1. I cieli dei cieli

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“I cieli dei cieli” (shmey ha-shamayim שְׁמֵי הַשָּׁמַיִם) è un’espressione che appare varie volte nella Sacre Scritture ebraiche.  “Ecco, al SIGNORE tuo Dio appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e tutto ciò che essa contiene…” (Deuteronomio, 10:14). “Tu, tu solo sei il SIGNORE! Tu hai fatto i cieli, i cieli dei cieli e tutto il loro esercito, la terra e tutto ciò che è sopra di essa, i mari e tutto ciò che è in essi, e tu fai vivere tutte queste cose, e l’esercito dei cieli ti adora.” (Nehemia, 9:6). Anche Salomone, il giorno dell’inaugurazione del Tempio di Gerusalemme ha nominato i cieli e i cieli dei celi (dicendo che pur nella loro immensità non possono contenere il SIGNORE, tanto meno lo avrebbe potuto fare la casa che gli aveva costruita! 1Re, 8:27).

Anche l’apostolo Paolo parla di una pluralità di cieli, riferendosi a un non meglio specificato “terzo cielo”, quando racconta (in terza persona) del suo rapimento in paradiso, dove dice di aver udito “parole ineffabili che non è lecito all’uomo di pronunziare” (2Corinzi, 12:2-4). Non è nostro interesse qui abbandonarci a speculazioni sul significato dei termini che sono usati per indicare il cielo in greco e sull’uso del plurale di questa parola in ebraico (che per altro è un pluralia tantum, perché shamayim שָׁמַיִם non ha il singolare). Ci limiteremo a confermare quanto il plurale sia appropriato quando si parla dei cieli, mettendo comunque l’accento sull’ordine e la struttura di questa pluralità.

Quando la Bibbia menziona i cieli e i cieli dei cieli, non ci sta a spiegare come sono fatti il cielo che vediamo (né i cieli che non vediamo: la Bibbia non è un libro di scienza naturale e neanche un trattato cabalistico), ma da quello che ci dicono le Scritture possiamo capire che anche i cieli che vediamo sono più grandi e complessi di quello che possiamo pensare guardando la volta celeste.  Le immagini che seguono mostreranno l’adeguatezza dell’espressione biblica “i cieli dei cieli” e quanto la Bibbia sia molto più vicina alla verità dei fatti delle teorie scientifiche che erano considerate valide prima delle recenti scoperte di cui stiamo per parlare.

Il nostro discorso non vuole presentare nuove e complicate teorie. Raccontando cose semplici e trattando informazioni ampiamente accessibili, vogliamo però andare in una direzione diversa da quella in cui solitamente procedono i mass-media, i quali, con la complicità di molti divulgatori e anche di qualche scienziato (o ex-scienziato), vorrebbero dimostrare che la scienza ha provato che Dio non c’è e che la Bibbia non dice il vero. Quanto segue si basa al contrario sulla convinzione che “le qualità invisibili [di Dio], la sua eterna potenza e divinità”  si vedano “chiaramente fin dalla creazione del mondo essendo percepite per mezzo delle opere sue” (Romani 1:20) e che chi sta cercando di dimostrare il contrario stia solo cercando (e fornendo) scuse per vivere una vita senza Dio (sarebbe giusto chiedersi a chi ciò possa giovare).

In realtà, mentre i filosofi, almeno nel passato, hanno cercato di costruire sistemi totalizzanti, gli scienziati degni di questo nome hanno preso la via di un’indagine della realtà che cerca il più possibile di attenersi ai fatti.  Ovviamente, questo non è mai possibile in forma completa e perfetta (molte delle rappresentazioni del cosmo di cui stiamo per parlare poggiano infatti su forti ipotesi teoriche), ma in scienza le teorie non dovrebbero mai diventare una religione. Quella che stiamo per seguire, comunque, è una storia di alcune scoperte recenti che hanno completamente cambiato il modo in cui gli stessi scienziati guardano al cielo.

Come credenti possiamo considerare le informazioni che ci vengono dalle scoperte scientifiche, e in generale quello che ci viene dalla nostra conoscenza naturale da un punto di vista nuovo. Parlando della nuova nascita per la fede nella parola di Dio incarnata in Cristo Gesù, l’apostolo Paolo ha scritto “se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove” (2Cor 5:17). Prima della conversione siamo di solito più interessati a quello che ha fatto l’uomo, perché quello che ha fatto l’uomo lo riusciamo a capire anche dal nostro punto di vista naturale. Le opere di Dio, invece, si capiscono solo spiritualmente. Paolo infatti dice che per l’uomo naturale le cose dello Spirito sono pazzia (1Corinzi, 2:14). Con la conversione invece siamo messi a confronto con “il SIGNORE che fa i cieli e la terra” (Salmi, 121:2) e anche le cose della natura e gli eventi della storia appaiono da un’altra prospettiva.

