
E fu sera e fu mattina, un giorno (Genesi, 1:5)
Anche prima che ci fossero il Sole e la Luna (creati solo il quarto giono; Genesi, 1:16), le tenebre e la luce si alternavano già come un cosmico respiro. Alle tenebre che coprivano la faccia dell’abisso (Genesi, 1:2), per ordine divino era succeduta la luce (Genesi, 1:3), ma poi fu sera e poi mattina: un giorno (il testo ebraico dice yom echad: si potrebbe anche tradurre: “un solo giorno”).
Giorno è anche il nome della luce (Genesi, 1:5). Perché la luce è un’onda e l’onda è in sè stessa un ciclo: ha un principio e una fine, una mattina e una sera. Mentre le tenebre sono statiche, la luce è movimento e vita, tensione.
La stessa Luce del mondo dichiara che “la notte viene, in cui nessuno può operare” (Giovanni, 9:4-5). Poi spunterà l’aurora (Isaia, 62:1; Osea, 6:3; Luca, 1:78). La notte fa parte del giorno, che ne emerge come un ritmico sforzo.
La luce splende nelle tenebre (Giovanni, 1:5)
Noi possiamo vedere perché c’è luce. Eppure, se non ci fossero corpi impenetrabili alla luce noi non vedremmo niente. Anche noi, in realtà, siamo dei corpi difficilmente penetrabili. Questa nostra natura, come la luce visibile che studiano i fisici, è intimamente condizionata dalle tenebre (cioè dalle masse). Noi vediamo posizioni. La luce è un’onda e noi vediamo grazie alle onde, ma quello che vediamo sono solo posizioni. “La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno compresa” (Giovanni, 1:5). Non riusciamo a vedere le onde. Tantomeno riusciamo a ricordarle. Anzi, per ricordare usiamo le immagini e le posizioni nello spazio. Una luce veramente pura non ce la possiamo rappresentare. Così accade in questa prima creazione.
“Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine e secondo la nostra somiglianza” (Genesi, 1:26). Per immagine il testo usa la parola tzelem, che significa soprattutto “ombra”. Anche la parola usata per somiglianza – demuth – fa pensare a qualcosa di statico, perché ha una radice molto vicina a quella della parola che significa silenzio.
La notte non sarà più (Apocalisse, 21:25)
Tutto sarà completamente diverso nella nuova creazione (palingenesìa). Le tenebre, le masse impenetrabili, non ci saranno più. Anche l’oro sarà trasparente (Apocalisse, 21:21). Per coloro che vivranno nella nuova Gerusalemme, “non ci sarà più notte; non avranno bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché li illuminerà il Signore Dio” (Apocalisse, 22:5), “il solo che possiede l’immortalità e che abita una luce inaccessibile; che nessun uomo ha visto né può vedere” (1Timoteo, 6:16), “il Padre degli astri luminosi presso il quale non c’è variazione, né ombra di rivolgimento” (Giacomo, 1:17). Perché “Dio è luce e in lui non ci sono tenebre” (1Giovanni, 1:5).
Il giorno della sua resurrezione, Gesù si accostò a due suoi discepoli che camminavano sulla via di Emmaus e camminò con loro, parlando delle promesse di Dio e anche sgridandoli per la loro incredulità, senza che questi discepoli potessero però riconoscerlo. “Quando si furono avvicinati al villaggio dove andavano, egli fece come se volesse proseguire. Essi lo trattennero, dicendo: Rimani con noi, perché si fa sera e il giorno sta per finire. Ed egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede loro. Allora i loro occhi furono aperti e lo riconobbero; ma egli scomparve alla loro vista. Ed essi dissero l’uno all’altro: Non sentivamo ardere il cuore dentro di noi mentr’egli ci parlava per la via e ci spiegava le Scritture? E, alzatisi in quello stesso momento, tornarono a Gerusalemme” (Luca, 24:28-32). La notte che prima li preoccupava tanto, ora non aveva più alcuna importanza. Riuscirono anzi a raggiungere gli altri discepoli riuniti a Gerusalemme prima che Gesù apparisse ancora, questa volta a porte chiuse, per farsi riconoscere e far loro sapere che era davvero risorto (Luca, 24:36-43; Giovanni, 20:19-20).
