
Esodo, 20:7 Non pronunciare il nome del SIGNORE, Dio tuo, invano; perché il SIGNORE non riterrà innocente chi pronuncia il suo nome invano.
La preghiera insegnata da Gesù ai suoi discepoli (Matteo 6:9-13 e Luca 11:2-4) comincia con la richiesta che il nome del Padre sia santificato. Questa richiesta in qualche modo riassume tutte e tre le prime parole del Decalogo che abbiamo letto fin qui.
Abbiamo già parlato (e ci torneremo ancora) di come i Dieci comandamenti vengano ripresi dalla preghiera che chiamiamo il Padre nostro, perché, come abbiamo visto, questa trasformazione esprime molto bene il senso del compimento (o perfezione, in greco i due termini si equivalgono) della Legge da parte di Gesù. Secondo quanto promesso nel passo del profeta Geremia che abbiamo gia citato (“ma questo è il patto che farò con la casa d’Israele, dopo quei giorni, dice il SIGNORE: io metterò la mia legge nell’intimo loro, la scriverò sul loro cuore, e io sarò loro Dio, ed essi saranno mio popolo”, Geremia, 31:33), la Legge è stata scritta nei nostri cuori e, da Cristo in poi, siamo noi stessi che chiediamo a Dio che sia adempiuto ciò che, prima, attraverso Mosè, Israele aveva ricevuto l’ordine di fare.
Torniamo ora al comandamento di non profanare il nome del SIGNORE.
Il nome è la parte del discorso che aggancia il verbo a un soggetto o a un oggetto, qualcosa di più o meno stabile e complesso che viene comunque considerato nella sua permanenza. I nomi comuni si riferiscono a una classe di persone o di cose che normalmente comprendono innumerevoli individui. I nomi propri servono invece a riferirisi a un singolo individuo (anche se possono essere molto comuni, perché il contesto normalmente aiuta a superare l’ambiguità generata dall’omonimia). Quando Mosè scrive “Ascolta, Israele: Il SIGNORE, il nostro Dio, è l’unico SIGNORE” (Deuteronomia 6:4), intende certamente anche sottolineare l’unicità del soggetto a cui si riferisce il nome del SIGNORE.
Ma si riferisce anche all’unità di questo soggetto, cioè alla sua personalità, alla sua coscienza.
Come abbiamo già visto (esaminando la prima delle dieci parole), il fatto di essere eterno non toglie personalità al SIGNORE. È anzi proprio la sua eternità che rende il SIGNORE quello che è: incapace di menzogna e infedeltà, di azioni inutili e di parole oziose. Ogni re ha una sua precisa personalità, anche se non può permettersi di indulgere nei suoi personali capricci, anzi la sua personalità è tanto più forte quanto meno si lascia influenzare da ciò che è passeggero e ininfluente. “I re hanno orrore di fare il male, perché il trono è reso stabile con la giustizia” (Proverbi, 16:12). Il re è re proprio perché non può dire o fare stupidaggini, perché ogni sua parola e ogni sua azione deve essere pesata in vista del governo di un intero popolo. La regalità di un comportamento si misura in base alla sua stabilità e coerenza, al fatto cioè che rimanga lo stesso nel tempo. L’eternità è la prerogativa del comportamento dell’unico vero SIGNORE. Colui che in Apocalisse è per questo chiamato “il Signore dei signori e il Re dei re” (Apocalisse, 17:14).
D’altra parte, il termine ebraico per “unico” utilizzato in Deuteronomio 6:4 (‘echad) deriva da una radice che ha anche il senso di “insieme”. L’identità di Dio corrisponde anche al fatto che in lui e solo in lui tutte le cose sono raccolte e collegate, perché Dio e solo Dio conosce tutte le schiere in cui si articola l’intero Universo, visibile e invisibile. Tutte insieme e una per una. Anche noi il SIGNORE ci conosce uno a uno per nome, e per questo a volte lo consideriamo alla nostra stessa stregua. Ma lui, a differenza di alcuni di noi (e del nemico che ci spia e che raccoglie informazioni sulle nostre vite), non solo conosce i nostri nomi e tutto quello che abbiamo detto e fatto nella nostra vita (conosce perfino i capelli del nostro capo, com’è scritto in Matteo 10:30), ma anche i nostri pensieri, le nostre emozioni e i nostri sentimenti. Davide ha scritto “La conoscenza che hai di me è meravigliosa, troppo alta perché io possa arrivarci” (Salmi 139:6).
