in cui i cieli infocati si dissolveranno e gli elementi infiammati si scioglieranno! Ma, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia.” (2Pietro, 3:10-13).
Anche Paolo, scrivendo ai Filippesi, dice di non considerare importante nessuna delle cose passate, anche di quelle di cui avrebbe potuto vantarsi, ma di sforzarsi sempre per potersi presentare a Dio non con una giustizia sua, derivante dalle opere compiute in obbedienza alla legge, “ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte, per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti. Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato; ma una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la meta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù.” (Filippesi, 3:9-14).
La buona notizia del giudizio di Dio
Abbbiamo ricordato all’inizio che noi uomini conosciamo direttamente solo ciò che è presente, e che diventa subito passato, ma che del passato e del presente ce ne facciamo poco o nulla, se non ci servono per immaginare il futuro. Che la nostra vita è costituzionalmente fatta di attese, e che ci consideriamo felici solo quando ci possiamo aspettare qualcosa di buono dal futuro, meglio prossimo che remoto. Un viaggio, una vacanza, una promozione, un nuovo lavoro… Abbiamo visto che però queste cose che sappiamo bene non essere eterne, man mano che passano gli anni riescono a darci una motivazione sempre meno reale. Ne segue che abbiamo bisogno di una motivazione più profonda, e abbiamo visto che nel piano di Dio questa motivazione è il nostro stesso rapporto con lui, il nostro desiderio della vera eternità che si può conoscere solo nella giustizia e nella pace che si ricevono in lui. Gesù è stato mandato dal Padre perché noi potessimo avere vita, e vita in abbondanza (Giovanni, 10:10), cioè una vita diversa da quella che viviamo sotto il governo della morte e di tutte le scadenze che ne seguono.
Il verbo evangelizzare è la traslitterazione del greco euangelìzein (εὐαγγελίζειν) che significa “portare buone notizie”. Gesù è venuto a portare la buona notizia del regno di Dio (Matteo, 4:23) e ha mandato i suoi discepoli a predicare la stessa buona notizia in tutto il mondo, fino alla fine dei tempi (Matteo 24:14).
Ma perché, e soprattutto per chi il regno di Dio può essere una buona notizia? Paolo, scrivendo ai Romani, parla di un “giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo, secondo il mio vangelo.” (Romani 2:16). Questo giorno, non sembra un giorno di festa per tutti, eppure Paolo considerava questo il suo vangelo e lo annunciava con franchezza a tutti quanti. Conclude così anche il suo messaggio agli intellettuali sull’Areopago ad Atene: “Dio dunque, passando sopra i tempi dell’ignoranza, ora comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano, perché ha fissato un giorno, nel quale giudicherà il mondo con giustizia per mezzo dell’uomo ch’egli ha stabilito, e ne ha dato sicura prova a tutti, risuscitandolo dai morti.” (Atti, 17:30-31).
Che il mondo sarà giudicato è una buona notizia perché ci viene assicurato che il giudizio sarà un giudizio giusto, secondo il cuore di Dio. Certamente è una buona notizia per gli umili, non per gli arroganti. E per gli oppressi, non per gli oppressori. Soprattutto è una buona notizia per coloro che hanno fame e sete della giustizia vera che solo Dio può impartire.
Isaia aveva scritto del Cristo (in ebraico Mashìach מָשִׁיחַ) che “respirerà come profumo il timore del SIGNORE, non giudicherà dall’apparenza, non darà sentenze stando al sentito dire” (Isaia, 11:3). La buona notizia quindi è che saremo giudicati da Gesù che non è venuto per condannare la nostra debolezza ma per salvarci dai nostri peccati (Giovanni 12:47). Egli stesso ha detto ai farisei dalle cui mani aveva appena liberato l’adultera che gli avevano portato per vedere cosa avrebbe fatto con lei: “Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno. Anche se giudico, il mio giudizio è veritiero, perché non sono solo, ma sono io con il Padre che mi ha mandato.” (Giovanni 8:15-16).
