Amicizia fraterna. Seconda parte

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Dio, se ci forma attraverso i nemici e le difficoltà che ci fa incontrare (in ebraico, “nemico”, “difficoltà” e “formare” si esprimono con parole che hanno in effetti radici molto vicine: rispettivamente,  tzar צַר , tzarah צָרָה e yatzar יָצַר), attraverso la dolcezza degli amici ci ricrea e parla positivamente al nostro cuore. Certamente non solo per approvarci, ma sempre per darci qualcosa che subito (o quasi subito) riconosciamo come un bene. Perché dagli amici, di solito, ci sentiamo compresi e anche amati.

Nell’amico riconosciamo le profondità del nostro cuore. Ascoltandolo e parlando con lui, i nostri stessi pensieri e sentimenti ci diventano più chiari. Perché “come il viso si riflette nell’acqua, così il cuore dell’uomo [‘adam אָדָם, cioè “l’essere umano, maschio e femmina”] si riflette nell’uomo.” (Proverbi, 27:19).

Con gli amici condividiamo i nostri interessi, che a volte non sono che un pretesto per parlare assieme sapendo di essere reciprocamente ascoltati e, di base, apprezzati. Anche solo per stare assieme, gli amici al bar o in salotto parlano di di cinema, di macchine, di sport, di politica, o di letteratura… ; in altri contesti comunitari si parla delle Sacre Scritture, di libri spirituali, o di altre esperienze. A tu per tu, si parla più spesso dei rapporti con gli altri, dei propri problemi, delle proprie riflessioni o delle conclusioni a cui è arrivati meditando sul senso della vita, e si cerca di definire assieme una comune identità. Un “noi” in cui riconoscersi, come coppia, come famiglia, come chiesa, come gruppo di amici.

L’amicizia però è ancora sempre imperfetta. Come di fatto lo sono il matrimonio, la famiglia, e anche la chiesa (la società lo è per definizione). Innanzitutto perché, persino in chiesa, è decisamente molto raro che si faccia veramente a gara ad onorarsi l’un l’altro (come abbiamo letto che Paolo esorta a fare, in Romani 12:10). Più o meno consciamente, è sempre presente una certa componente di vanagloria, di interesse personale, e quindi anche di sfruttamento e di manipolazione degli altri, anche di quelli che consideriamo amici, e che ci considerano tali.

Già fin all’inizio della storia dell’uomo – con la cacciata dal giardino dell’Eden – tra i due componenti del primo nucleo familiare ce n’era uno che comandava e uno che era comandato. Il primo a comandare è stato l’uomo. Alla donna infatti il SIGNORE aveva detto che i suoi desideri sarebbero stati rivolti verso il marito e che lui avrebbe dominato su di lei (Genesi, 3:16). Poi quando, nei secoli e millenni successivi, i desideri dell’uomo si sono rivolti verso la donna, questa non si è sempre lasciata sfuggire l’occasione di sfruttare la debolezza maschile per dominare a sua volta sull’uomo. Tant’è che, almeno in italiano, donna – a differenza dell’ebraico ‘ishah אִשָּׁה – non deriva dalla parola che significa “uomo” (cioè ‘ish אִישׁ), ma dal verbo latino che significa “dominare”.

Così, sebbene Dio abbia chiaramente detto che nel matrimonio marito e moglie diventano una sola carne (Genesi, 2:24; Matteo, 19:5-6), e pur essendo una dottrina largamente condivisa che nella chiesa i credenti sono tutti membra di un solo corpo (Romani, 12:4-5), sia tra gli sposi che tra i membri della chiesa non prevale sempre il desiderio e la gioia di donarsi per il bene comune, e ancora di meno questo avviene in un gruppo di amici: c’è comunque sempre una certa separazione, un calcolo che facciamo, magari giustificandoci con il desiderio che ci sia equilibrio tra dare e ricevere, stando ad ogni modo molto attenti a che nessuno si approfitti dell’altro. Perché, in  particolare dalle nostre parti, abbiamo molta paura che gli altri ci sfruttino, o anche, più giustamente, che pensino di essere sfruttati. Evidentemente, il valore dell’amicizia non è così chiaramente condiviso come valore in sé.

Ma, grazie a Dio, questo non lo troviamo sempre giusto, o normale. Consoliamoci così, ricordando che la cosa importante non è tanto la quantità assoluta del bene che auspichiamo, quanto piuttosto in che direzione – più o meno lentamente – va il nostro cambiamento, cioè qual è il nostro modello, cioè, in questo caso, quanto grande è il nostro desiderio di vera amicizia. Perché, grazie a Dio, le Scritture ci hanno sempre dato un efficace buon esempio.

Un esempio che non è solo un esempio, ma anche e soprattutto la fonte di nuove energie per una radicale trasformazione del nostro intimo e di conseguenza anche dei rapporti che intratteniamo con familiari, amici e membri della chiesa.

Il SIGNORE per amico

Uno dei salmi più famosi e più amati tra quelli scritti da Davide comincia con la doppia affermazione “Il SIGNORE è il mio pastore: nulla mi manca.” (Salmi, 23:1). Abbiamo già visto, nella prima parte di questa meditazione, che in ebraico le parole che significano “pastore” (raa’h רָעָה) e “amico” (rea’ רֵעַ) hanno radici molto vicine. Questo salmo parla di un rapporto speciale, con un pastore/amico che non ci fa mancare nulla. Qualcuno che ci guida attraverso luoghi di riposo, che non ci forza e non ci manipola, ma al contrario fa abbondare in noi la sua vita perché in lui è la sorgente della vita, e, anche se possiamo essere poveri di ricchezze materiali, in lui abbiamo tutto quello che esiste (2Corinzi 6:10).