Grandi vuoti e grandi pieni

Iniziamo la nostra passeggiata cosmica con delle mappe di un settore di cielo, che ci mostrano delle strutture immensamente più grandi di qualsiasi cosa ci riesca di immaginare. Strutture che infatti neanche gli scienziati, fino agli anni ’80, immaginavano potessero esistere. Le prime figure che considereremo non provengono da osservazioni dirette, ma ricostruiscono comunque dati osservativi, secondo le ipotesi teoriche più accreditate.

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Distribuzione di 24 000 galassie. Mappa a grande scala dell’Universo (Red-shift Survey). Emilio Falco, F. L. Whipple Observatory (FLWO), Smithsonian Institution

Questa prima immagine visualizza le strutture in cui si organizzano le galassie e gli ammasi di galassie in un settore dell’Universo. La struttura tridimensionale dello spazio extragalattico presentata in questa immagine non è affatto omogenea ma è organizzata gerarchicamente. Le galassie non solo si raccolgono in ammassi di galassie, ma questi ammassi si raggruppano a loro volta  in ammassi di ammassi, o super ammassi. La scoperta risale all’estate del 1985, quando un gruppo di astronomi del Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, nel corso di un indagine su un settore della volta celeste con un campione di circa 1 100 galassie, si accorse del fatto che, contrariamente alle loro previsioni, le galassie si organizzavano in pareti, a formare cosmiche “bolle” attorno a immensi spazi vuoti. Studi successivi hanno consolidato questa scoperta e hanno portato a visualizzare varie strutture e a definire la posizione della nostra galassia nel Gruppo Locale come parte di una catena chiamata Superammasso Locale che ha il suo centro nell’Ammasso della Vergine. L’addensarsi delle galassie in una specie di velo attorno al centro dell’immagine raffigura la più grande struttura extragalattica finora studiata: il Grande Muro.

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Distribuzione di 220 000 galassie. L’immagine visualizza i dati raccoilti durante il 2dF Galaxy Redshift Survey, un “sondaggio” astronomico condotto tra il 1997 e il 2002 dall’Anglo-Australian Observatory (AAO). 2dFGR Survey Team e Paul Bourke (Swinburne University, Australia)

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Distribuzione di 220 000 galassie. 2dFGR Survey Team e Paul Bourke (Swinburne University)

Le misure su cui si basano queste  mappe dell’Universo (realizzate in seguito a diversi sondaggi astronomici) si riferiscono alla velocità di allontanamento delle galassie secondo la legge di Hubble, una legge – scoperta dall’astronomo statunitense Edwin P. Hubble attorno al 1940 – che correla la distanza delle galassie con la loro velocità di allontanamento e trova la sua naturale spiegazione nell’ambito della teoria dell’universo in espansione. Grazie a questa legge, si può calcolare la distanza delle galassie analizzando le righe spettrali della luce da loro emessa. Lo spostamento verso il rosso (red-shift) delle righe dello spettro (la “firma” degli elementi più abbondanti nelle stelle) indica infatti la velocità di allontanamento e quindi la distanza delle galassie. Poiché le righe spettrali sono influenzate anche dal moto delle galassie, oltre che dall’espansione dell’Universo, la precisione con cui si può determinare la distanza non è normalmente migliore di un mega-parsec (3,26 milioni di anni luce). Dopo l’ osservazione, si è cercato di sviluppare modelli che la spiegassero, immaginando un universo disomogeneo in cui le strutture si formano gerarchicamente.

La rete cosmica

Per economia, diciamo pure per comodità, l’Universo era immaginato come una realtà omogenea e statica. Anche dalle menti più vivaci e rivoluzionarie, come quella di Einstein. L’ossrvazione astronomica ha però dimostrato che l’economia del cielo non segue un principio di comodità, perché l’Universo non ubbisdisce alle nostre leggi, ma siamo noi che abbiamo ricevuto la grazia di intendere, seppure parzialmente, le leggi che lo governano. Colui che ha creato il cielo e la terra ci ha infatti creati a sua immagine e somiglianza, dandoci di condividere con Lui l’uso della parola. Per questo, possiamo comprendere l’ordine e la connessione delle cose, su tutte le scale, e riconoscere anche nel cosmo l’articolazione propria della parola, la ragione delle cose che le collega e le organizza (come è il senso del termine greco e del termine ebraico che traduciamo con parola, cioè, rispettivamente, logos e davar).

Man mano che la nostra osservazione si allarga, gli scienziati comprendono che le leggi che avevano ricavato dalla loro esperienza erano un caso speciale di leggi più generali. La teoria della gravitazione universale di Newton e quella della relatività generale di Einstein non rendono conto delle osservazioni sulla distribuzione delle galassie e dell’osservazione delle loro velocità (di cui parleremo meglio in un’altra occasione).