Dio non giudicherà secondo un metro umano, né si farà impressionare dalle cose che impressionano noi. Guarderà ai motivi veri delle nostre azioni, peserà i pensieri del cuore. Anche, e innanzitutto, nel giudicare le opere che avremo svolto per lui nella sua chiesa. Il Signore vedrà se abbiamo edificato con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, o stoppia: “l’opera di ciascuno sarà manifestata, perché il giorno la paleserà; poiché sarà manifestata mediante il fuoco, e il fuoco proverà quale sia l’opera di ciascuno. Se l’opera che uno ha edificato sul fondamento [Cristo] resiste, egli ne riceverà una ricompensa, ma se la sua opera è arsa, egli ne subirà la perdita, nondimeno sarà salvato, ma come attraverso il fuoco.” (1Corinzi, 3:13-15).
Sia quando studiamo per qualche esame o ci alleniamo per qualche gara, sia quando ci preoccupiamo di fare bella figura in società e anche con i nostri stessi amici, ci stiamo impegnando con tutte le nostre forze perché il giudizio su di noi risulti positivo. Paolo dice che dovremmo fare lo stesso per prepararci a incontrare il Signore. “Non sapete voi che quelli che corrono nello stadio, corrono bensì tutti, ma uno solo ne conquista il premio? Correte in modo da conquistarlo. Ora, chiunque compete nelle gare si tempra in ogni cosa; e loro lo fanno per ricevere una corona corruttibile, ma noi dobbiamo farlo per riceverne una incorruttibile. ” (1Corinzi, 9:24-25).
Ma se il nostro impegno e il nostro sforzo sono rivolti alla verità, la nostra vita riceverà un vero senso e una vera utilità, per noi e per gli altri. E quel giorno sarà una grande festa, perché l’avremo grandemente atteso.
Quando ha visto che le cose in cui aveva sperato non si realizzavano come avrebbe voluto lui, Giuda Iscariota si deve essere profondamente amareggiato, fino al punto di decidere di tradire Gesù. Lo stesso può succedere anche a noi, quando vediamo che non otteniamo le cose che avremmo voluto che Dio ci facesse avere. Ma se invece abbiamo sperato in Cristo perché ci siamo resi conto che Gesù rimane sempre lo stesso (Ebrei, 13:8), che nessuno ha mai parlato come lui (Giovanni, 7:46) e che in lui il SIGNORE stesso ci ha rivelato la sua persona (Giovanni 14:9), perché potessimo sapere con certezza che Dio ci ama di un amore eterno e personale (Geremia, 31:3), allora non potremo mai rimanere delusi.
“Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore, mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l’accesso a questa grazia nella quale stiamo fermi; e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio; non solo, ma ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che l’afflizione produce pazienza, la pazienza esperienza, e l’esperienza speranza. Or la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato.” (Romani, 5:1-4).
Speranza e fatalismo
Aspettare il ritorno di Gesù non è come aspettare l’autobus, che il massimo che si può fare è accendersi una sigaretta. Abbiamo letto che Pietro nella sua seconda lettera, parlando del giorno del Signore, ha esortato i destinatari del suo messaggio non solo ad attendere quel momento, ma anche ad affrettarne la venuta (2Pietro, 3:12). Le scritture ci insegnano almeno un modo per farlo.
Infatti, all’inizio del discorso profetico che ha pronunciato sul Monte degli Ulivi, prima di celebrare l’ultima pasqua con i suoi discepoli Gesù, cominciando a parlare del suo ritorno, ha detto che il vangelo del regno sarà annunciato “in tutto il mondo in testimonianza a tutte le genti, e allora verrà la fine” (Matteo, 24:14). La venuta della fine di questo mondo e dell’inizio del nuovo è quindi subordinata a un’azione di vastissima portata geopolitica (in questa prospettiva si può leggere anche la storia dei vari imperi in cui si è trasformato l’Impero romano, con le loro vie di comunicazione e i loro colonialismi, la riforma protestante e l’invenzione della stampa, fino alla capillare diffusione dell’informazione attraverso i moderni mezzi di comunicazione di massa, Internet incluso), che può essere portata a compimento solo da un certo gruppo di persone, cioè da coloro che possono annnunciare il vangelo in testimonianza. La parola testimonianza (in greco martyrion μαρτύριον) traduce l’ebraico ‘ed עֵד, una parola che ha la stessa radice dell’avverbio che significa “ancora”, e che ha quindi il senso di una fedele ripetizione di un messaggio e di una verità (la verità di un fatto deve essere infatti essere confermata dalla bocca di almeno due testimoni, Deuteronomio 17:6 citato più volte anche nel Nuovo Testamento).