Immagine dell’Iddio invisibile (Colossesi, 1:15)
Non possiamo farci un’immagine di questa realtà futura (o, meglio: eterna; in ebraico il furturo e l’imperfetto sono lo stesso tempo). Come non riusciamo a farci un’immagine della luce e dell’amore. Possiamo però riceverne la vera immagine dalla parola di Dio: Cristo Gesù. “Nessuno ha mai visto Dio; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere” (Giovanni, 1:18). Gesù, dalla luce inaccessibile che è presso Dio, è venuto a vivere in questa luce che è anche tenebre, perché anche noi potessimo sapere che c’è una luce che non abbiamo mai visto, “perché il Dio che disse: “Splenda la luce fra le tenebre”, è quello che risplendette nei nostri cuori per far brillare la luce della conoscenza della gloria di Dio che rifulge nel volto di Gesù Cristo” (2Corinzi, 4:6).
E disse Dio: sia la luce e la luce fu (Genesi, 1:3)
La luce è perfetta obbedienza e fedeltà: una vibrazione che si propaga identica a sé stessa indefinitamente nello spazio e nel tempo. La luce è venuta nelle tenebre e, anche se le tenebre non l’hanno ricevuta (Giovanni, 1:5), la sua venuta non è stata senza effetto. “Il popolo che stava nelle tenebre, ha visto una gran luce; su quelli che erano nella contrada e nell’ombra della morte una luce si è levata” (Matteo, 4:16).
Su diverse scale di tempo e di spazio, tutto è vibrazione: lo zero assoluto, l’assoluta immobilità, semplicemente non esiste. Un’incalcolabile quantità di energia fa vibrare tutto il creato. Vibrano, seppure in modo differente, tutte le particelle che compongono la materia più o meno densa o rarefatta. Quelle che veicolano l’energia che chiamiamo luce sono vibrazione pura e molto ordinata. All’altro estremo, le particelle dotate di massa più che dalla loro caotica vibrazione, sono caratterizzate dalla posizione nello spazio-tempo; ma non per questo se ne stanno del tutto tranquille. Così, analogamente, vibra anche ogni atomo di materia, avendo in sé elementi di luce e di tenebre. E così è anche delle sostanze, più o meno individuate. Per la loro fluidità hanno un comportamento ondoso, per la loro fissità, un baricentro che ne determina la posizione rispetto ad altri gravi. Ma tutto, in qualche rispetto, è in movimento.
Ogni cosa che respira (khol ha-neshamah) lodi il Signore (Salmi, 150:6)
Tra un’estremo e l’altro, tra il corpo minerale e la luce immateriale, si dispiega il regno delle creature viventi che repirano. Ogni cellula respira. Respirano anche i microbi. Per non parlare delle piante, la cui respirazione segue come un’altalena il ciclo del giorno e della notte. Anche la respirazione degli animali ha i suoi cicli e i suoi cicli di cicli: passano da un respiro quasi impercettibile nei momenti di quiete a un parossistico ansimare, quando corrono, si spaventano, si eccitano, danno alla luce, o tirano le cuoia. Il corpo degli animali è tutto un ciclo: un equilibrio di equilibri, un respiro di respiri. Le nostre cellule hanno un ciclo, a sua volta composto di diverse fasi e di numerose contrazioni, a seconda del tipo di cellule e a cominciare da quelle nervose, che imparano ad eccitarsi e a inibirsi in gruppo, muovendo la danza di tutto l’organismo, dalla contrazione-rilassamento della muscolatura liscia e di quella striata, ai vari cicli del sistema endocrino che ritmano l’alternarsi delle nostre emozioni, del sonno e della veglia, dell’eccitazione e della noia. Pulsare è il verbo stesso della vita. “Un soffio di soffi, tutto quanto è un soffio” (Ecclesiaste, 1:2). Una grande, sferica orchestra.
La vita è la luce degli uomini (Giovanni, 1:4)
La luce ci è stata data dal Signore come respiro di vita. All’inizio, “il Signore formò l’uomo dalla polvere della terra e gli soffiò nelle narici un respiro di vita (neshamah chayim) e l’uomo divenne un essere vivente” (Genesi, 2:7). Non si tratta della luce esteriore. Come dice Davide al Signore, “le tenebre stesse non possono nasconderti nulla e la notte per te è chiara come il giorno; le tenebre e la luce ti sono uguali” (Salmi, 139:12). “Poiché in te è la fonte della vita e per la tua luce noi vediamo la luce” (Salmi 36:9). Si tratta della luce che possiamo vedere anche ad occhi chiusi, la luce che ci rende coscienti.