Il terzo verso infatti dice: “Egli mi ristora l’anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.” Non si tratta di un nome qualsiasi, ma del Nome di “Colui che fa esistere”, che è un possibile significato del tetragramma che compone il santo nome proprio di Dio (che traduciamo come SIGNORE, o come l’Eterno, e che è certamente connesso con il verbo essere). L’apostolo Giovanni nell’Apocalisse traduce lo stesso nome con la locuzione Colui che era, che è e che viene (Apocalisse 1:4, 1:8 e 4:8). E all’inizio del suo Vangelo, riferendosi al SIGNORE come alla parola di Dio, scrive che “ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta” (Giovanni, 1:3).

Se ci ricordiamo di chi è il SIGNORE e vogliamo conoscerlo meglio, cioè più intimamente, troviamo una vera ragione per vivere, e comprendiamo che tutte le cose cooperano per il nostro bene, che appunto il bene non è più quello che abbiamo deciso o possiamo ritenere noi, ma quello predestinato da Dio per noi, di conoscere cioè Colui che ci ha preconosciuti (Romani, 8:28-29).

In aggiunta, ci vengono date anche le cose di cui Dio sa che abbiamo bisogno e che noi non cerchiamo più con affanno (Matteo, 6:33-34). Appunto perché abbiamo creduto che, avendo il SIGNORE come nostro amico, non ci manca più nulla.

Il Salmo 23 continua dichiarando: “Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte, io non temerei alcun male, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono la mia consolazione.” (Salmi, 23:4). Un altro salmo di Davide dice “Dio è per noi un rifugio e una forza, un aiuto sempre pronto nelle difficoltà.” (Salmi, 46:1). In un altro ancora, Davide esclama “il mio aiuto viene da Colui che ha fatto il cielo e la terra.” (Salmi, 121:2).

Il buon pastore va in cerca delle sue pecore, non le abbandona a se stesse. Non le tiene sempre chiuse nell’ovile, e le lascia anche libere di vagare e magari di perdersi, ma poi le va a cercare e comunque non si dimentica di loro (Luca, 15:4). Come il buon padre della parabola, che lascia partire il suo figlio quando lui glielo chiede, ma poi non solo lo aspetta ma gli corre anche incontro quando decide di tornare (Luca, 15:20).

Il pastore guida le sue pecore con la sua verga e le protegge con il suo bastone, a rischio della sua stessa vita. Davide, discutendo da giovane con il re Saul a proposito di Goliat, ha raccontato come proteggeva le sue pecore al suo re perplesso davanti alla sua decisione di sfidare il gigante. “Il tuo servo pascolava il gregge di suo padre e talvolta veniva un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge. Allora gli correvo dietro, lo colpivo, gli strappavo dalle fauci la preda; e se quello mi si rivoltava contro, lo afferravo per le mascelle, lo ferivo e l’ammazzavo.” (1Samuele, 17:34-35).

Gesù ha detto la stessa cosa di se stesso, riferendosi però non più a degli ovini, ma a noi suoi discepoli: “Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore. Il mercenario, che non è pastore, a cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà alla fuga (e il lupo le rapisce e disperde), perché è mercenario e non si cura delle pecore. Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono me” (Giovanni, 10:11-14).

L’invito a conoscere personalmente il SIGNORE è contenuto anche in un altro famoso salmo di Davide: “Il mio cuore mi dice da parte tua: Cercate il mio volto! Io cerco il tuo volto, o SIGNORE. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo; tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza! Qualora mio padre e mia madre m’abbandonino, il SIGNORE mi raccoglierà.” (Salmi, 27:8-10).

Quando desideriamo più di ogni altra cosa conoscere il volto e la voce del nostro pastore ed essere conosciuti da lui come sue pecore, allora da Gesù – che oltre a essere il nostro buon pastore è anche l’agnello immolato – riceviamo il vero riposo, e impariamo la mansuetudine e l’umiltà di cuore che ci rendono amici di Dio (Matteo, 11:28-30).

Il Figlio dell’uomo

Nonostante il suo amore e la sua cura per l’umanità, e in particolare per il popolo di Israele, il SIGNORE è stato ripetutamente trascurato e tradito, soprattutto proprio dal popolo che si era scelto (una delle prove dell’autenticità della Bibbia è che il popolo che l’ha scritta e conservata è quello che vi riceve i più tremendi rimproveri).

Ma l’inimicizia dell’uomo verso Dio è iniziata molto prima che si formasse il popolo di Israele, cioè già da quando, ancora in Eden, noi uomini, nella persona di Adamo, abbiamo cominciato a non credergli, imboccando così la via di un giudizio autonomo; quando cioè abbiamo creduto che ci fossero cose buone anche senza, o addirittura contro di lui.

Gli uomini non sono molto cambiati neanche dopo che il diluvio ha spazzato via tutte le famiglie della terra tranne quella di Noè (distruzione che, come scrive Pietro 3:21, è una chiara figura del battesimo; difatti, anche dopo esserci battezzati da adulti, continuiamo per molti versi a ignorare l’onnipotenza di Dio e a vivere stoltamente, come se fossimo noi i padroni delle nostre vite).

L’uomo deve ancora – e continuamente – imparare a non scegliere secondo quello che sembra giusto a lui, ma secondo quello che gli dice il SIGNORE; a fare cioè come ha fatto Abraamo quando ha accettato di sacrificargli il figlio che amava e che aveva avuto in vecchiaia (Genesi, 22).  Occorre imparare a farlo perché la voce della nostra natura è sempre molto forte e non ci è per niente facile sapere cosa ci sta dicendo il SIGNORE, momento per momento (perché i comandi del SIGNORE possono anche cambiare nel tempo, come per esempio è successo proprio nel caso del sacrificio di Isacco, che prima doveva essere ucciso e poi, improvvisamente, risparmiato). La via per affina re il nostro udito spirituale e predisporre il nostro cuore all’ubbidienza è stata aperta dalla crocifissione di Gesù, prefigurata dalla “legatura” di Isacco sullo stesso monte che doveva diventare il Calvario.