Quello di testimoniare del regno dei cieli era il compito assegnato da Dio al popolo di Israele, già dai tempi di Abraamo, di Isacco e di Giacobbe. Lo ricorda anche Isaia, quando scrive a Israele da parte del SIGNORE: “I miei testimoni siete voi, dice il SIGNORE, voi, e il mio servo che io ho scelto, affinché voi lo sappiate, mi crediate, e riconosciate che io sono. Prima di me nessun Dio fu formato, e dopo di me, non ve ne sarà nessuno. Io, io sono il SIGNORE, e fuori di me non c’è salvatore. Io ho annunciato, salvato, predetto, e non un dio straniero in mezzo a voi; voi me ne siete testimoni, dice il SIGNORE; io sono Dio.” (Isaia, 43:10-12).
Per svolgere questo compito, era però necessario ricevere lo Spirito Santo, che è anche lo Spirito della santificazione, il quale, rivelandoci la verità della parola di Dio, mette in noi anche il desiderio, cioè la speranza di vederla prima possibile completamente realizzata nella nostra vita.
L’apostolo Giovanni, alla fine della sua lunga vita scrive ai discepoli: “Carissimi, ora siamo figli di Dio, ma non è stato ancora manifestato ciò che saremo. Sappiamo che quando egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è. E chiunque ha questa speranza in lui, si purifica come egli è puro” (1Giovanni 3:2-3).
L’annuncio di questa verità è infatti cominciato subito dopo la discesa dello Spirito Santo sui credenti a Gerusalemme il giorno della prima Pentecoste dopo la risurrezione di Gesù. in cielo. Per portare a termine questo incarico molti tra i primi discepoli di Gesùhanno dato in sacrificio la loro vita (da qui, come è noto, il senso attuale della traslitterazione del termine greco nelle lingue moderne). Ma è continuato a succedere in diverse forme e sta ancora succedendo in vari paesi dove il vangelo viene predicato a culture oltremodo ostili. E deve succedere ovunque, attraverso ciascun credente, perché siamo tutti chiamati a morire ai nostri personali interessi e aspirazioni (le nostre “speranze morte”, o più o meno malconce), per “rinascere a una speranza viva, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti.” (1Pietro, 1:3).
Sperare nel SIGNORE non ha perciò niente a che vedere con la pigrizia spirituale del fatalismo, ma consiste piuttosto nel rispondere affermativamente a una chiamata a servire in un’opera molto più grande di noi e di qualsiasi organizzazione ecclesiastica a cui possiamo appartenere, i cui successi non si misurano con ciò che può essere visto e valutato dagli uomini e, soprattutto, sono per la gloria dell’unico vero Dio.
L’apostolo Paolo esorta i credenti a impegnarsi più che possono nell’opera del Signore, quali “collaboratori di Dio”, come lui stesso più volte si definisce: “Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.” (1Corinzi, 15:58). Infatti la fatica per Dio non solo è per qualcuno che conosce e non dimentica il nostro impegno, ma, spoprattutto, è una fatica che è anche un riposo, perché, come aveva appena scritto lo stesso Paolo, quando operiamo per Dio non siamo noi ad affaticarci ma è la grazia di Dio che opera in noi (1Corinzi, 15:10).
Per questo il vangelo del regno di Dio è davvero una buona notizia. E non per quelli che credono di esserselo meritato o di poterselo meritare, ma piuttosto per tutti coloro che riconoscono di averne bisogno. Infatti non solo dà speranza a chi ci crede e lo serve, ma offre una speranza anche a chi non ci ha ancora creduto: alla legge dei meriti (e soprattutto dei demeriti: la legge del peccato di cui Paolo scrive nella lettera ai Romani), il vangelo aggiunge la grazia di Dio, e la speranza in un regno dell’amore in cui ci sarà posto per tutti coloro che non vogliono accumulare tesori per innalzare il loro nome – o quello di altre creature – sopra il santo nome del SIGNORE, ma, al contario, hanno fatto del regno di Dio il loro personale tesoro. “Perché – come Gesù ci ha detto a tutti quanti – dov’è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore.” (Matteo, 6:21).
Divina commedia
Ora il vero tesoro, le chiavi del regno dei cieli (Matteo, 16:19), sta nel segreto del nostro rapporto con Dio che Gesù è venuto a ristabilire. Per questo ci ha innanzitutto insegnato a pregare.