New telescope to reveal secrets of the universe

Volker Springel e Virgo Consortium. Max-Planck-Institute for Astrophysics, Garching (Germania)

L’immagine, che sembra raffigurare un tessuto nervoso, è un fermo-immagine di una simulazione dell‘evoluzione di una fetta di universo larga 93,75 Mpc/h, alta 62,50 Mpc/h e profonda 15 Mpc/h (Mpc sta per megaparsec: 1Mpc= 3260000 anni luce circa, h è la costante di Hubble, cioè il fattore – dell’ordine delle unità – di accelerazione dell’espansione dell’Universo in base al quale sono calcolate le distanze cosmiche). Nell’immagine, i punti e le aree che appaiono più luminosi sono galassie, ammassi di galassie e ammassi di ammassi di galassie, detti superammassi.
La simulazione è stata realizzata con GADGET2, l’ultima versione del programma di simulazione GADGET (GAlaxies with Dark matter and Gas intEracT), un programma di pubblico dominio scritto da Volker Springel al Max Planck Institute for Astrophisics e specificamente progettato per simulare processi che si svolgono su scala cosmologica.

Quello che si vede assomiglia a una grande rete. I cosmologi parlano infatti di cosmic web, “rete cosmica”. Quello che possiamo notare, innanzitutto, è che nei cieli accade proprio come con le parole, che sono formate di sillabe e che a loro volta formano delle frasi, che poi si raggruppano in periodi, discorsi (o capitoli) e via via in testi di maggiori dimensioni che si estendono nello spazio e nel tempo. Allo stesso modo, dalle osservazioni e dai calcoli degli astrofisici risulta un’immagine dell’Universo a scatole cinesi: non solo le stelle si raggruppano in galassie, le galassie in gruppi e ammassi di galassie, ma anche gli ammassi sono collegati in super ammassi, e via dicendo. Se gli astrofisici avevano già delle difficoltà a giustificare in termini solamente gravitazionali la struttura delle galassie, tanto meno si riescono a spiegare come le galassie e gli ammassi di galassie si tengano assieme a uelle cosmologiche distanze.

La materia oscura, anzi trasparente

Gli ammassi e i super ammassi di galassie si collegano gli uni agli altri come filamenti luminosi che non sono osservabili come appaiono nell’immagine, ma che sono disegnati così perché il modello di simulazione che è stato tarato per rendere conto della distribuzione delle galassie che è effettivamente osservata li interpreta come costituiti da un nuovo tipo di materia, che i cosmologi hanno chiamato “materia oscura” (dark matter) non perché non sia scura, ma, al contario, perché questa ipotetica materia non emette nessun tipo di radiazione (né sopra, né sotto le bande del visibile) ed è quindi totalmente trasparente alla nostra osservazione.

L’esistenza della “materia oscura” è stata ipotizzata fin dagli anni ’30 dall’astronomo svizzero Fritz Zwicky (1898-1974), per fare tornare i conti sulla massa delle galassie dell’ammasso della Chioma come poteva essere calcolata dalla misura del moto relativo delle galassie che lo formano. Lo studio del problema della “massa mancante” dell’Universo, come veniva allora chiamata la materia oscura, è rimasto per molti decenni relegato tra le curiosità scientifiche che potevano interessare più i filosofi che gli stessi astronomi. Oggi viene rilevata con buona precisione, seppur indirettamente, a partire da un fenomeno previsto dalla teoria della relatività generale, con una tecnica già escogitata dallo stesso Zwicky.

Oggi si calcola che l’Universo sia costituito per la considerevole percentuale di materia ed energia di cui non sappiamo circa niente. Ma su questo torneremo in un’altra occasione.

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L’ammasso di galassie Abell 1689 a 2,2 miliardi di anni luce dalla nostra galassia, osservato allo Hubble Space Telescope. NASA, N. Benitez (JHU), T. Broadhurst (Racah Institute of Physics/The Hebrew University), H. Ford (JHU), M. Clampin (STScI),G. Hartig (STScI), G. Illingworth (UCO/Lick Observatory), the ACS Science Team and ESA

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La materia oscura attorno all’ammasso di galassie Abbel 1689. NASA, ESA, E. Julio (NASA Jet Propulsion Laboratory/California Institute of Technology, and Space Telescope Science Institute), P. Natarajan (Yale University), J.-P. Kneib (Laboratoire d’Astrophysique de Marseille)

La tecnica indiretta che viene utilizzata per disegnare delle mappe della  distribuzione della materia oscura è basata sul fenomeno delle lenti gravitazionali ed è perciò chiamata lensing gravitazionale. Questa tecnica misura la distorsione operata sulle immagini degli oggetti celesti che rimangono sullo sfondo di ammassi di galassie (o di altre strutture di interesse cosmologico).  Secondo la teoria della relatività generale, la distorsione dell’immagine delle galassie più lontane è causata dalla deflessione gravitazionale prodotta dagli ammassi di galassie in primo piano. Dall’analisi geometrica delle deformazioni si può quindi risalire alla misura della massa che le ha prodotte, indipendentemente dalla luce emessa dalle stelle e dalle nubi di gas delle galassie. La deflessione produce infatti degli archi ellittici, stirando l’immagine delle galassie più lontane in una direzione preferenzialmente perpendicolare a quella del centro di massa dell’ammasso. Dalla misura di questa deflessione in un gran numero di galassie visibili sullo sfondo dell’immagine, gli astrofisici possono quindi operare una ricostruzione statistica della distribuzione della massa degli ammassi in primo piano.