“Lume del Signore è il respiro dell’uomo (neshamah ‘adam), che scruta tutti i recessi dell’intimo” (Proverbi, 20:27). Una coscienza naturale che è solo un’ombra della coscienza che riceviamo da Dio in Cristo. “Così anche sta scritto: Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente; l’ultimo Adamo è spirito vivificante” (1Corinzi, 15:45). Gesù, dopo la sua resurrezione, alla fine del suo servizio in Terra, come anticipo della vita futura, soffiò sui discepoli e disse “ricevete lo Spirito Santo” (Giovanni 20:22).
In principio era il verbo (Giovanni, 1:1)
All’inizio della Bibbia, è scritto: “In principio creò Iddio i cieli e la terra” (Genesi, 1:1). Prima il verbo, poi i nomi. In principio era il verbo (Giovanni, 1:1). Il verbo (logos) è il rapporto tra i nomi. Anche i nomi possono essere più o meno verbali e riferirsi a realtà più o meno raffigurabili. Come anche le forme, d’altro canto, possono essere più o meno anonime e discrete. Ci sono forme che fanno da sfondo e forme che si distaccano di più, attraendo il nostro sguardo. Così anche la creazione comincia con la luce, poi vengono il mare e la terra ferma, poi le piante, poi gli astri, poi gli animali, infine l’uomo che non solo ha un nome tutto per sé, ma ha anche ricevuto la capacità di dare un nome alle altre creature, in particolare proprio agli animali (Genesi, 2:19): un crescendo di individuazione che comincia con il cielo e continua con i luoghi, la vegetazione, gli animali, gli uomini. I cieli si trasformano secondo regolarità astronomiche che danno luogo a variazioni ed eventi atmosferici, solitamente espressi da verbi impersonali e da nomi comuni (solo rarissimamente questi eventi acquistano dei nomi propri, come nel caso delle tempeste o di altre anomalie meteorologiche). Anche i luoghi normalmente ricevono il loro nome dal nome dei loro primi abitanti (Salmi, 49:11) e solo in casi eccezionali dalle anomalie gravitazionali che li costituiscono (massicci montuosi e profonde valli) o dai fiumi che li attraversano. I fiumi hanno già una loro individualità. Come i mari, hanno un bacino; hanno delle sorgenti, anche se non sempre molto ben definite, e una foce, o una confluenza. Conminciano a formare delle frasi con un soggetto e con dei verbi, come nascere e finire, che, per quanto intransitivi, fanno già pensare ad una storia. Analogamente, le piante hanno solitamente delle radici ed una cima (ma anche qui, come con i fiumi, non sempre è immediatamente chiaro dove finisce il terreno e dove inizia la pianta, o dove finisce una pianta e dove ne comincia un’altra) ma solo abbastanza raramente raggiungono una vera individualità. Anche il loro movimento assomiglia ancora molto a quello del cielo, perché è tipicamente un movimento di “campo”: gli alberi difatti “battono le mani” (Isaia, 55:12) tutti assieme. Invece gli animali per cercare il cibo non si spostano solo in gruppo (anche se a volte è sorprendente vedere come i banchi di pesce, gli stormi di uccelli e anche i branchi di erbivori si comportino come un unico animale) e addirittura lo inseguono o gli fanno l’agguato. Cominciano comunque i verbi transitivi e, con questi, le storie e anche i drammi e le tensioni.
E si accorsero di essere nudi (Genesi, 3:7)
Lo spazio mentale dell’uomo si comincia a popolare di punti singolari che attraggono la sua attenzione proprio per l’intervento di uno di questi animali in agguato (il più astuto: il serpente; Genesi, 3:1), che insinua in Adamo un dubbio riguardo alla parola di Dio (Genesi, 3:4-5), allo scopo di rendere anche lui cosciente dei suoi desideri e della sua astuzia (“nudo” e “astuto” nel testo originale di Genesi 2:25 e 3:1 sono scritti con le stesse lettere; anche in Genesi 3:7 la parola usata è sostanzialmente la stessa). Il serpente convince Eva a desiderare il frutto dell’unico albero proibito (l’unico, assieme all’albero della vita, ad avere un nome e una posizione ben definiti, al centro del giardino).