Attraverso i suoi santi uomini – Noè, Abraamo, Mosè e gli altri profeti, il SIGNORE ha stabilito la sua Legge, una legge spirituale e perfetta, che ristora (letteralmente “fa ritornare”) l’anima, come scrive Davide (Salmi, 19:7; 23:3). Ma, come abbiamo tutti visto nella nostra vita, le richieste di questa legge perfetta sono inarrivabili per l’uomo nella sua attuale imperfezione. Lo sono per lo stesso popolo eletto a cui sono state rivolte, tanto più per le altre nazioni.
Tutto ciò darebbe luogo a una cosmica tragedia, se non ci fosse stata data la possibilità di un secondo patto, attraverso il quale tutti noi, non solo i sacerdoti e i profeti del popolo di Israele, possiamo dialogare con Dio e rivolgergli in forma di richiesta nostra quelle che erano le richieste del primo patto. La nostra salvezza diventa, come abbiamo visto, il frutto della nostra collaborazione con Dio, l’unico a cui appartiene il salvare (Salmi, 3:8), ma che non salva chi non vuole essere salvato.
Il nuovo patto, annunciato dal primo, è che possiamo entrare in contatto con l’autore del nostro destino, imparando da Cristo la sua mansuetudine e la sua umiltà di cuore (Matteo, 11:29). Lui stesso ha detto: “È scritto nei profeti: Saranno tutti istruiti da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me” (Giovanni, 6:45). Venendo a Cristo e rimanendo con lui, la nostra vita, il nostro carattere e il nostro stesso destino non rimangono com’erano.
La cultura delle nazioni esterne al popolo di Dio è intrisa di tragedia. Gli dèi di quelle nazioni vivono una vita appena appena scalfita dalle suppliche e dai sacrifici degli umani, che devono imparare a non osare discutere Israele invece è stato educato a intercedere. La parola ebraica per “preghiera” (thephillah תְּפִלָּה) contiene il significato di “cadere, interporsi, intervenire”, come la parola intercedere che significa “intromettersi”.
Pregare, nella Bibbia, significa gridare a Dio perché lui intervenga nella nostra storia, cioè sul nostro futuro. La nostra cultura, che è rimasta fondamentalmente idolatra, è basata su di un’idea totalmente diversa di destino: un fatum che le nostre preghiere possono servire solo a rendere più accettabile, ma non certo a cambiare (dovevano sottostarvi gli stessi dèi). Le immagini non si cambiano, possono solo essere ammirate. Così anche le opere d’arte, le storie dei racconti, o quelle dei film.
La storia della Bibbia, al contrario, è una storia in cui siamo ancora immersi. Lo testimonia anche la sopravvivenza del popolo di Israele attraverso tutte le persecuzioni subite nei secoli. Ma lo testimoniano soprattutto le vite trasformate dalla fede nella salvezza donata in Cristo Gesù. È stata scritta perché fosse messa in pratica. Non ci presenta uno spettacolo a cui assistere per purificarsi osservando i nostri crimini e le nostre nefandezze (come era la tragedia greca, secondo la lettura che ne ha dato lo stesso Aristotele). Ci è stata tramandata per raccogliere un popolo in una città futura.
Anche se la scrittura dei suoi libri – in significativa coincidenza con la distruzione del Tempio di Gerusalemme – è stata dichiarata conclusa, la Bibbia rimane tutt’ora un’opera aperta, perché è un invito a riconoscerla e ad applicarla nella nostra vita e a prendere posizione rispetto al suo contenuto e alla sua diffusione. Un costante invito a invitare Dio a intervenire nelle nostre impossibilità, aspettando che faccia lui quello che non possiamo fare noi e che ci istruisca a fare noi quello che ci ha incaricato di fare per la venuta del suo regno.
[…] non avviene spontaneamente. Proviene dalla bontà di Dio e da ciò che le sue promesse ci fanno sperare della realtà futura (Romani, 2:4; 1Giovanni, […]
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[…] nuova creatura che siamo diventati con la conversione non guarda più indietro, ma avanti. Non ha nostalgia per le cose che sono passate, né compie azioni per potersene vantare, o per riceverne dei meriti davanti agli uomini, ma è […]
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