Stelle mai viste, miliardi di miliardi

Oggi gli astronomi dispongono di strumenti tecnici e teorici incomparabilmente più potenti e raffinati di quelli di cui disponevano un secolo fa, e di una grande massa di dati raccolti su quelli che fino a non molto tempo fa erano solo dei puntini a mala pena distinguibili. Noi grande pubblico siamo ormai abituati alla bellezza delle immagini astronomiche che visualizzano questi dati. Vediamone solo alcune mentre ci avviciniamo alle stelle che possiamo vedere a occhio nudo (e che stanno quasi tutte dentro la nostra galassia, ma di questo parleremo subito dopo).

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Galassia NGC 4921 allo Hubble Space Telescope. Kem Cook, Physical and Life Science Directorate, Lawrence Livermore National Laboratory, Livermore (CA)

Questa immagine di NGC 4921, una galassia la cui distanza è stimata attorno ai 320 milioni di anni luce, è stata realizzata, come la successiva, utilizzando il Wide Field Channel della Advanced Camera for Surveys (ACS) dello Hubble. È costituita da un mosaico di 80 immagini ottenute con altrettante esposizioni. 50 esposizioni (per un totale di 17 ore di osservazione) con un filtro sulle bande del giallo e altre 30 esposizioni con un filtro sulle bande dell’infrarosso vicino (per un totale di 10 ore di osservazione). La foto permette di distinguere i bracci spiraliformi della galassia, ma anche di notare che contrastano molto meno del solito con la diffusa luminescenza, caratteristica delle galassie ellittiche (è stata per questo chiamata “la galassia anemica”).

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Filamenti di gas attorno a NGC 1275. A. Fabian, The Hubble Heritage Team (STScI/AURA), NASA, ESA

NGC 1275 è una galassia che gravita attorno all’ammasso di galassie Perseo nel superammasso di Perseo-Pesci, una delle maggiori strutture dell’Universo. Situata a una distanza di circa 230 milioni di anni luce dalla nostra galassia, NGC 1275 è abbastanza vicina per poter essere studiata nei dettagli. All’interno di NGC 1275 si possono infatti distinguiere due galassie indipendenti: una grande galassia centrale dal nucleo diffuso e una galassia a spirale rilevabile come un “sistema ad alta velocità”  che si muove a 3000 km/s in direzione del centro dell’ammasso di Perseo. L’immagine, oltre ai bracci della galassia a spirale colorati in azzurro chiaro, ci mostra il grande nucleo galattico di NGC 1275 circondato da una rete di filamenti di gas, che appaiono colorati in rosso. Questi filamenti sono “sottili” poche centinaia di anni luce e si estendono fino a 20 000 anni luce di lunghezza. Per spiegare come questi filamenti molto più freddi delle nubi intergalattiche a milioni di gradi in cui sono immersi, possano resitere a quelle temperature senza collassare in stelle o disperdersi, gli aastrofisici hanno ipotizzato la presenza di un immenso campo magnetico.

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Immagine in multifrequenza delle galassia Le antenne. John Hibbard NRAO, Associated Universities, Inc., National Science Foundation

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Le galassie Antenne allo Hubble Space Telescope. ESA/Hubble & NASA

Queste due fotografie astronomiche ci mostrano il sistema di galassie chiamato Antenne, con le due misteriose “code” (visibili solo nella prima immagine). Oggi questi due filamenti che danno il nome alle due galassie sono attribuiti alle forze mareali tra le due galassie in collisione (si chiamano così le forze che governano il movimento di due masse che ruotano una attorno all’altra), ma si tratta evidentemente di una metafora perché le due code si distendono molto oltre qualsiasi immaginabile campo gravitazionale, e, come i filamenti di NGC1275, fanno anche queste pensare a un immenso campo magnetico. Dal punto di vista della classificazione morfologica, le Antenne, che distano da noi circa 60 milioni di anni luce, rappresentano un tipico esempio di galassie interagenti, probabile frutto dell’incontro di due galassie a spirale, attualmente sulla via di diventare un’unica galassia ellittica. Il centro del sistema irradia fortemente sulle bande degli X, mentre le due code emettono anche nelle bande del radio. In particolare, la coda meridionale è molto più marcata nel radio che nel visibile. La prima immagine combina dati ottenuti con il telescopio ottico di 0.9m del Cerro Tololo Inter-American Observatory (Cile) e con il radiotelescopio Very Large Array del National Radio Astronomy Observatory nel New Mexico (USA). Il colore blu evidenzia l’idrogeno atomico, che emette fortemente nelle frequenze del radio. La seconda immagine è stata ottenuta elaborando i dati acquisiti con il Wide Field Channel della Advanced Camera for Surveys (ACS) a bordo dello Hubble Space Telescope.

Ammassi di ammassi di galassie

Con la prossima fotografia astronomica ci “avviciniamo” al super ammasso di cui fa parte il Gruppo Locale di galassie a cui appartiene la Via Lattea.