Una creatura, l’albero della conoscenza, appare più desiderabile del suo Creatore. Un’altra, il serpente, più veritiera di Dio. Dei nomi appaiono più importanti del verbo. Da qui comincia il peccato. Prima la concupiscenza attrae e seduce, “poi la concupiscenza, quando ha concepito, partorisce il peccato; e il peccato, quando è compiuto, produce la morte” (Giacomo, 1:15). Difatti, “la donna vide che l’albero era buono per nutrirsi, che era bello da vedere e che l’albero era desiderabile per acquistare conoscenza; prese del frutto, ne mangiò e ne diede anche a suo marito, che era con lei, ed egli ne mangiò” (Genesi, 3:6). Da quel momento entrano nel creato la vergogna e la morte e sotto la minaccia della morte tutta la creazione geme fino ad ora (Romani, 8:22).
Mentre abitiamo nel corpo siamo assenti dal Signore (2Corinzi, 5:6)
Lo sforzo di sopravvivere sottende ogni cosa e orienta la vita di tutti gli organismi verso ciò che considerano un vantaggio per la sopravvivenza (la propria, quella della propria famiglia, o quella della loro specie) e lontano da ciò che la minaccia. In vari gradi e misure, dal regno vegetale a quello animale, e, nel regno animale, dai comportamenti più gregari e mansueti a quelli più solitari e aggressivi. Fino al comportamento degli uomini “potenti e famosi”. La paura, che negli animali è un evento momentaneo, nell’uomo diventa una condizione stabile. Se nessuno li libera, gli uomini sono tenuti schiavi dalla paura della morte per tutta la vita (Ebrei, 2:15). D’altra parte, per le loro coscienza e riflessività sociale (la coscienza dell’altrui coscienza), gli uomini moltiplicano questo sforzo di sopravvivenza anche oltre il necessario, sfruttando il bisogno dell’uno per il proprio accumulo. Perché il desiderio di ciò che appare come un vantaggio può diventare anche una specie di ossessione.
Il denaro, rappresentando la possibilità di soddisfare ogni desiderio (o di risolvere ogni problema), esercita una fortissima attrazione sull’uomo (per questo, nel breve elenco di Efesini 5:3-5, l’avarizia è messa assieme all’idolatria e alla fornicazione). Perché la sola vista delle cose che secondo noi potrebbero permetterci di soddisfare il nostro desiderio, se immaginiamo di poterne godere, innesca l’anticipazione di questo soddisfacimento, producendo una specie di illusorio piacere.
Non fatevi altri dei accanto a me (Esodo, 20:23)
“Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla faccia della terra e furono loro nate delle figlie, avvenne che i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e presero per mogli quelle che si scelsero fra tutte (…) In quel tempo c’erano sulla terra i giganti, e ci furono anche in seguito, quando i figli di Dio si unirono alle figlie degli uomini, ed ebbero da loro dei figli. Questi sono gli uomini potenti che, fin dai tempi antichi, sono stati famosi. Il SIGNORE vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore formava soltanto disegni malvagi in ogni tempo” (Genesi, 6:4-5; anche nel testo originale, il verbo utilizzato nell’ultima frase – yatzer – significa proprio “formare” e “disegnare”).
Il desiderio porta difatti a sognare e a immaginare. Delle volte, per stimolare l’immaginazione, si producono e utilizzano anche delle immagini vere e proprie. Lo scopo è sempre lo stesso: anticipare la realtà che la visione delle cose anticipate ci fa anticipare L’immagine si presenta come un surrogato della realtà e delle volte per la nostra mente non fa molta differenza. La vista di un buon cibo stimola l’appetito (come successe ad Esaù con il piatto di lenticchie che gli costò la primogenitura; Genesi, 25:29-34). La vista della nudità stimola il desiderio sessuale (come successe a Davide con Betsabea al bagno; 2Samuele, 11:2). Il significato di un fatto è il fatto che gli segue in una serie ordinaria. E questo significato si trasferisce anche sul piano della raffigurazione. Fin dall’età della pietra, gli uomini disegnano o scolpiscono gli animali e le figure umane dei loro desideri, conferendo loro un valore più o meno magico e anticipatorio, comunque senza dubbio un valore emotivo e la capacità di eccitare la loro immaginazione. Ne ricevono, forse, anche l’impressione di possedere la cosa raffigurata, di detenerne se non altro la memoria. Queste figure aiutano senz’altro a fissare il corrispettivo visuale dei nomi che affollano la mente degli uomini, facendoli sentire sempre più ricchi e potenti.