Perché l’umanità (in ebraico bney ha-adam בְּנֵי הָאָדָֽם “i figli dell’uomo”) potesse riguadagnare l’amicizia con Colui che ci ha creato a sua immagine e somiglianza, era necessario un atto completamente simmetrico alla disubbidienza del primo Adamo. Questo compito non poteva essere affidato che alla stessa “immagine del Dio invisibile” (Colossesi, 1:15), la vivente parola di Dio che è stata mandata a farsi carne nello stesso seme di Abraamo, per diventare il prezzo del riscatto che doveva essere pagato per tutti noi.

Nell’agonia dell’ultima preghiera prima dell’arresto, Gesù ha dimostrato che stava accettando di percorrere una via completamente opposta a quella che gli indicava la sua umana conoscenza del bene e del male, e che si sarebbe lasciato crocifiggere (e immergere nel peccato degli uomini che gli avrebbe dato la morte) solo per ubbidienza alla volontà del Padre: “Padre mio, se è possibile, passi oltre da me questo calice! Ma pure, non come voglio io, ma come tu vuoi.” (Matteo, 26:42).

L’esempio che ci ha dato Gesù è efficace per noi solo se lo seguiamo davvero, nutrendocene. Aveva infatti detto che la carne e il sangue che avrebbe dato per noi sono il nostro vero cibo e la nostra vera bevanda, cioè le sostanze che soddisfano realmente il nostro bisogno essenziale, di amare e di essere amati (Giovanni, 4:13-17; Giovanni, 6:26-55). Nutrendoci di questo cibo, impariamo a stare con lui e riceviamo così il suo carattere (Giovanni, 6:56-57; Giovanni, 15:5), il frutto dello Spirito (“amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo” Galati,5:21) di cui abbiamo bisogno per vivere con gli altri come amici.

Ci cibiamo e ci dissetiamo di Cristo quando crediamo che il suo sacrificio è avvenuto davvero, e che era assolutamente necessario per coprire i peccati che abbiamo commesso e che ci impediscono di avere un vero rapporto con Dio (Isaia, 59:2). Rendiamo efficace questo sacrificio quando decidiamo di seguire il suo esempio e ascoltare le sue parole, che ci invitano a prendere ogni giorno la nostra croce, cioè a confermare ogni giorno la nostra decisione di non cercare che sia fatta la nostra volontà ma solo quella di Dio, sapendo che quest’ultima è  migliore per noi, anche se al momento ci può apparire addirittura inaccettabile.

Come ha scritto anche Paolo: “… l’amore di Cristo ci costringe, perché siamo giunti a questa conclusione: che uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono;  e ch’egli morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro.” (2Corinzi, 5:14-15).

Venendo soddisfatti in Dio i nostri bisogni (affettivi, oltre che materiali), anche i  rapporti tra noi uomini possono lasciare la via dello sfruttamento e prendere quella dell’amicizia.

Sapendo di essere stati perdonati attraverso un così grande atto di amore (“nessuno ha amore più grande di quello di dare la sua vita per i suoi amici.” Giovanni, 15:13), acquisteremo anche la pazienza necessaria per amare e rispettare il nostro prossimo, tanto quanto desideriamo che gli altri amino e rispettino noi. E amare i nostri fratelli anche più di quanto amiamo noi stessi, diventando capaci di servirli come ci ha servito il Figlio dell’uomo, che “non è venuto per essere servito ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti” (Matteo, 20:28).

Inoltre, avendo il SIGNORE come amico, non vorremo più dipendere da nessun altro, né che gli altri dipendano da noi. Non  faremo diventare le persone amate degli idoli per noi, né vorremmo diventare noi idoli per loro.

Tutto ciò avviene progressivamente, man mano che la natura di Cristo si sviluppa e matura in noi e man mano che noi lasciamo che venga demolita la nostra vecchia natura.

Figli di Dio

Il Salmo 27, citato poco fa, inizia dicendo: “Il SIGNORE è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò?”. In ebraico c’è una connessione abbastanza stretta tra le radici che significano “luce”, “insegnamento” e “genitore” e in effetti credere alla parola di Dio significa uscire dalle tenebre e dalla nostra solitudine venire alla “sua meravigliosa luce” (1Pietro, 2:9). “La luce della conoscenza della gloria di Dio che rifulge nel volto di Gesù Cristo” (2Corinzi, 4:6): la conoscenza che Dio ha di noi e che desidera che anche noi abbiamo di lui.

“Perché chiunque fa cose malvagie odia la luce e non viene alla luce, affinché le sue opere non siano scoperte; ma chi mette in opera la verità viene alla luce, affinché le sue opere siano manifestate, perché sono fatte in Dio.” (Giovanni, 3:20-21).

Chi ci fa venire a questa luce divina è appunto Dio. Per chi crede alla sua parola, oltre a essere un pastore e un amico, Dio diventa cioè anche un padre. Perché, quando crediamo alla parola di Dio come alla verità, entriamo in contatto con Colui che parla dal cielo, cioè dall’eternità, e che si rivolge all’eternità. Diventiamo suoi figli, cioè parte dell’eternità.

Gesù nella sua preghiera assieme ai discepoli ha infatti detto: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.” (Giovanni, 17:3).

Se già in qualche passo degli scritti dell’Antico Testamento il nostro Dio viene chiamato “padre” (per es.: Isaia, 9:6 e 63:16), nel Nuovo Testamento Padre nostro che sei nei cieli è il nome con cui Gesù ci ha insegnato a rivolgergli le nostre preghiere. Perché è scritto esplicitamente che chi crede alla parola di Dio acquista il diritto (il termine usato nel testo greco è exousìa ἐξουσία e significa più propriamente “autorità”) di diventare figlio di Dio (Giovanni 1:12).