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L’ammasso di galassie della costellazione della Vergine (Virgo cluster) al Kitt Peak National Observatory nel Deserto di Sonora in Arizona. Le porzioni di cielo che appaiono come cerchi neri corrispondono alla posizione di stelle che sono state rimosse dall’immagine in quanto non facevano parte dell’ammasso, ma della nostra Galassia. Chris Mihos (Case Western Reserve University)/ESO

La foto inquadra l’ammasso di galassie della Vergine, che dà il nome al superammasso di cui fa parte il Gruppo Locale di galassie a cui appartiene la Via Lattea. Le tre mappe seguenti ci aiuteranno a raccapezzarci tra le denominazioni del nostro indirizzo cosmico.

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I dintorni galattici del super ammasso della Vergine (Virgo supercluster). Immagine ritagliata da una mappa pubblicata da Andrew Z. Colvin su Wikipedia

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Il Gruppo Locale nel contesto degli altri ammassi di galassie che, assieme all’ammasso della Vergine (Virgo cluster) formano il superammasso della Vergine (Virgo supercluster).  Immagine ritagliata da una mappa pubblicata da Andrew Z. Colvin su Wikipedia

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Il Gruppo Locale di galassie di cui fa parte la nostra Via Lattea (Milky Way), assieme alla galassia della costellazione di Andromeda (M31). Immagine ritagliata da una mappa pubblicata da Andrew Z. Colvin su Wikipedia

Le prossime immagini mostrano, in ordine di distanza decrescente, i principali oggetti celesti del Gruppo Locale.

M33_-_Triangulum_GalaxyInnanzitutto M33, che dista da noi circa 3 milioni di anni luce. È la più piccola galassia a spirale del Gruppo Locale e uno degli oggetti celesti più lontani che si possano ancora distinguere a occhio nudo (ma non nelle nostre regioni). Poi la galassia di Andromeda (M31), che appare inquadrata assieme alle sue due galassie satelliti M110 e M32.

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La galassia di Andromeda occupa un posto speciale nella storia dell’astronomia perché è stato il primo oggetto celeste a essere riconosciuto come un’altra galassia. Cosa che accadde meno di un secolo fa, solo nel dicembre del 1924, quando l’astronomo statunitense Edwin P. Hubble diede lo storico annuncio che quella che fino ad allora era stata chiamata la Grande Nebulosa di Andromeda era in realtà un’altra galassia e distava da noi non le migliaia di anni luce che ci separano dalle stelle e dalle nebulose della nostra Galassia, ma una distanza dell’ordine dei milioni di anni luce (le stime attuali si aggirano attorno ai 2,5 milioni). La misura di questa distanza, effettuata da Hubble con una tecnica che era stata appena scoperta, permise di determinare anche le dimensioni di Andromeda, che risultò essere più estesa della stessa Via Lattea a cui si credeva appartenesse. I confini della Via Lattea non coincidevano dunque più con quelli del cosmo (come la maggioranza degli astronomi avevano ritenuto fino ad allora). La nostra era solo una delle innumerevoli altre galassie che si cominciavano a scoprire. L’Universo era diventato immensamente più grande!

Le prossime immagini si riferiscono invece a galassie molto più vicine: la Piccola e la Grande Nube di Magellano.

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La Piccola Nube di Magellano. ESA Hubble e Digitized Sky Survey 2

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La regione superiore della Piccola Nube di Magellano. NASA, ESA e A. Nota (STScI/ESA)

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La Grande Nube di Magellano visualizzata all’infrarosso dallo Spitzer Space Telescope. NASA/JPL-Caltech/M. Meizner (STScl) e The Sage Legacy Team

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Il centro della Nebulosa Tarantola, nella Grande Nube di Magellano. ESA/NASA, ESO e Danny LaCrue

La Piccola Nube di Magellano è più distante della Grande Nube. Tutte e due sono comunque abbastanza “vicine”, se confrontate con le galassie viste finora. La prima dista da noi circa 200000 anni luce, la seconda circa 160000 anni luce. Visibili solo a latitudini molto meridionali e in tutto l’emisfero australe, prendono nome dal grande navigatore portoghese (a introdurre l’attuale denominazione fu lo scrittore e viaggiatore Antonio Pigafetta, che navigò con Magellano), ma erano in realtà da tempo ben note ai navigatori delle isole del Pacifico e anche a vari astronomi asiatici. Vengono chiamate Nubi, ma sono due galassie satellite della nostra Galassia, perché non sono formate solo da qualche stella circondata da polveri e gas, ma anche da centinaia di milioni di stelle e da numerose nebulose. L’ultima immagine, che visualizza un dettaglio della Grande Nube, si presenta come una delle nebulose della nostra galassia ed è infatti una regione di attiva formazione stellare, come lo sono molte delle nebulose che incontreremo tra breve. Ma prima di passare agli oggetti interni alla nostra Galassia, diamole uno sguardo panoramico.

Via Lattea

Panorama della Via Lattea. ESO/S. Brunier

Galassia in greco (galaxìas γαλαξίας ) vuol dire “lattea”, un’aggettivo che si riferisce al sostantivo femminile “via” (hodòs, ὁδός). Traslitterata nelle lingue moderne, questa parola è oggi passata da nome proprio (la Galassia con la G maiuscola è appunto la Via Lattea) a nome comune, e viene infatti usata per indicare non solo la nostra galassia ma anche tutti gli altri oggetti celesti di una comparabile dimensione e complessità.