Anche il nome del SIGNORE è meraviglioso, come ha detto l’angelo ai genitori di Sansone (Giudici, 13:18). La parola ebraica usata sia nel salmo 139 sia nel racconto dell’annunciazione di Sansone è pil’iy (פִּלְאִי), e deriva da una radice che ha il senso di qualcosa che non possiamo comprendere. Mentre ciò che è profano è comune in qualche modo scontato, ciò che è santo ha una natura nuova, che supera le nostre attuali capacità di conoscere e capire. Le cose sante di Dio sono “le cose che occhio non vide, e che orecchio non udì, e che mai salirono nel cuore dell’uomo” (1Corinzi, 2:9), cose totalmente nuove, che non possiamo riportare alla nostra realtà. “Infatti i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie, dice il SIGNORE. Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così sono le mie vie più alte delle vostre vie, e i miei pensieri più alti dei vostri pensieri.” (Isaia, 55:8)
Il nome di Colui che è e che governa tutte le schiere (YHWH tzevaoth) è tre volte santo (Isaia, 6:3; Apocalisse, 4:8). Il comandamento di non pronunciare il nome del SIGNORE invano esprime la responsabilità che comporta il fatto di conoscere questo nome. In realtà “pronunciare” è una traduzione piuttosto libera del verbo ebraico usato nel testo originale, che significa primariamente “sollevare, portare”: letteralmente l’espressione andrebbe tradotta come sollevare a vanità. O anche come portare per niente. Poco più avanti, sempre in Esodo, lo stesso verbo è usato a proposito dei nomi dei patriarchi di Israele incisi sulle pietre che il sommo sacerdote portava sulle spalline dell’efod. “Aaronne porterà i loro nomi davanti al SIGNORE sulle sue due spalle, come memoriale” (Esodo, 28:12).
Ciò che rendiamo con pronunciare invano può quindi essere tradotto anche con portare invano. Cosa che facciamo inevitabilmente con il nome del SIGNORE quando non ci rendiamo conto di quale altissima autorità vi sia collegata e viviamo la nostra vita come chi non lo conosce e si lascia condizionare dalle cose che durano solo un momento. Conoscere il nome del SIGNORE dà quindi all’uomo anche un’altissima responsabilità. “A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto; e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà” (Luca 12:48).
Tantomeno possiamo usare il nome del SIGNORE per i nostri scopi quando questi non sono in vista della verità. “Non giurerete il falso, usando il mio nome; perché profanereste il nome del vostro Dio. Io sono il SIGNORE” (Levitico, 19:12).
Nella Legge di Mosè il giuramento è quindi comunque previsto come strumento legale per dirimere una possibile contesa (cf. anche per es. Esodo, 22:10-11). Ma solo come una concessione a una natura carnale ancora tutta da educare. Le richieste di santità che Gesù pone ai suoi discepoli, rispetto a quelle poste attraverso Mosè, sono infatti più avanzate nell’astenersi dall’usare il nome del SIGNORE: “… fu detto agli antichi: Non giurare il falso; dà al Signore quello che gli hai promesso con giuramento. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran Re. Non giurare neppure per il tuo capo, poiché tu non puoi far diventare un solo capello bianco o nero. Ma il vostro parlare sia: “Sì, sì; no, no”; poiché il di più viene dal maligno.” (Matteo, 5:33-37). Il maligno vuole usare la verità per i suoi scopi, e noi non siamo diversi da lui quando la usiamo per manipolare la volontà altrui. Per questo anche Giacomo ci dice la stessa cosa: “Soprattutto, fratelli miei, non giurate né per il cielo, né per la terra, né con altro giuramento; ma il vostro sì, sia sì, e il vostro no, sia no, affinché non cadiate sotto il giudizio” (Giacomo, 5:12)
Viceversa, lo scrupolo di non pronunciare fisicamente il nome del SIGNORE, maturato nell’ebraismo soprattutto in epoca post-biblica, ha portato all’attuale ignoranza sulla sua originaria vocalizzazione. In origine, le Scritture ebraiche erano totalmente senza vocali (oltre che senza interpunzioni). Il testo attuale con i puntini e i segni diacritici che ne guidano la lettura è stato definito vari secoli dopo la venuta di Cristo. In questo testo (che è quello da cui partono anche le traduzioni cristiane) il nome del SIGNORE è stato arbitrariamente vocalizzato come YeHoWaH יְהֹוָה. Non però per essere letto in questo modo, come alcuni hanno erroneamente creduto e insegnato, ma per ricordare le vocali del nome che si legge in sua sostituzione Adonay אֲדֹנָי). Tutt’oggi gli ebrei, anche i non ortodossi, stanno ben attenti a vocalizzare il tetragramma YHWH, in qualsiasi maniera questo possa essere vocalizzato e usano espressioni come HaShem (“Il Nome”) o appunto ‘Adonay (“miei Signori”).
