Seconda parola: non adorare le immagini

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Esodo, 20:4-6 Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il SIGNORE, il tuo Dio, sono un Dio geloso; punisco l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà, fino alla millesima generazione, verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.

La maggior parte delle dieci parole sono comandamenti negativi, si tratta di cose che bisogna evitare o smettere di fare. Il popolo di Israele era stato portato fuori dall’Egitto, dove per secoli era rimasto esposto all’esempio e all’influenza di una cultura pagana e idolatra. Anche noi credenti che ascoltiamo la parola di Dio siamo stati portati fuori dal nostro personale Egitto e, prima di poter iniziare a fare delle cose nuove nella nuova terra promessa in cielo (e anche in questa terra, grazie all’anticipo dello Spirito Santo), dobbiamo smettere di fare le cose che facevamo prima, dato che quelle cose sono espressamente incompatibili con le cose nuove che possiamo fare entrando nella volontà di Dio. “Perché la carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; sono cose opposte tra loro, di modo che non potete fare ciò che vorreste” (Galati, 5:17).

Nell’elenco delle cose che la nostra carne tende a fare quando è lasciata a se stessa, tra le prime che Paolo menziona ci sono la fornicazione e l’idolatria (Galati, 5:19-20), due peccati tra loro strettamente collegati, da cui mettono in guardia le prime due parole. “Avere altre dèi davanti al SIGNORE”, è infatti ciò che in molti libri della Bibbia è chiamato metaforicamente “prostituirsi” (cf. per es Esodo 34:15-16). Adorare e servire la creatura invece del Creatore (per usare l’espressione di Paolo in Romani, 1:25) è una forma di impurità spirituale che assomiglia alla fornicazione, perché consiste nella scelta di un piacere (o di un vantaggio) materiale, a discapito della fedeltà che è costitutiva di un rapporto personale. Il SIGNORE è Colui che rimane sempre lo stesso, “il Dio fedele” (Deuteronomio, 7:9) che non cambia mai ed è per questo nascosto alla nostra vista materiale. Le cose che si vedono e che attraggono il nostro sguardo, dando – o, piuttosto, promettendo – soddisfazione ai nostri sensi, sono invece necessariamente solo per un tempo (2Corinzi, 4:18). Se scegliamo di dare importanza a ciò che appare, non possiamo contemporaneamente dare importanza a Colui che rimane veramente stabile e che per questo non si può vedere, il Dio fedele che può essere conosciuto solo per fede. È la stessa scelta di cui parla Gesù quando ci dice che “nessun domestico può servire due padroni; perché o odierà l’uno e amerà l’altro, o avrà riguardo per l’uno e avrà disprezzo per l’altro. Voi non potete servire Dio e Mammona” (Luca, 16:13). Mammonàs μαμωνᾶς  è una parola greca traslitterata dall’aramaico (alcuni ipotizzano venga dall’ebraico matmown מַטְמוֹן), che significa “mucchio, tesoro”: la ricchezza che possiamo vedere e mostrare agli altri, il potere che possiamo avere (o credere di avere) per organizzare la nostra vita come vogliamo noi. Le ricchezze ci appaiono come qualcosa di stabile e concreto, ma sono invece la cosa più effimera e volatile che esista. “Non ti affannare per diventar ricco, smetti dall’applicarvi la tua intelligenza. Vuoi fissare lo sguardo su ciò che scompare? Poiché la ricchezza si fa delle ali, come l’aquila che vola verso il cielo.” (Proverbi, 23:4-5). L’avidità di queste ricchezze visibili è la forma generale dell’idolatria (Colossesi, 3:5), e la radice di ogni specie di male (1Timoteo, 6:10).

Confidare nelle ricchezze visibili è esattamente l’opposto della fede che Dio considera giustizia. Infatti è scritto che per mezzo di questa fede “comprendiamo che i mondi sono stati formati dalla parola di Dio; così le cose che si vedono non sono state tratte da cose apparenti” (Ebrei, 11:3). Se ci appoggiamo solo su ciò che si vede, necessariamente rintracceremo l’origine delle cose in qualche aspetto della vita materiale, facendo di questi elementi i nostri dèi.

Quando scrive che noi credenti “camminiamo per fede e non per visione” (2 Corinzi 5:7), Paolo usa il termine greco eidos (εἶδος), che in greco si riferisce alla forma essenziale delle cose visibili. Fissando il nostro sguardo su ciò che si vede, possiamo a volte cogliere qualche struttura più stabile; queste figure, però, per quanto più simmetriche di quelle da cui emergono, non manifestano la vera immagine di Dio. Si tratta piuttosto di immagini che ci facciamo noi, conferendo un’apparenza di stabilità e di vita a ciò che non ne ha davvero, perché basta guardare da un altro punto di vista, o un’altra dimensione perché ciò che sembrava stabile riveli la sua instabilità.