Padre, sia santificato il tuo Nome (Luca, 11:2)
Ripetendo ed esplicitando i comandamenti ricevuti sul monte, Mosè dice al popolo di Israele “Siccome non vedeste nessuna figura il giorno che il SIGNORE vi parlò in Oreb dal fuoco, badate bene a voi stessi, affinché non vi corrompiate e non vi facciate qualche scultura, la rappresentazione di qualche idolo, la figura di un uomo o di una donna, la figura di uno degli animali della terra, la figura di un uccello che vola nei cieli, la figura di una bestia che striscia sul suolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra; e anche affinché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto l’esercito celeste, tu non ti senta attratto a prostrarti davanti a quelle cose e a offrire loro un culto, perché quelle sono le cose che il SIGNORE, il tuo Dio, ha lasciato per tutti i popoli che sono sotto tutti i cieli. Quanto a voi il SIGNORE vi ha presi, vi ha fatti uscire dalla fornace di ferro, dall’Egitto, per farvi diventare il popolo che gli appartiene, come oggi difatti siete. (Deuteronomio, 4:15-20). Dio stesso difatti aveva detto “Io sono il SIGNORE, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avere altri dèi oltre a me. Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il SIGNORE, il tuo Dio, sono un Dio geloso” (Esodo, 20:2-5).
L’uomo è incline a farsi delle immagini e a prostrarsi di fronte alla comprensione di quello che riesce a comprendere: posizioni reciproche, griglie di punti, mappe, immagini, le cose che riesce a vedere e che prendono una forma stabile ai suoi occhi, le cose a cui può dare un nome e che pensa così di poter manipolare. Ma non è questa la via che Dio ha preparato per la nostra salvezza.
Se le ricchezze abbondano, si distacchi da esse il vostro cuore (Salmi, 62:10)
Il desiderio degli occhi è anche un desiderio di controllo e di possesso. Vedere dall’alto significa anche dominare. E, viceversa, il dominio sugli altri dà anche l’illusione di diventare un punto speciale, “acquistando visibilità”. Il desiderio di potere degli uomini si esprime così anche con il progetto di diventare un punto di riferimento, per osservare gli altri ed essere conosciuti come coloro che possono osservare. Dopo il diluvio, gli uomini che discendevano da Noè “dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo; acquistiamoci un nome, affinché non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra”” (Genesi, 11:4). Riunirsi in una città (un partito, un’associazione) e acquistarsi un nome sembra diventare una garanzia di sopravvivenza, una via per l’eternità. Ma quando i discepoli discutevano su chi tra di loro fosse il più grande, Gesù li rimproverò dicendo “I re delle nazioni le signoreggiano, e quelli che le sottomettono al loro dominio sono chiamati benefattori. Ma per voi non dev’essere così; anzi il più grande tra di voi sia come il più piccolo, e chi governa come colui che serve” (Luca, 22:25-26).
Per il mondo, il valore di una persona sta in ciò che uno possiede o può dimostrare di aver fatto. Da qui l’affanno a pubblicare e l’interesse a essere conosciuti, a farsi un nome. Per essere rispettati, ascoltati, stipendiati. È come se il nome diventasse per sé stesso garanzia del bene futuro. Ma il nome in sé non è garanzia di nulla. Soprattutto non lo è il nome che viene dagli uomini che giudicano dall’apparenza e che valutano secondo l’opinione degli altri. L’albero si riconosce dal frutto e non viceversa (Matteo, 7:16-18 e 12:33).