Credendo che Dio ha generato la sua eterna parola incarnata in Cristo Gesù (che ha potuto dire ai farisei che si vantavano di essere figli di Abramo, “prima che Abraamo fosse, io sono” Giovanni, 8:58), diventiamo quindi anche noi figli di Dio. A quelli che credono in Gesù Dio ha infatti dato lo Spirito Santo, per agire non più guidati dal nostro naturale egoismo, ma seguendo lo Spirito della verità (“infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio.” Romani, 8:14).

Come abbiamo già detto, il passaggio da creature di Dio a figli suoi non è un processo immediato. Analogamente alla nascita naturale, questa nascita spirituale avviene attraverso varie fasi che possono richiedere anche molto più tempo di quelle che, dal concepimento, portano alla nascita e allo sviluppo di un organismo naturale.

La nuova nascita è una nascita “dall’alto”, come si può anche intendere l’espressione usata dal vangelo di Giovanni per riportare le parole che Gesù ha detto a Nicodemo (ànōthen ἄνωθεν, l’avverbio usato in Giovanni 3:7, significa sia “dall’alto” che “di nuovo”). Richiede una partecipazione attiva da parte nostra, senza la quale Dio non può (né vuole) fare niente, ma neanche noi possiamo fare niente da soli, e, di fatto, se non fosse per l’opera dello Spirito Santo, non ci renderemmo affatto conto della necessità del sacrificio di Cristo per i nostri peccati e del bisogno che abbiamo di seguire il suo esempio per cercare il regno e la giustizia di Dio.

D’altra parte, se non fosse per l’opera di Dio prima e attorno a noi, non ci sarebbe nessuna realtà in cui entrare dopo avere lasciato la nostra. Perché sulla via della salvezza non si può camminare da soli. Al contrario, nascendo dall’alto, siamo invitati a fare parte del popolo che Dio si è formato attraverso i secoli della storia dell’uomo, e ad amare questo popolo e le sue testimonianze e rivelazioni. Come aveva già scritto Davide: “Quanto ai santi che sono sulla terra, essi sono la gente onorata in cui ripongo tutto il mio affetto.” (Salmi, 16:3). Il popolo che ha scritto la Bibbia e che ne ha tratto ispirazione per molte generazioni.

Questa è la famiglia di Cristo, secondo le stesse parole di Gesù, quando sono venuti a dirgli che lo cercavano sua madre e i suoi fratelli: “Chi è mia madre, e chi sono i miei fratelli? – E, stendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Poiché chiunque avrà fatto la volontà del Padre mio, che è nei cieli, mi è fratello e sorella e madre.” (Matteo, 12:48-50).

Fratelli in Cristo

Credendo a Dio, diventiamo quindi fratelli di Cristo e di tutti i suoi discepoli, tutti figli dello stesso Padre. Entriamo così in una nuova famiglia, quella che Paolo chiama “la famiglia di Dio” (Efesini, 2:19).

Per quanto formata di uomini, questa famiglia non è un’organizzazione umana, formata cioè da uomini. Infatti, come abbiamo già detto con altre parole, si nasce da Dio non per volontà dell’uomo, ma per volontà di Dio (Giovanni 1:13). E non accade come con la nascita naturale che avviene più o meno quando e dove lo hanno deciso (o almeno accettato) i nostri genitori, ma avviene quando e dove rispondiamo positivamente alla chiamata di Dio. È Dio che prende l’iniziativa: a noi sta di rispondere, ma il quando e il dove li decide il SIGNORE. Ravvederci e convertirci sono azioni che Dio ci esorta a fare noi, ma che noi non possiamo fare senza di lui.

A noi sta di riconoscere la bontà di Dio, ma è questa bontà che ci porta a ravvedimento (Romani, 2:4). È Dio stesso, cioè, che ci guida a cambiare la nostra idea su noi stessi, e su di lui. Questo in effetti è il primo senso della parola greca che traduciamo con ravvedimento: cioè metànoia μετάνοια, “cambio di mente”. Se prima pensavamo di essere fondamentalmente buoni, tanto da poter nutrire qualche ragionevole dubbio sulla bontà di Dio, dopo (e solo dopo) aver capito che Dio ha dovuto mandare a morire per noi il suo unigenito e diletto figlio, il nostro modo di pensare è cambiato radicalmente.

Per questo, da Dio, normalmente, si nasce che si è già adulti, almeno non più bambini piccoli. E ci si si ritrova a fare parte di un gruppo di credenti altrettanto adulti, che non solo non ci siamo scelti ma che, per lo più, non abbiamo neanche avuto il tempo di conoscere.

Come accade con la nascita naturale, si “nasce di nuovo” in una famiglia (cioè in una comunità) e normalmente si trovano o si ricevono dei fratelli e delle sorelle con cui possiamo capirci e andare d’accordo, ma anche no. Anche perché, a differenza di quanto normalmente accade nella vita naturale, la famiglia spirituale in cui si viene a nascere è però composta di persone che possono essere di cultura, età, razza e condizione sociale molto diverse. Bisogna riuscire a concentrarsi sulle cose veramente importanti, e non sempre ci si riesce subito.

Come ogni padre, Dio desidera che il suo amore per la sua famiglia sia anche il sentimento che lega tra loro i suoi figli. Purtroppo però, come abbiamo già detto e ripetuto, essere fratelli non significa automaticamente che si vada d’accordo. Neanche nella famiglia di Dio.

Infatti già nella prima chiesa (poche settimane dopo la discesa dello Spirito Santo avvenuta il giorno della prima festa di Pentecoste dopo la Pasqua del Signore Gesù), è presto nato un dissapore tra i discepoli, causato proprio dalle differenze di ceto e di cultura tra quelli che si erano convertiti a Cristo tra i giudei e quegli ebrei, detti “ellenisti”, che venivano da fuori della terra di Israele. Una distanza che tardavano ad essere colmata dall’amore. Infatti il problema era che le “loro vedove erano trascurate nell’assistenza quotidiana.” (Atti, 6:2).