Una via color latte

La prossima immagine spiega chiaramente il perché del nome della nostra galassia. Essendone all’interno la vediamo (nelle nostre regioni questo spettacolo, a causa dell’inquinamento luminoso prodotto dalle città, è ormai un’evento eccezionale) come una grande “via” bianca che percorre il cielo.

La prossima immagine della Via Lattea ci serve per ricapitolare le cose dette fin qui.

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Mappa a tutto cielo dell’Universo Locale. Thomas Jarrett, IPAC (Infrared Processing, and Analysis Center), Jet Propulsion Laboratory, Caltech (California Institute of Technology), Pasadena (CA)

Nell’immagine sono infatti visualizzate le strutture a grande scala che si trovano in quello che viene chiamato l’Uuniverso Locale, cioè tutte le grandi strutture che si possono osservare dal nostro punto di vista. Il disegno presenta la distribuzione di queste strutture nel cielo, mentre la distanza di ciascuna struttura è indicata dai diversi colori.

Le strutture a grande scala che compaiono attorno alla Via Lattea sono composte, in quest’immagine, da circa 300.000 galassie. Nell’immagine correlata, i numeri indicati in parentesi in corrispondenza dei nomi delle strutture celesti si riferiscono alla distanza data però in termini di velocità di allontanamento delle galassie. Per le strutture cosmologiche descritte dalla carta, la distanza di una galassia è infatti, sulla base della teoria di un universo in espansione, direttamente proporzionale alla velocità del suo allontanamento, valore quest’ultimo indicato dallo spostamento verso il rosso (redshift, z) delle righe dello spettro della radiazione emessa, di cui abbiamo già parlato. Per le galassie che fanno parte di gruppi esterni al Gruppo Locale, questa stima ha un margine d’errore dell’ordine delle migliaia di anni luce, imprecisioni  notevoli in valore assoluto, ma relativamente piccole rispetto alle distanze tra i superammassi di galassie.Appaiono colorate in viola le galassie che formano il Superammasso della Vergine e sono caratterizzate da un redshift minore di 0.01 (z<0.01). Come si può leggere nell’immagine associata, tra queste strutture troviamo Andromeda (indicata come M31, che dista circa 2.5 Mly dalla nostra Galassia), l’ammasso di galassie della Vergine (a 60 Mly) e quello della Fornace (62 Mly).In blu, gli ammassi e superammassi con redshift maggiore di 0.01 e minore di 0.02 (0.01<z<0.02). Tra questi, i superammassi Norma-Centauro (a 200 Mly) e Perseo-Pesci (a 250 Mly). In turchese, le strutture con 0.02<z<0.03, tra le quali la Grande Muraglia (da 300 Mly a 400 Mly). In verde, le strutture con 0.03<z<0.04, tra le quali i superammassi Hercules e Leo (a 500 Mly). In giallo, le strutture con 0.04<z<0.05, tra cui spicca il superammasso di Shapley (600 Mly). In ocra, le strutture con 0.05<z<0.06, tra cui il superammasso dello Scultore (che si estende fino a 700 Mly di distanza). In rosso, le strutture con 0.07<z<0.09, tra cui i superammassi dell’Orologio (da 700 Mly a 1.2 Gly) e di Corona Boreale (1Gly).

La rappresentazione della Via Lattea, nella porzione centrale dell’immagine, indica la posizione e l’emissione di luce (su specifiche lunghezze d’onda dell’infrarosso) di mezzo milione di stelle e appare perciò di qualità fotografica. L’immagine deriva dalla stessa campagna di osservazioni da cui sono stati raccolti i dati elaborati nella seguente immagine.

centro galassia

Il centro della Via Lattea. 2MASS/G. Kopan, R. Hurt

Questa immagine mostra una porzione di cielo di circa 8×8 gradi (più o meno l’area coperta da un pugno chiuso tenuto alla distanza di un braccio teso) in corrispondenza della costellazione del Sagittario, dove, dal nostro punto di vista terrestre, si trova il centro della Galassia. Il nucleo galattico, visibile nel quadrante superiore sinistro, dista dalla Terra circa 25000 anni luce, circa 2/3 del raggio del’intero disco. Il centro della Galassia, per le sue forti emissioni sulle bande radio, rivela la presenza di un massiccio buco nero (4 milioni di masse solari), invece nelle bande del visibile è oscurato da fitte polveri. L’arrossamento della luce che proviene dalla regione centrale (e che continua lungo tutto il piano della galassia) dipende da queste polveri che, addensandosi, producono lo stesso fenomeno che si verifica all’alba e, soprattutto, al tramonto: quando il Sole è basso all’orizzonte la luce appare rossa perché le frequenze verso il blu vengono bloccate dalle molecole di gas che compongono la nostra atmosfera (soprattutto la sera, per l’evaporazione causata dal caldo del giorno), mentre quelle verso il rosso riescono ad attraversare il tratto di atmosfera che li separa dalla superficie terrestre grazie al fatto che la loro lunghezza d’onda è maggiore delle molecole sospese nell’aria.  L’immagine assembla un mosaico di immagini 2MASS (2 Micron All Sky Survey), un progetto che risulta da una collaborazione tra l’Università del Massachusetts e l’IPAC (Infrared Processing and Analysis Center) del California Institute of Technology. Osservando alle frequenze della luce visibile, la maggior parte delle stelle che occupano la porzione di cielo attorno al piano della Galassia vengono oscurate dalle nubi di polveri stellari. Queste polveri diventano trasparenti solo al crescere della lunghezza d’onda a cui è sensibile lo strumento di osservazione, perché i granelli di polvere non vengono intercettati da una luce che vibra su una lunghezza superiore alle loro dimensioni. L’infrarosso vicino non è schermato nemmeno dalla nostra atmosfera e per questa ragione è possibile esplorare il cielo su queste frequenze anche avvalendosi di telescopi terrestri.

