La parola nelle dieci parole. Prologo

ico-HOREB

Esodo, 20:1 Allora Dio pronunziò tutte queste parole

“Allora”: in realtà l’ebraico (vayedber ‘Elohiym וַיְדַבֵּר אֱלֹהִים) dice soltanto “e Dio disse”. Anzi, per essere ancora più precisi: “Dio disse”. Infatti, nell’ebraico biblico, usata come prefisso di un verbo, la congiunzione (ve– -וַ, che altrimenti traduciamo e o ma) ne può trasformare il senso temporale. All’inizio della frase, questa caratteristica forma verbale viene normalmente usata per indicare che ci si trova all’interno di una narrazione. E potrebbe anche essere omessa nella traduzione.

Per quanto ci riguarda, è importante ricordare che l’enunciazione delle parole che seguono – e che conosciamo come “i dieci comandamenti” – avviene in un preciso momento della storia di Israele. L’evento si svolge anche in un luogo preciso. Tempo e luogo indicano infatti l’adempimento della promessa che il SIGNORE aveva fatta a Mosè il giorno del loro primo incontro sul monte Oreb, quando gli apparve nel roveto ardente e gli affidò la missione di liberare Israele dalla schiavitù in Egitto. “E Dio disse: Va’, perché io sarò con te. Questo sarà il segno che sono io che ti ho mandato: quando avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, voi servirete Dio su questo monte” (Esodo 3:12). Queste dieci parole, che esprimono l’insegnamento base del SIGNORE al suo popolo Israele, vengono qui pronunciate da Dio dopo che, grazie al suo stesso intervento, la missione di Mosè è stata compiuta. Il momento e il luogo in cui vengono pronunciate indicano quindi che la missione veniva proprio dall’alto dei cieli.

“Allora Dio pronunciò tutte queste parole” (vayedabber ‘Elohiym ‘eth khol-haddevariym ha’elleh וַיְדַבֵּר אֱלֹהִים אֵת כָּל־הַדְּבָרִים הָאֵלֶּה) che letteralmente andrebbe tradotto “e Dio parlò tutte le seguenti parole”. Il verbo e il suo oggetto hanno infatti la stessa radice: daleth+beth+resh. Davar (“parola”) è un termine che si riferisce all’azione del dire (il fatto che anche il parlare sia una forma di azione è evidente nella lingua ebraica, dove questa radice indica sia l’articolazione delle cose, sia le cose articolate: sia le parole che le cose). La parola di Dio è Dio stesso che parla e che, attraverso la sua parola, agisce, crea (Giovanni 1:1-3).
Il testo ebraico aggiunge l’infinito costrutto le’mor לֵאמֹֽר che significa letteralmente “per dire”, una parola che viene normalmente usata per introdurre un discorso diretto. Le dieci parole esprimono fedelmente la volontà e il pensiero di Dio e sono state da lui pronunciate per formare noi, suo popolo, a sua immagine e somiglianza.

Dio è amore (1Giovanni, 4:8 e 16) e l’argomento delle parole che Dio ha rivolto a Israele attraverso Mosè è appunto l’amore, cioè cosa fare e cosa non fare per dimostrare amore. Qui, in Esodo, innanzitutto cosa non fare. Nei successivi libri di Mosè e nelle altre Scritture, Dio dirà anche cosa fare.

Il grande comandamento di Dio, da cui Gesù ha detto che dipende tutta la Legge (d’accordo in questo con l’insegnamento dei farisei, cf. Matteo 22:34-40 e Luca 10:25-28), è infatti un comandamento positivo. Dice: “Ascolta, Israele: Il SIGNORE, il nostro Dio, è l’unico SIGNORE. Tu amerai dunque il SIGNORE, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze”. (Deuteronomio, 6:4-5, enunciato subito dopo la seconda formulazione dei dieci comandamenti, che si trova in Deuteronomio 5:6-21).

Anche quello che Gesù ha chiamato “il secondo comandamento” è un comandamento positivo: “Ama il tuo prossimo come te stesso” (Levitico 19:18). Di questo secondo comandamento Gesù ha detto che è simile al primo (Matteo 22:38) ed effettivamente è solo amando Dio con tutto il nostro cuore che possiamo imparare ad amare gli altri come noi stessi e, viceversa, solo amando gli altri come noi stessi (e cioè non considerandoli né degli dèi né degli schiavi, ma trattandoli come vorremmo essere trattati noi), possiamo imparare ad amare Dio con tutto il nostro cuore. Né possiamo dire di amare veramente Dio se non amiamo anche i suoi figli, nostri fratelli. Come spiega l’apostolo Giovanni, “se uno dice: Io amo Dio, ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto. Questo è il comandamento che abbiamo ricevuto da lui: che chi ama Dio ami anche suo fratello” (1Giovanni, 4:19-21).