Quel problema fu risolto istituendo un servizio affidato a uomini ripieni di Spirito che si occupassero delle mense (sono tuttora chiamati diaconi, da una parola greca che significa appunto “servo”). Cosa che ci mostra che, nella chiesa, i veri problemi non sono quelli delle differenze socio-culturali che ci possono essere tra persone provenienti da paesi molto lontani, o quelli delle differenze di valutazione e di comportamento che possono prodursi tra persone di etnie anche molto vicine (anzi normalmente più sono vicine le culture, maggiori sono le cause di attrito).  Questi problemi possono costituire delle difficoltà nello sviluppo dell’amicizia fraterna (come certamente accade quando non si parla la stessa lingua), ma si possono risolvere con l’amore, che è innanzitutto paziente e disinteressato, ed è attento ai bisogni dell’amato.

Il vero problema si pone quando non abbiamo a disposizione questo amore disinteressato per chi è diverso da noi, per chi cioè non fa parte della nostra casa, della nostra famiglia, o della nostra vita. Quando cioè l’interesse per noi stessi e per il nostro nome prevale al punto che non riusciamo ad attingere dall’amore di Dio.

Il vero problema, in altri termini, è quello della nostra identità, perché si stenta a dimenticarsi di se stessi e a ricordarsi di Cristo, che ha detto testualmente “se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua.” (Matteo, 16:24).

La croce, piuttosto che come la via che ci è stata indicata per imparare qualcosa di infinitamente più prezioso di tutto ciò che possiamo lasciare, proprio a causa del nostro attaccamento a noi stessi e alle cose che sono in qualche modo collegate al nostro nome, ci appare per lo più come un obbligo che preferiamo dimenticare.

Così, purtroppo, come scrive anche Paolo, molti, anche nella chiesa, vivono come “nemici della croce” (Filippesi, 3:18). E, ancora più lamentabilmente, questa profonda e spesso inconfessata avversione per la croce si trova anche in quelli che dovrebbero dare l’esempio e che invece occupano i primi posti in chiesa proprio perché, più che per la gloria di Dio, si affaticano per il proprio nome, o per quello della propria denominazione.

Di fatto, le chiese non si dividono solo per ragioni buone, come fanno le cellule degli organismi viventi, cioè per la naturale crescita ed espansione della testimonianza del regno di Dio, ma anche per disaccordi e a volte futili discussioni interne alle comunità. E spesso vengono costruite differenze dottrinali che sono soltanto un pretesto per separarsi da coloro con cui non si sta bene a causa di tutt’altre ragioni.

La cosa importante, per ciascuno di noi, è continuare a credere in Dio e anche in Cristo, cioè non in un Dio impersonale, ma in quel Dio che ci ha fatto conoscere Gesù. È importante, cioè, che, nonostante tutto quello che vediamo nel mondo (e anche tra i nostri fratelli che, come noi, vivono in questo mondo, e che, come noi, non sono totalmente insensibili ai suoi insegnamenti e alle sue lusinghe) non smettiamo di credere che Dio sa ogni cosa, ci conosce personalmente e, se permette che ci avvenga qualcosa di male o di doloroso, ha le sue buone ragioni per farlo e i suoi strumenti per tirarcene fuori. Ma noi non dobbiamo mai rinunciare alla nostra nuova vita con Dio, e neanche a quella con i nostri fratelli nella fede, evitando di incontrarli per evitare problemi (come alcuni hanno preso l’abitudine di fare, Ebrei, 10:25). Non è bene che l’uomo stia da solo (Genesi, 2:18), perché Dio ha ordinato che la benedizione sia dove i fratelli stanno assieme in unità (Salmi, 133:1-3), in quanto è lì che ha promesso di essere sempre presente (Matteo, 18:20)

Nome nuovo, amici nuovi

Nascendo dall’alto, riceviamo una nuova identità. Non si tratta di un’identità fittizia che ci viene appiccicata a caso, ma piuttosto di un nome “cifrato” che dobbiamo ricercare attivamente, continuamente e appassionatamente. Un premio che ci sarà dato “in chiaro” soltanto alla fine (“A chi vince io darò della manna nascosta e una pietruzza bianca, sulla quale è scritto un nome nuovo che nessuno conosce, se non colui che lo riceve.” Apocalisse, 2:17).

A differenza del nome che portiamo oggi, e che riassume tutto il nostro passato, il nuovo nome esprimerà un’identità futura. E già oggi, la nuova creatura che siamo diventati con la conversione non guarda più indietro, ma avanti. Non ha nostalgia per le cose che sono passate, né compie azioni per potersene vantare, o per riceverne dei meriti davanti agli uomini, ma è ricca in vista di Dio (Luca, 12:21).

“Ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo. Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose [cioè il fatto di essere stato circonciso l’ottavo giorno, di essere israelita della tribù di Beniamino, ebreo figlio d’Ebrei; fariseo, irreprensibile riguardo alla legge] come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte, per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti. Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato; ma una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la mèta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù.”(Filippesi 3:7-14)

Infatti, come Paolo scrive anche altrove, la cosa importante non è se siamo ebrei o se non lo siamo: “perché, tanto la circoncisione che l’incirconcisione non sono nulla; quello che importa è l’essere una nuova creatura.” (Galati 6:15). La cosa importante, cioè, è che sia stata rinnovata la nostra mente, e di conseguenza anche la nostra vita.

E questa nuova creatura è nuova proprio perché, a differenza della vecchia, non è più attaccata alla propria identità. “Sono stato crocifisso con Cristo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me! La vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me.” (Galati, 2:20).

Ma il regno di Dio in noi non ci spersonalizza, come farebbe la dittatura di un uomo o di una ideologia politica. Perché è il regno di Colui che ha creato tutte le colorate creature dell’Universo e anche ciascuno di noi, che ci conosce tutti con le nostre differenze e che, se ci chiede di lasciare la nostra natura vecchia, lo fa per sostituire all’immagine che ci siamo fatti di noi stessi qualche speciale aspetto dell’infinitamente varia natura di Cristo.