Dentro la Via Lattea

Entriamo ora all’interno della Galassia, per vedere come anche nel cielo a noi più prossimo si assista a fenomeni di organizzazione “a scatole cinesi” come quelli delle strutture cosmiche che abbiamo visto fino ad adesso (ma ora su scale relativamente molto più piccole, anche se sempre immensamente più grandi di quelle dei fenomeni a cui assistiamo nella nostra vita quotidiana). Avvicinandoci al Sistema Solare, esamineremo tre nebulose molto diverse tra loro.

The Eagle Nebula

La Nebulosa Aquila, in un mosaico ricostruito da immagini ottenute con la Wide-Field Imager camera del telescopio MPG/ESO 2.2-m al La Silla Observatory dell’ESO in Cile.

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Le due principali formazioni gassose della Nebulosa Aquila, vista con il telescopio 0,9m al Kitt peak Observatory in Arizona. Tarvis Rector, University of Alaska Anchorage

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Il gruppo di colonne gassose che sono state chiamate “I Pilastri della Creazione”. NASA, Jeff Hester, e Paul Scowen (Arizona State University)

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La sommità di una delle colonne gassose della Nebulosa Aquila. NASA, ESA The Hubble Heritage Team (STScI/AURA)

La nebulosa Aquila si trova in prossimità della Coda della costellazione del Serpente, a circa 7000 anni luce dal Sistema Solare.  A differenza delle nebulose a riflessione, nelle nebulose a emissione è la stessa materia interstellare (cioè i gas e le polveri) a fare luce. L’emissione di luce è dovuta al continuo rilascio di energia (sotto forma di fotoni) da parte degli elettroni liberi che vengono ricatturati dai protoni. I fotoni emessi hanno lunghezze d’onda ben definite: la più intensa è la riga H-alfa, che è la principale responsabile del tipico colore rossastro delle nebulose a emissione (le nebulose a riflessione sono invece caratterizzate da una colorazione azzurrina).

Nella prima fotografia, la nebulosa appare nei suoi colori naturali e mostra il profilo del rapace in picchiata che le ha guadagnato il nome. Nell’ingrandimento successivo, sulla sinistra dell’immagine, è indicata la posizione della colonna gassosa la cui sommità è inquadrata nell’ultima immagine. Questa colonna di gas è alta ben 9,5 anni luce (il doppio della distanza tra il Sole e Alpha Centauri) ed emerge da una vasta nube di idrogeno molecolare. All’interno della colonna, il gas interstellare è abbastanza denso da colassare gravitazionalmente, innescando la formazione di giovani stelle che cresceranno nutrendosi della massa circostante. L’energia proveniente dalle stelle dell’ammasso forma un forte vento che agisce sulla colonna dissipando i materiali più leggeri e facendo apparire i nuclei più densi, detti spiritosamente EGG (l’acronimo sta per Evaporating Gaseous Globules, ma l’acronimo in inglese significa “uovo”), che emergono come protuberanze dalla nube: secondo gli astrofisici, in questi globuli gassosi si stanno formando nuove stelle.

Nelle due prossime immagini osserveremo i dettagli di un’altra spettacolare nebulosa.

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La Nebulosa Occhio di Gatto (NGC 6543). Romano Corradi, Isaac Newton Group, e Denise R. Gonçalves, Istituto de Astrofisica de Canarias

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Il centro della Nebulosa Occhio di Gatto (NGC 6543). NASA, ESA,HEIC The Hubble Heritage Team (STScI / AURA)

La Nebulosa Occhio di Gatto (NGC 6543) si trova nella costellazione del Drago a circa 3000 anni luce dal Sistema Solare. Il nucleo centrale della nebulosa misura circa 0,5 anni luce di diametro e contiene al suo interno varie strutture simmetriche che la fanno assomigliare a un’iride. Queste strutture sono costituite da gas ionizzati ad altissima temperatura che sono stati prodotti dalla stella nei diversi cicli della sua estinzione. Si tratta di un classico esempio di ciò che gli astronomi chiamano nebulosa planetaria. Si tratta di stelle che si suppone stiano concludendo il loro ciclo vitale e la cui massa e dimensione si sta rapidamente riducendo, dando luogo a vasti getti di plasma.