Le parole che Dio dice al suo popolo sono certamente degli ordini, ma sono innanzitutto un insegnamento. Questo è per altro il significato originario della parola ebraica Torah (תּוֹרָה), che traduciamo con Legge. La Legge di Dio è un insegnamento, che ci fa sapere come comportarci con Dio e con il nostro prossimo. Le dieci parole si suddividono in due parti: le prime cinque definiscono il rapporto verticale (con Dio le prime quattro, e con i nostri genitori, la quinta), le altre cinque quello orizzontale, con il nostro prossimo, cioè i nostri fratelli (nella carne e nello spirito) e i nostri amici, le persone che ci sono vicine e che possiamo avvicinare.

Nell’esaminare più in dettaglio il senso di ciascuna di queste parole non dobbiamo dimenticare che questo insegnamento (e tutto ciò che lo segue e che lo spiega nel libro dell’Esodo, e negli altri libri della Legge data attraverso Mosè) è solo la prima parte dell’insegnamento di Dio, che precisa al suo popolo quali siano le cose da non fare e le cose da fare. Sul come mettere in pratica davvero queste parole, Mosè non dà alcuna istruzione. Nei libri storici, sapienziali e profetici che compongono il resto delle Scritture ebraiche viene indicata la necessità di una profonda trasformazione. Dio conosce il nostro cuore e sa che “è ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente maligno” (Geremia, 17:9). Nei libri profetici in particolare, Dio ci mostra l’incapacità dell’uomo naturale di regnare secondo giustizia e promette che avrebbe tolto via il nostro cuore di pietra e ci avrebbe dato un nuovo cuore di carne perché potessimo finalmente adempiere la Legge insegnata da Mosè (Ezechiele, 11:19 e 36:26-27). Promette anche che avrebbe stipulato con noi un patto nuovo, non più di lettera, fatto di comandamenti esteriori, ma di spirito, comandamenti che diventeranno esigenze interiori: “Ecco, i giorni vengono, dice il SIGNORE, in cui io farò un nuovo patto con la casa d’Israele e con la casa di Giuda; non come il patto che feci con i loro padri il giorno che li presi per mano per condurli fuori dal paese d’Egitto: patto che essi violarono, sebbene io fossi loro signore, dice il SIGNORE; ma questo è il patto che farò con la casa d’Israele, dopo quei giorni, dice il SIGNORE: io metterò la mia legge nell’intimo loro, la scriverò sul loro cuore, e io sarò loro Dio, ed essi saranno mio popolo” (Geremia 31:31-33). Il nuovo patto (bryit hachadashah בְּרִית חֲדָשָֽׁה) di cui parla Geremia 31:31, è quello che siamo abituati a chiamare Nuovo Testamento. Possiamo amare perché Dio ci ha amati per primo (1Giovanni 4:19). Perché la sua Legge potesse essere adempiuta anche nelle nostre vite, Dio stesso ha mandato la sua parola fatta carne (in ebraico “carne” – basar בָּשָׂר – e “vangelo” – besorah בְּשֹׂרָֽה – hanno significativamente la stessa radice), mostrandoci tutto il suo amore nel sacrificio di Gesù.

Noi da soli non riusciamo a metter in pratica i comandamenti di Dio, ma se apriamo il cuore all’amore della verità (come ci viene indirettamente consigliato in 2Tessalonicesi 2:10), allora il comandamento dell’amore verrà compiuto in noi. L’amore della verità è anche la verità dell’amore, cioè la la verità che ci ama, o, meglio ancora, Dio stesso che ci ama in verità. Perché abbiamo creduto all’amore di Dio (1Giovanni 4:16), i suoi comandamenti oggi, in Cristo, non sono più gravosi (1Giovanni 5:3). Quello che sul monte Oreb in Sinai è stato ordinato al popolo di Israele, oggi noi come discepoli di Gesù impariamo a desiderarlo con tutto il cuore, al punto di chiederlo in preghiera, perché Dio stesso lo faccia in noi, e attraverso di noi.

In questo commento ai dieci comandamenti torneremo perciò a più riprese su questo passaggio dalla Legge al Regno di Dio, perché è in vista del regno del Mashiach che è stata data la Legge ed è così che vogliamo intendere oggi le dieci parole, come un’esortazione a cercare il regno di Dio con tutto il nostro cuore.

Infatti, se nell’antico patto la partecipazione richiesta al piano di Dio era quella dell’obbedienza ai suoi ordini, nel nuovo ci viene chiesto di impegnarci attivamente perché il regno dei cieli venga sulla terra. Non sono ammesse fiacchezza, pigrizia o nostalgia (“nessuno che abbia messo la mano all’aratro e poi volga lo sguardo indietro è adatto per il regno di Dio”, Luca 9:62). “La legge e i profeti hanno durato fino a Giovanni [che altrove è descritto come il più grande dei profeti, cf. Matteo, 13:11], da quel tempo è annunciata la buona notizia del regno di Dio, e ciascuno vi entra a forza.” (Luca, 16:16). A forza, cioè con forza: perché nel Regno possiamo entrare solo se lo desideriamo con tutte le nostre forze.

Ma se insisteremo sul passaggio da una legge data inizialmente come un ordine esteriore a una legge ricevuta nel cuore e compresa come una propria personale necessità non è certo per leggere il secondo patto come una correzione del primo, ma per mostrare piuttosto come anche il primo sia stato stabilito in vista del secondo e ne contenga perciò tutta la profondità e il valore.

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