Ed è in vista di un più profondo rapporto con Cristo che possiamo volentieri lasciare la nostra vita passata e il nostro speciale interesse per quello che riguarda noi stessi piuttosto che gli altri. In questo senso vanno anche le esortazioni di Paolo, che fa appello alla comunione con Cristo per incoraggiare i fratelli a non pensare più in termini di interessi egoistici: “Se dunque v’è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d’amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri.” (Filippesi, 2:1-4).

Nati di nuovo in Cristo, ci possiamo concentrare sul nostro futuro e sulla nostra destinazione, piuttosto che sulle nostre provenienze e sul nostro passato. Sull’aiutare il prossimo, piuttosto che sul modo per attirare la sua attenzione ed esserne aiutati. Sul dare piuttosto che sul ricevere.

Restiamo comunque ciascuno caratterizzato dalla nostra storia. Ed è anche giusto che non la dimentichiamo e che onoriamo i nostri genitori e li amiamo, assieme ai nostri coniugi, ai nostri amici, ai nostri familiari e ai nostri connazionali. Paolo, in questa direzione, arriva a dire: “perché io stesso vorrei essere anatema, separato da Cristo, per amore dei miei fratelli, miei parenti secondo la carne” (Romani, 9:3). Ma questo certamente non per indifferenza verso Gesù, ma anzi proprio per lo stesso sentimento, di cui Paolo parla in quel capitolo della lettera ai Filippesi, che ha portato Cristo a lasciare il cielo e a venire a morire come un peccatore sulla croce per noi.

L’amore per i nostri cari non ci deve cioè portare al punto di dimenticare coloro che ancora non appartengono alla nostra storia, perché, facendo così, dimenticheremmo Cristo e il vero senso della nostra vita (“Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me.” Matteo, 10:37).

E difatti Paolo, rifiutato e perseguitato dai capi dei giudei, non si è ritirato a vita privata ma ha rivolto il suo messaggio ai non ebrei, portandone molti a entrare nella famiglia di Dio.

Così ogni nazionalismo è bandito dal regno di Dio. Difatti Paolo conclude il discorso sul vero sentimento di Cristo prendendo le distanze da quelli che hanno l’animo alle cose della terra e concludendo che “quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove aspettiamo anche il Salvatore, Gesù Cristo, il Signore…” (Filippesi, 3:20). “Perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura.” (Ebrei, 13:14).

Ama lo straniero, come te stesso

Mentre la natura vecchia, che siamo invitati a lasciare, è quella che condividiamo con gli animali, la natura nuova, fatta a immagine e somiglianza di Dio, è veramente umana, nel senso umano del termine.

Gli animali, soprattutto i carnivori, definiscono il loro territorio e lo difendono dai co-specifici, stabilendo rapporti gerarchici molto precisi con quelli di loro con cui lo condividono. Modello etologico che vediamo ripetersi – in modo un po’ imbarazzante, per quanto considerato assolutamente normale – anche tra gli umani con cui ci tocca vivere. Nella chiesa però il modello animale non dovrebbe assolutamente ripetersi (Matteo, 20:25-28). Perché tra i principali comportamenti del “Figlio dell’uomo” che ne è il capo ci sono proprio l’umiltà di cuore,  la mansuetudine, il servizio e l’ospitalità.

Aprire la propria casa a chi viene da lontano e venire incontro alle necessità dell’ospite straniero (che forse non potrà mai ricambiare il nostro servizio) sono comandamenti che troviamo chiaramente espressi sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, e sono la base dell’insegnamento di Dio.

Infatti il Creatore dell’Universo è anche Colui che ci ha accolto nella sua creazione, prendendosi cura di tutti i nostri bisogni. Lo ha fatto ricordare poche volte nella Bibbia, perché, com’è scritto, Dio “dona a tutti generosamente senza rinfacciare” (Giacomo, 1:5).

Ma non per questo vuole che ci dimentichiamo di lui. Parlando delle proprietà terriere ha esplicitamente detto, attraverso Mosè: “la terra è mia e voi state da me come stranieri e ospiti.” (Levitico 25:23b). Allo stesso modo ha insegnato al suo popolo ad essere ospitali e a prendersi amorevole cura degli stranieri che si avvicinavano a loro e volevano vivere con loro. Già nella Legge di Mosè, colui che veniva ad abitare presso il popolo di Israele era infatti da considerare come parte del popolo: “Tratterete lo straniero, che abita fra voi, come chi è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso; poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto. Io sono il SIGNORE vostro Dio.” (Levitico, 19:34).

IL SIGNORE non si è scelto Abraamo come amico per benedire soltanto lui, ma perché nella sua discendenza e in quella di Isacco fossero benedette tutte le nazioni della terra (Genesi, 22:18 e 26:4).

Così quando, parlando dei due primi comandamenti (ama Dio con tutto te stesso, e ama il tuo prossimo come te stesso) un dottore della Legge ha chiesto a Gesù chi fosse il prossimo che doveva amare come se stesso, il Signore gli ha risposto con la parabola del buon samaritano:

“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e si imbattè nei briganti, che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono, lasciando mezzo morto. Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa strada, ma quando e lo vide, passò oltre dal lato opposto. Così pure il levita quando giunse in quel luogo lo vide, passò oltre dal lato opposto. Ma un samaritano, che era in viaggio, giunse presso di lui e, vedendolo, ne ebbe pietà; avvicinatosi, fasciò le sue piaghe versandovi sopra olio e vino, poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno dopo, presi due denari, e disse all’oste e gli disse: prende cura di lui; e tutto ciò che spenderà in più, però rimborserò al mio ritorno. Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che si imbattè nei ladroni? Quegli rispose: colui che gli usò misericordia. Gesù gli disse: va e fa anche tu la stessa cosa.” (Luca, 10:30-37).