Ma il senso di questo terzo comandamento, come abbiamo visto, va oltre il divieto di usare invano il nome del SIGNORE, soprattutto in imprecazioni o in illegittimi giuramenti (e, per noi cristiani, come abbiamo visto, nemmeno in giuramenti “legittimi”). Si riferisce piuttosto a tutta la nostra condotta di vita, in parole e in opere, se e quando ci dichiariamo credenti. Come parte del popolo di Dio, diventiamo infatti portatori del suo nome; affinché, attraverso di noi, altri possano conoscere Dio e la sua gloria, secondo l’esortazione positiva di Cristo: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli” (Matteo, 5:16). Stando bene attenti che non accada invece che il nome di Dio sia per caso bestemmiato per causa nostra tra i non credenti (Romani, 2:24-25). Ricordandoci che siamo chiamati a essere “una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa” un popolo che Dio si è acquistato, perché fossero proclamate le virtù di Colui che ci ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa (1Pietro, 2:9).
Dobbiamo quindi fare attenzione non solo a non pronunciare alla leggera il nome del SIGNORE, ma a non comportarci in generale in modo leggero, ingiusto o anche soltanto sciatto, perché il Signore Gesù ci ha avvisato che nel giorno del giudizio gli uomini dovranno rendere conto di ogni parola oziosa che avranno detta (Matteo, 12:36).
“Il solido fondamento di Dio rimane fermo, portando questo sigillo: Il Signore conosce quelli che son suoi, e: ritraggasi dall’iniquità chiunque nomina il nome del Signore.” (2Timoteo 2:19)
Dio è luce e in lui non ci sono tenebre (1Giovanni 1:5). Nella sua divina luce (che non si limita solo a quella che possiamo vedere con i nostri occhi) ogni cosa è meravigliosamente collegata a tutte le altre, senza soluzione di continuità. Questa infinita rete di eventi copre lo spazio e il tempo di tutto l’universo. La parola di Dio è pronunciata a partire da questa eterna e completa conoscenza.
C’è solo un modo in cui tutte le cose possono stare assieme. I filosofi parlavano di infiniti mondi possibili e oggi i fisici teorici parlano di un fantomatico Pluriverso, ma altri scienziati hanno anche osservato che in realtà, nel nostro Universo, le cose non potrebbero essere diverse da quelle che sono, almeno non se tra queste cose vogliamo mettere la vita di noi uomini che ci stiamo affacciando al cosmo. Parlano infatti di un universo finemente regolato, in cui ogni costante e ogni rapporto non potrebbero essere diversi da quello che sono.
La parola di Dio è santa perché deve governare in eterno, e non può indulgere in nessun errore o falsità. “Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta” (Giovanni, 1:3). È la parola (davar, logos) che determina come tutte le cose sono collegate tra di loro, su tutte le scale (le particelle negli atomi, gli atomi nelle molecole, le molecole nelle cellule, sù sù fino alle stelle nelle galassie e alle galassie nelle gerarchie di ammassi di galassie dell’universo). “Poiché la parola del SIGNORE è retta e tutta l’opera sua è fatta con fedeltà” (Salmi, 33:4).
Tale deve tendere ad essere anche la nostra parola e la nostra condotta. “Siate santi, perché io, il SIGNORE vostro Dio, sono santo” (Levitico, 19:2). Questo lo possiamo fare solo presentando umilmente a Dio il nostro cuore, come lui stesso ci chiede (Proverbi, 23:26). Non rassegnandoci a seguire i nostri pensieri e i nostri sentimenti come se fossero l’ultima frontiera della verità, ma affidandoli piuttosto a Dio, possiamo avviarci anche noi a toccare la sua santità. “Il cuore del re, nella mano del SIGNORE, è come un corso d’acqua; egli lo dirige dovunque gli piace” (Proverbi, 21:1). Questa realtà spirituale di comunione con Dio corrisponde a quel regno e quella giustizia che Gesù ha detto di cercare prima di ogni altra cosa (Matteo, 6:33), desiderando cioè innansitutto di essere guidati non dai nostri desideri carnali ma dal desiderio dello Spirito di Dio che è vita e pace (Romani, 8:6). Perché dal cuore, cioè dall’uomo interno, procedono le nostre azioni e le nostre parole (Proverbi, 4:23; Luca 6:45).
Gesù ci ha fatto conoscere il nome del Padre (Giovanni, 17:6), facendoci capire quanto sia grande l’amore che lo ha mandato a morire per noi, perché lo temessimo del giusto timore (“Se tieni conto delle colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma presso di te è il perdono, perché tu sia temuto”, Salmi, 130:4) e comprendessimo quanto ci convenga imparare da lui (Matteo, 11:29) ed essere trasformati nel nostro cuore, in modo da non desiderare più che sia fatta la nostra, ma piuttosto la Sua “buona, gradita e perfetta volontà” (Romani, 12:2).