Voi non potete servire Dio e Mammona (Matteo, 6:24, Luca, 16:13)
Non è dall’accrescersi del nostro peso nel mondo, dal nostro credito o dalla nostra gloria (il latino gloria traduce una parola ebraica, khabod, che significa anche “peso” e una parola greca, doxa, che significa letteralmente “credito”) che viene la nostra vita e la nostra capacità di fare o di godere il bene. “State attenti e guardatevi da ogni avidità; perché non è dall’abbondanza dei beni che uno ha, che egli ha la sua vita. E disse loro questa parabola: La campagna di un uomo ricco fruttò abbondantemente; egli ragionava così, fra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: Questo farò: demolirò i miei granai, ne costruirò altri più grandi, vi raccoglierò tutto il mio grano e i miei beni, e dirò all’anima mia: Anima, tu hai molti beni ammassati per molti anni; ripòsati, mangia, bevi, divèrtiti. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa l’anima tua ti sarà ridomandata; e quello che hai preparato, di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé e non è ricco in vista di Dio” (Luca, 12:15-21).
L’insieme dei nomi delle cose o delle persone che appartengono a un certo nome proprio di persona (quello che si potrebbe chiamare il suo capitale) viene chiamato da Gesù con un termine che, nel folclore, è diventato il nome di un personaggio diabolico: Mammona (una parola aramaica che significava “gruzzolo”, “roba” e che sia Matteo che Luca non hanno tradotta in greco, ma solo traslitterata). Se vogliamo diventare famosi e attirare gli sguardi su di noi, seguiremo automaticamente le leggi di questa diabolica ossessione, agiremo in vista di noi stessi e perderemo tutto (Giovanni, 12:25; Matteo, 12:30). Se viceversa agiamo in vista del regno di Dio (che non viene in modo da attirare gli sguardi: Luca, 17:20), possiamo dire, come Paolo, “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Galati, 2:20): Cristo Gesù, cioè colui che “pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò sé stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò sé stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre” (Filippesi, 2:6-11).
Cantategli un cantico nuovo, sonate bene e con gioia (Salmi, 33:3)
Se certe azioni (come quella di produrre un’immagine) risultano sostanzialmente nell’evocazione di un oggetto, esistono d’altra parte anche azioni che rimangono quasi senza un nome. Azioni per così dire pure, il cui significato non sta normalmente fuori dell’azione stessa (in un oggetto rappresentato o in una sensazione immaginata), ma resta sullo stesso piano in cui si svolge l’azione, riprendendo e facendo anticipare ciò che è appena successo o sta immediatamente per succedere. Come le azioni della musica, della danza o del gioco. Il valore e il significato delle azioni di chi fa musica (o danza, o gioca) sta difatti principalmente nell’armonizzare tutte le parti del corpo (o dello strumento musicale) in una serie coerente e simmetrica nel tempo. Un ciclo, un giro. Certamente, ci sono tanti tipi di danze, di musiche e di giochi. Come i disegni possono rappresentare figure più meno realistiche (o viceversa decorative, addirittura sfondi e immagini astratte), anche le musiche possono marcare in qualche misura l’individualità del momento, della persona e dell’azione. Ma rimane che in generale la musica tende a non fare nomi e ad esprimere fondamentalmente solo verbi, riprendendo il ritmo del respiro, il susseguirsi delle onde. Di onde ordinate, peraltro, è essenzialmente fatto ogni suono.
Anche le parole e i discorsi sono fatti di suoni e di alternanze di suoni (vocali e consonanti, parole e pause tra parola e parola, discorsi e silenzi). La poesia e il canto seguono chiaramente una metrica e un ritmo musicale che ha un suo respiro che si manifesta su differenti scale temporali.
Le parole però sono suoni speciali che, grazie a un certo sistema di scelte, ricevono anche un significato esterno al piano sul quale si manifestano. I versi degli animali, per esempio, tra le prime parole che pronuncia il bambino, possono essere usati anche per richiamare alla memoria il ricordo di chi li emette. Verbi che diventano nomi.
A differenza della musica, la parola può indicare dei concetti (nomi comuni), o addirittura degli individui esistenti nello spazio tempo circostante o remoto (nomi propri e pronomi). E può associarvi dei verbi, delle azioni cioè che definiscono e modificano il rapporto tra i nomi (indicando, secondo una certa logica narrativa, quello che ci possiamo aspettare che gli oggetti in questione possano fare o subire). Così che, con le sue parole, colui che parla o che canta non solo esprime le sue proprie qualità poetiche e musicali, ma anche quelle di colui di cui parla o di cui canta. Certi fatti o azioni vanno assieme a certi altri, altri ne sono esclusi. Così le parole, come la musica, creano delle aspettative, che però, a differenza della musica, hanno molto a che vedere anche con l’esperienza quotidiana di ciò che ci vediamo accadere intorno. Le storie raccontano le onde della vita e ce le fanno seguire. Per questo, forse, ci emozionano anche più della musica.