Gesù con quella parabola ha mostrato che il punto non è decidere chi sia da considerare nostro amico, ma essere noi gli amici che vorremmo che gli altri fossero per noi (” E come volete che gli uomini facciano a voi, fate voi pure a loro.” Luca, 6:31).

Ama anche il tuo nemico

Gesù parlando di un samaritano che si comporta secondo la legge di Dio (perché fa quello che avrebbero dovuto fare coloro che erano incaricati di dare l’esempio e che invece con le loro azioni hanno dimostrato di non avere nessuna reale fede in Dio), ha messo in chiaro quali siano i termini del giudizio del nostro Dio, che non guarda in faccia nessuno, cioè non bada alle apparenze e neanche alle genealogie, ma guarda al cuore (1Samuele, 16:7).

Per i giudei, i samaritani, oltre che stranieri, erano per lo più anche nemici, e qualsiasi cosa venisse da loro era considerata con sospetto. Se vogliamo seguire Gesù, invece, dobbiamo capire che l’albero si riconosce dal frutto e non viceversa (Matteo, 12:33; Luca, 6:43-44), e dobbiamo anche imparare a non giudicare nemmeno noi dall’apparenza. Che non dobbiamo cioè condannare gli altri dal loro passato, come se questo fosse inamovibile, ma vincere il male, che è rimasto in loro come una cicatrice di tante ferite passate, con il bene che noi oggi riceviamo da Dio (Romani, 12:21).

“Voi avete udito che fu detto: “Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani altrettanto? Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste.” (Matteo, 5:43-47).

Naturalmente, quando parla di amare qui Gesù non sta usando il verbo philèo, ma il verbo agapào (della differenza tra questi due verbi abbiamo trattato a lungo nella prima parte di questa meditazione). Non ci dice cioè di essere amici dei nostri nemici, ma piuttosto ci dice di amarli noi per primi, in modo da aiutarli a diventarci amici.

Nemmeno ci dice, Gesù, di essere amici di tutti. Infatti ci raccomanda di non dare le nostre perle ai maiali che potrebbero rivoltarsi contro di noi (Matteo, 7:6) e di essere prudenti come serpenti (Matteo, 10:16). Non ci dice che tutti saranno amici nostri: al contrario, ci ha predetto che se lo seguiamo ci verranno contro anche quelli di casa nostra (Matteo, 10:36).

Ma ci dice chiaramente di non essere rispondere al male con il male (Matteo, 5:39), cioè di non essere noi litigiosi. “Non rendete a nessuno male per male. Impegnatevi a fare il bene davanti a tutti gli uomini. Se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti gli uomini. Non fate le vostre vendette, miei cari, ma cedete il posto all’ira di Dio; poiché sta scritto: A me la vendetta; io darò la retribuzione, dice il Signore. Anzi, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; poiché, facendo così, tu radunerai dei carboni accesi sul suo capo.  Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene..” (Romani, 12:17-21).

Nella Bibbia ebraica, il Nemico per eccellenza è chiamato ha-Satan (הַשָּׂטָן), da una radice che significa “accusa” e “inimicizia” (la stessa del nome dato al pozzo che Isacco chiamò Sitnah perché per il suo possesso i suoi pastori avevano litigato con i pastori dei filistei, Genesi, 26:21). Il Nemico per eccellenza è la bestia che ha voluto fin dal principio renderci nemici di Dio, e, con le sue bugiarde insinuazioni, ci ha trascinato sulla via della sua stessa ribellione. Non è questo nemico che possiamo amare.  Se seguiamo lui, amiamo l’inimicizia e non potremo quindi amare i nostri nemici. Dobbiamo invece resistergli (“resistere”, “fare opposizione” è peraltro uno dei sensi del suo nome), non credendo alle sue bugie. E lui fuggirà da noi (Giacomo, 4:7).

Al Nemico non importa di noi. Per lui siamo una realtà aliena e un disturbo. Gli interessiamo solo come strumenti e come strumenti dobbiamo essere il più possibile prevedibili, come dei corpi morti. Per il nemico, la nostra libertà è un problema, per questo ci vuole fare prigionieri, con le sue promesse e con i suoi ricatti.

Ma il Signore Gesù è venuto per “distruggere, con la sua morte, colui che aveva il potere sulla morte, cioè il diavolo, e liberare tutti quelli che dal timore della morte erano tenuti schiavi per tutta la loro vita.” (Ebrei, 2:14-15).

Perché Dio non solo fa piovere e splendere il sole sui giusti e sugli ingiusti, ma  lascia tutti liberi di scegliere se stare con lui oppure no. Anche nella Legge era scritto: “Io prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra, che io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, affinché tu viva, tu e la tua discendenza, amando il SIGNORE, il tuo Dio, ubbidendo alla sua voce e tenendoti stretto a lui, poiché egli è la tua vita e colui che prolunga i tuoi giorni.” (Deuteronomio, 30:19-20).

Certamente, se scegliamo la morte, la conseguenza non può essere la vita eterna. Ma la morte non ci è messa davanti come una minaccia, è indicata, semplicemente, come la fine della strada che siamo avvertiti di non prendere.

Allo stesso modo, Gesù ha guarito o sfamato anche coloro che avrebbero usato la loro salute per agire contro (o senza) di lui, ma li ha anche avvertiti che quella via non era la via giusta (cf. per es. Giovanni, 5:14-16; 6:26-58).

Al di là del bene e del male

Come abbiamo già meditato, se veramente cerchiamo Dio prima di ogni altra cosa, non faremo più differenza tra quello che consideriamo un bene e quello che consideriamo un male per noi, perché sapremo che ogni cosa che avviene ci aiuta a conoscere meglio il nostro Amico, anche le sofferenze che ci possono essere inflitte dal prossimo. Per questo veniamo liberati dalle minacce e dai ricatti del Nemico.