Come si vede dalla prima foto, il centro della nebulosa è circondato da un debole ma immenso alone (che misura circa 3 anni luce di diametro), presumibilmente prodotto durante la consunzione della stella quando si trovava in una sua precedente fase (si trattava forse di una gigante rossa). Le complesse simmetrie del centro hanno fatto pensare che l’oggetto stellare che occupa la posizione della “pupilla” fosse in realtà una stella binaria, della quale però non esiste nessun’altra evidenza.

La prossima nebulosa è considerevolmente più vicina, ma anche molto meno luminosa.

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La nebulosa Testa di Strega (IC 2118).

Questo classico esempio di nebulosa a riflessione rimane a meno di 1000 anni luce dal nostro Sistema. Da lì riflette la luce della stella Rigel a 860 anni luce dal Sole (Rigel non appare nella foto). Come abbiamo già detto, il colore blu non è causato solamente dal colore blu di Rigel, ma anche dalla differente natura e temperatura delle polveri di cui è formata, che riflettono la luce blu meglio della luce rossa.

Nel nostro Sistema

Prima di concludere questa carrellata di meraviglie celesti che mostrano una così grande varietà e complessità di forme, con un salto acrobatico dall’ordine degli anni luce a quello delle ore luce, diamo un’occhiata a un singolare fenomeno astronomico alla portata delle nostre sonde planetarie: gli anelli di Saturno.

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Saturno visto in controluce dalla sonda planetaria Cassini-Huygens. NASA Jet propulsion Laboratory Space Science Instute

Saturno è il settimo pianeta del nostro Sistema in ordine di distanza dal Sole, la cui luce impiega circa 85 minuti a raggiungerlo. Ruota vorticosamente su se stesso: se un suo anno dura 29,46 anni terrestri, il suo giorno dura appena 10 nostre ore (anche a causa di questa rapidissima rotazione, sulla sua superficie gassosa i venti raggiungono mediamente velocità cinque volte superiori alle massime terrestri). Attorno a Saturno, sul piano dell’equatore si estende un ordinato sistema di anelli concentrici che formano un disco spesso poche decine di metri che si estende su una corona circolare di 120.000 km di raggio. Gli anelli sono formati da frammenti di ghiaccio. Questi frammenti (la cui granulometria varia dall’ordine dei metri a quello dei millimetri) si distendono lungo degli anelli straordinariamente allineati e sottili, con uno spessore medio di 10 metri (anche se in certi casi si possono estendere fino ad alcuni chilometri. È sorprendente come possano essere osservati dalla Terra anche con modesti cannocchiali!

Lo studio e la conoscenza del sistema di anelli di Saturno ha compiuto un fondamentale passo con le immagini inviate dalle sonde planetarie L’immagine inquadra una regione di circa un milione di chilometri e mostra il sistema di anelli osservato dalla parte opposta della Terra e del Sole. È stata infatti ottenuta elaborando i dati raccolti dalla navicella Cassini il 15 settembre 2006, durante tre delle dodici ore in cui questa si trovava all’ombra del pianeta.  La particolare posizione da cui sono stati raccolti i dati da cui è ricavata l’immagine ha permesso di rivelare due nuovi anelli e di confermare la presenza di altri due precedentemente scoperti nella stessa missione.

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La diversa luminosità degli anelli di Saturno. NASA/JPL/Space Science Institute

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Emissione monocroma sulle frequenze del rosso di un settore degli anelli di Saturno. NASA/JPL-Caltech/Space Science Institute

Attorno a Saturno orbitano anche un numero imprecisato di lune (più di 60), molte delle quali sono in qualche modo associate a un anello. Vengono chiamati per questo “satelliti pastore”, ma nessuno in realtà sa come agiscano e come riescano a tenere perfettamente allineate le loro schiere di frammenti.

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Giano e Prometeo, rispettivamente sopra e sotto l’anello F di Saturno. Prometeo è considerato uno dei “satelliti pastore” dell’anello. NASA/JPL-Caltech/Space Science Institute

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Pandora, l’altro “satellite pastore” dell’anello F di Saturno. NASA/JPL-Caltech/Space Science Institute

Insomma, il cosmo è pieno di ordine, un ordine che quasi mai riusciamo a spiegarci appieno. Del resto, l’idea che la scienza abbia ormai compreso o sia prossima a comprendere ogni cosa è la principale causa (e anche una chiara manifestazione) del contrario della scienza, cioè dell’ignoranza. Un vero scienziato – come ogni altra persona onesta – deve riconoscere che, nonostante tutti i suoi studi e le sue conoscenze, ha solo iniziato a scalfire le profondità del creato.

Isaac Newton, che ha steso quella che per molto tempo dopo di lui è apparsa come la spiegazione ultima della meccanica dei corpi sulla Terra e anche in cielo, ha giustamente scritto: “Non so come io appaia al mondo, ma per quel che mi riguarda mi sembra di essere stato solo come un fanciullo sulla spiaggia che si diverte nel trovare qua e là una pietra più liscia delle altre o una conchiglia più graziosa, mentre il grande oceano della verità giace del tutto inesplorato davanti a me”.

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