Ma lo scopo della parola, in principio, non era quello di farci evadere o sognare. Ma di istruirci, piuttosto, e farci crescere. Lo scopo della parola di Dio non è quello di comporre una bella canzone che non può essere messa in pratica (Ezechiele, 33:32). Al contrario, è proprio scritto che “questa parola (…) è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica” (Deteronomio, 30:14). La parola di Dio si rivolge a noi direttamente, dicendo: “Ho voluto istruirti oggi, sì, proprio te, perché la tua fiducia sia posta nel SIGNORE” (Proverbi, 22:19).
In nessun altro è la salvezza (Atti, 4:12)
L’espressione Il SIGNORE usata in questa come nelle precedenti citazioni traduce lo stesso Nome di Dio, il cui significato, secondo la rivelazione ricevuta da Mosè quando Il SIGNORE gli apparve la prima volta sul monte Oreb, corrisponde a una speciale forma del verbo essere (Esodo, 3:15).
Dio ci parla per darci fede in Lui. Perché non guardiamo all’apparenza, come fece Eva (Genesi, 3:6). Perché non guardiamo al vento, come fece Pietro quando stava per affogare cercando di camminare sul Mare di Galilea (Matteo 14:30). Perché non ci spaventiamo dei “su e giù” della vita, come fecero i discepoli nella tempesta (Matteo, 8:24-27). Come con le onde, nella vita ci sono momenti che si sale e momenti che si scende, ma non conviene farci gran caso. Conviene piuttosto fare attenzione a Colui che sta facendo tutte le cose. “Alzo gli occhi verso i monti… Da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene da (e con) Colui che è, che fa il cielo e la terra” (Salmi, 121:1-2). “Infatti, ogni carne è come l’erba, e ogni sua gloria come il fiore dell’erba. L’erba diventa secca e il fiore cade; ma la parola del Signore rimane in eterno. E questa è la parola che vi è stata annunziata.” (1Pietro, 1:24-25 che cita Isaia, 40:6-7).
I nomi dati e presi dagli uomini restano sempre confinati a un certo passato e a un certo altrove. Per quanto geniali e universali possano essere stati coloro che li hanno portati o che li portano, sono anche morti, o lo saranno. Anche dei credenti, quello che rimarrà sarà solo la parola di Dio in cui hanno creduto. Il loro nome non sarà più. Perché c’è un solo nome che è “stato dato agli uomini, per mezzo del quale bisogna che siamo salvati”: il nome di Gesù (Atti, 4:12), la parola vivente di Dio.
Il nome di Gesù è stato dato da Dio al frutto del grembo di colei che credette alla parola che Dio le aveva rivolta per mezzo dell’angelo Gabriele e che per questo è stata fecondata dallo Spirito Santo, lo Spirito della verità. Lo stesso angelo Gabriele parlò poi anche a Giuseppe, dicendo “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua moglie; perché ciò che in lei è generato, viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”. (Matteo, 1:20-21). Gesù – in ebraico, Yeshua’ – significa difatti: “Colui che è salva”. Colui che è, il Santo Nome, che era già il verbo dei verbi, con cui Dio si era rivelato a Mosè come l’eterno Io sono, si qualifica in Cristo come il soggetto di un’azione perfetta: il salvare. Un’azione che spetta soltanto a Lui (Salmi, 3:8; Apocalisse, 7:10).
Io ho fatto loro conoscere il tuo nome (Giovanni, 17:26)
Il nostro amore va e viene. Solo l’amore di Dio è una luce che non tramonta mai. Per conoscere questo amore bisogna ascoltare la parola di Dio, perché per riceverlo bisogna innanzitutto credergli. E “la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo.” (Romani, 10:17). Ascoltare, però, non basta. La fede senza le opere è morta, come è morto il corpo senza lo spirito (Giacomo, 2:17 e 26). Le opere che ravvivano la fede, d’altra parte, non sono certo le opere della legge (come l’osservanza delle 613 mizvoth enumerate da Maimonide, o quella delle poche regole della congregazione cristiana a cui si appartiene). “Infatti, in Cristo Gesù non ha valore né la circoncisione né l’incirconcisione; quello che vale è la fede che opera per mezzo dell’amore” (Galati, 5:6). Senza amore, nulla ha valore. Nemmeno distribuire tutti i propri beni ai poveri conta qualcosa, se non è fatto per amore (1Corinzi, 13:3).