Non siamo noi che dobbiamo fare giustizia. Non siamo noi che dobbiamo decidere chi merita e chi non merita di essere aiutato. Il Signore ci dice anzi di usare le cose che non sono in realtà nostre e sulle cose non possiamo vantare nessun reale diritto, come i nostri soldi o il nostro tempo, per farci oggi degli amici che ci ricevano domani, in quanto avremo usato loro misericordia, scontando i debiti che avevano con Dio, e trattandoli meglio di quello che meritavano.

È anche questo il senso della parabola del fattore infedele di cui abbiamo già parlato nell prima parte della meditazione: “E io vi dico: fatevi degli amici con le ricchezze ingiuste; perché quando esse verranno a mancare, quelli vi ricevano nelle dimore eterne.” (Luca, 16:8-9). Vivere con Gesù signifca vivere per la risurrezione.

Gesù ha infatti detto alla sorella sel suo amico Lazzaro, che era morto da quattro giorni: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Giovanni, 11:25).

Il ché non significa che non ci farà male essere feriti. Né, soprattutto, significa che non ci debba importare del bene e del male che accade agli altri. Con la nuova nascita non si diventa insensibili, anzi. Al posto del cuore insensibile che avevamo ci viene dato un cuore capace di sentire i sentimenti degli altri (Ezechiele, 11:19, 36:26). Ma certamente diventiamo meno sensibili a quello che ci tocca direttamente, sia nel bene che nel male (è questo il senso della circoncisione del cuore, di cui è scritto già nella Legge di Mosè, Deuteronomio 10:16 e 30:6).

Così, non vivendola più egoisticamente, la conoscenza del bene e del male può diventare lo strumento per fare del bene a tutti (Galati, 6:10; 1Tessalonicesi, 5:15). E per essere ospitali e di aiuto, anche con chi non conosciamo ancora (“Non dimenticate l’ospitalità; perché alcuni praticandola, senza saperlo, hanno ospitato angeli.” Ebrei 13:2).

Sopratutto, per non dare più tanta importanza ai nostri diritti, pensando prima ai nostri doveri (“Certo è già in ogni modo un vostro difetto che abbiate fra voi dei processi. Perché non patite piuttosto qualche torto? Perché non patite piuttosto qualche danno?” 1Corinzi, 6:7).

Abbiamo ricordato, all’inizio di questa meditazione, la vicinanza tra la radice che significa “nemico” e “distretta” (tsade+resh) e quella che significa “formare” (yod+tsade+resh), riflettendo sul fatto che le esperienze che ci formano di più sono alla fine proprio le difficoltà in cui ci mettono i nostri nemici, e a volte anche gli amici quando ci voltano le spalle.

In realtà in ebraico esiste anche un’altra parola per dire “nemico”, e questa parola è molto vicina proprio a quella che significa “amare” (“nemico” è ‘ayav אָיַב e “amare ‘ahav אָהַב).

Certamente della parola di Dio non bisogna trascurare nanche una yod (Matteo, 5:18). Ma in ebraico la vicinanza tra le lettere con cui sono scritte le parole manifesta una vicinanza tra il significato che intendono veicolare. E in questo caso il senso a cui ci ha portato la Bibbia è proprio quello di un amore che va oltre la nostra distinzione tra amico e nemico: l’amore di Dio che ha mandato Cristo a morire per noi quando gli eravamo ancora nemici (Romani, 5:6-8). E anche l’amore che è giusto che anche noi, come figli e amici di Dio, nutriamo per le persone che ci fanno del danno, non solo perché spesso non sanno quello che fanno, ma anche perché quello che oggi si appare come un danno, in futuro si rivelerà come una benedizione (come nel caso di Giuseppe e dei suoi fratelli, cfr. Genesi, 45:4-8).

Un’altra significativa vicinanza, anzi in questo caso proprio un’identità, è quella tra la parola ebraica che significa “amico” e quella che significa “cattivo”. Infatti rea’ (רֵעַ), la parola di cui abbiamo già parlato e che si usa per “amico”, “prossimo” e anche “coniuge”, si scrive con le stesse identiche lettere della parola che significa “male”: ra’ רַע. 

Anche questa omografia non può essere casuale. Fa piuttosto pensare al fatto, osservato già da Salomone, che “come il ferro si affila con il ferro, così un uomo affila il volto del suo amico”, Proverbi 27:17, dove il verbo che abbiamo tradotto con affilare khadad חָדַד è molto vicino a yakhad יַחַד, che signfica “essere uniti” e “unire”, ed è certamente collegato a ‘ekhad אֶחָד che significa “uno”.

All’inizio, il SIGNORE ha infatti detto: “Non è bene che l’uomo sia solo; io gli farò un aiuto che sia adatto a lui” (Genesi, 2:18; letteralmente il testo dice: “un aiuto che gli stia di fronte”, un aiuto con cui, cioè, possa confrontarsi). E il testo conclude “Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una stessa carne [lebasar ‘ekhad לְבָשָׂר אֶחָֽד]”.

Paolo commenta questo passo esclamando: “Questo mistero è grande; dico questo riguardo a Cristo e alla Chiesa. Ma d’altronde, anche fra di voi, ciascuno individualmente ami sua moglie, come ama se stesso; e altresì la moglie tema il marito.” (Efesini, 5:32-33).

Perché questa è la famiglia di Cristo, una famiglia formata da varie famiglie, come un corpo è formato da diversi organi, gli organi da diversi tessuti e i tessuti da diverse popolazioni di cellule. “Da lui tutto il corpo ben collegato e ben connesso mediante l’aiuto fornito da tutte le giunture, trae il proprio sviluppo nella misura del vigore di ogni singola parte, per edificare se stesso nell’amore.” (Efesini 4:16).

Ma questa armonia ha anche un suo prezzo, che occorre essere disposti a pagare. Come dice anche Paolo, che si dichiara lieto di soffrire per i suoi fratelli e scrive che quel che manca alle afflizioni di Cristo è disposto a compierlo nella sua carne, a favore del corpo di Cristo, che è la Chiesa (Colossesi 1:4).

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