Amare è la nostra prima e unica vera necessità. Se non amiamo il nostro prossimo, rimaniamo nella morte (1Giovanni, 3:14). E solo lo Spirito di Dio ci può insegnare ad amare, rivelandoci la parola di Dio: Gesù. Lo Spirito Santo è dovunque e con ciascuno che lo chiama vicino a sé. Uno dei suoi nomi difatti – spesso tradotto con Consolatore – è proprio Parakletos, che, letteralmente, significa: “Colui che può essere chiamato al proprio fianco”. Per questo è morto Gesù, perché il suo Spirito potesse venire mandato in aiuto a tutti quelli che lo cercano (Giovanni, 16:7).
Non si tratta di una storia tra le altre, ma della nostra personale esperienza, del nostro fallimento e della nostra salvezza. Se davvero riconosciamo che siamo effettivamente perduti, che non ci possiamo salvare da noi stessi, e che Colui che ci salva è solo il Signore.
Il Nome del Signore non è un nome tra gli altri, ma il Nome di Colui che ci conosce fin da prima che nascessimo (Salmi, 139:13-17) e che per salvarci ha dato tutto sé stesso.
Gesù ha detto: “Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita per riprenderla poi. Nessuno me la toglie, ma io la depongo da me. Ho il potere di deporla e ho il potere di riprenderla. Quest’ordine ho ricevuto dal Padre mio” (Giovanni, 10:17-18). Non c’è amore più grande di quello di chi dà la sua vita per gli amici (Giovanni, 15:13). Questo è l’amore che non può morire. Mentre ogni altro amore morirà.
Ecco, io sto alla porta e busso (Apocalisse, 3:20)
Puoi essere diventato cristiano già molti anni fa, o non avere invece mai sentito parlare della salvezza in Cristo Gesù. Puoi essere un predicatore, o un poco di buono (o anche entrambe le cose); un fariseo interessato solo all’apparenza, o una donna innamorata dell’amore; un ricco, o un povero; un re, o uno schiavo; un filosofo, o uno sperimentale; un medico, o un biotecnologo. Non fa molta differenza. Hai comunque bisogno di essere completamente rinnovato per entrare nella salvezza di Dio. Davanti al Signore, “ogni valle sarà colmata e ogni monte e ogni colle sarà spianato; le vie tortuose saranno fatte diritte e quelle accidentate saranno appianate” (Luca, 3:5, che riprende Isaia, 40:4). L’unica cosa che importa, l’unica differenza è accettarlo o non accettarlo, ora.
“Se uno ode la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui e lui con me” (Apocalisse, 3:20). “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori” (Ebrei, 3:15).
Lascia perdere tutti i nomi che ti sei fatto (a cominciare dal tuo) e che stancano la tua mente di giorno e di notte. C’è un riposo di sabato che consite nel confidare nell’opera compiuta da Dio, che ha riposato dopo averla compiuta (Genesi, 2:2; Ebrei, 4:3-7). La conclusione di quest’opera è l’espiazione per i nostri peccati fatta sulla croce; dove Gesù, dopo aver bevuto l’aceto e prima di rendere lo spirito, ha detto “è compiuto” (Giovanni, 19:30). Se credi alla verità di quella parola detta dal Giusto in punto di morte, per te inizia un nuovo “Oggi” (Ebrei, 4:7). Un giorno eterno di riposo in cui entri perché non credi più alle tue opere o a quelle degli altri uomini, ma solo e innanzitutto nell’opera del Verbo (logos) per opera del quale sono state fatte tutte le cose che sono state fatte (Giovanni, 1:3).
Apri la porta e invitalo ad entrare (Salmi, 24:7).
“Colui che è farà risplendere su di te il suo volto e ti farà grazia. Colui che è innalzerà il suo volto su di te e ti darà pace” (Numeri, 6:25-26).