I termini che vengono usati nel testo originale di questo comandamento sono pesel פֶּסֶל e temunah תְּמוּנָה, ben diversi da quelli usati nel testo del primo capitolo della Genesi (1:26), dove Dio si propone di fare l’uomo a sua “immagine” (tzelem צֶלֶם, che c’entra con l’ombra) e “somiglianza” (dmuth דְּמוּת che ha a che fare con il sangue). Mentre quei termini esprimono un rapporto diretto tra l’uomo e Dio, come di filiazione ( (in Genesi 5:3, gli stessi termini sono infatti usati per descrivere il rapporto tra Adamo e suo figlio Set), quelli per le immagini da non farsi si riferiscono al taglio della materia (pasal פָּסַל significa “incidere, tagliare”), alla ricerca di una somiglianza esteriore (temunah viene da miyn מִין che vuole dire anche “specie”). L’immagine prodotta dall’uomo funziona grazie a un’illusione che dipende da una separazione dalla realtà che ci fa immaginare una generazione dove non c’è stata, e che inoltre normalmente nasconde il modo in cui l’illusione è stata prodotta.

Guardando la volta celeste o la forma delle nuvole, i rami o le foglie di un albero, i rilievi delle rocce o le rugosità di un muro, il fluire della corrente o l’ondeggiare delle alghe, forme che persistono nel tempo possono apparire al nostro sguardo e assomigliare a volti o a figure di uomini o di animali (fenomeno percettivo che va sotto il nome scientifico di pareidolia).

Frutto dell’ispirazione (artistica o religiosa), le figure prodotte dall’uomo per rappresentare queste “apparizioni” sono state normalmente oggetto di devozione o di culto presso tutti i popoli della terra, come se in esse si potesse scoprire o riassumere l’essenza delle cose che vi appaiono. Queste immagini sono state infatti spesso considerate manifestazioni di quegli “altri dèi” che il SIGNORE ha detto a Israele di non avere davanti a lui. Comandamento che ripeterà ancora molte volte, attraverso Mosè e altri suoi profeti. “Siccome non vedeste nessuna figura il giorno che il SIGNORE vi parlò in Oreb dal fuoco, badate bene a voi stessi, affinché non vi corrompiate e non vi facciate qualche scultura, la rappresentazione di qualche idolo, la figura di un uomo o di una donna, la figura di uno degli animali della terra, la figura di un uccello che vola nei cieli, la figura di una bestia che striscia sul suolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra; e anche affinché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto l’esercito celeste, tu non ti senta attratto a prostrarti davanti a quelle cose e a offrire loro un culto, perché quelle sono le cose che il SIGNORE, il tuo Dio, ha lasciato per tutti i popoli che sono sotto tutti i cieli. Quanto a voi il SIGNORE vi ha presi, vi ha fatti uscire dalla fornace di ferro, dall’Egitto, per farvi diventare il popolo che gli appartiene, come oggi difatti siete” (Deuteronomio, 4:15-20).

Abbiamo già visto che il rapporto che Dio vuole stabilire con il suo popolo è un rapporto personale, basato sulla reciproca fiducia. Il nome profetico di Cristo è Emmanuele, “Dio con noi” (Isaia, 7:14; Matteo, 1:21-23), dove la preposizione “con” è ‘im עִם, non be בְּ, ed esprime compagnia, non locazione o strumentalità (sono le stesse lettere che formano la parola ‘am עַם, che significa “popolo”). Il rapporto che il SIGNORE ci offre è un rapporto d’amicizia, il rapporto che si rinsalda guardandosi in faccia. “Il mio cuore mi dice da parte tua: Cercate il mio volto! Io cerco il tuo volto, o SIGNORE” (Salmi, 27:8). Questo è il desiderio di Dio per noi: che anche noi lo desideriamo, e non per quello che ci può dare, ma per conoscerlo e cibarci del suo amore per noi.

Alla fine dell’ultima lettera dello Spirito di Dio alle sette chiese dell’Apocalisse è scritto: “Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me. Chi vince lo farò sedere presso di me sul mio trono, come anch’io ho vinto e mi sono seduto con il Padre mio sul suo trono.” (Apocalisse, 3:20-21).

Se non accettiamo questo invito ad avere un rapporto personale con il SIGNORE, finiremo per accomodarci al rapporto superficiale che questo mondo offre al nostro egoismo, per darci l’illusione di vivere, mentre in realtà partecipiamo solo della sua morte e della rete del suo sfruttamento. Le figure che appaiono nel mondo attorno a noi possono avere dei volti, ma non ci guardano mai veramente negli occhi. Non gli interessa di noi e non desiderano che noi conosciamo quello che hanno in mente. Gli idoli che ce ne possiamo fare (e che vi si sostituiscono a pieno diritto) “hanno bocca e non parlano; hanno occhi e non vedono; hanno orecchi e non odono
e non hanno respiro alcuno nella loro bocca.” (Salmi, 135:16-17). Queste figure hanno solo un’apparenza di vita, sono in realtà cose morte che ci portano alla morte spirituale, perché rispondono alla nostra volontà di rimanere da soli, cioè di non stabilire nessun vero rapporto personale, né con Dio, né con il nostro prossimo.

Gli idoli, le immagini che oggi la tecnologia ha imparato a moltiplicare illimitatamente, ci chiamano come sirene, attirandoci con la loro promessa di stabilità e la loro illusione di immortalità. Ma quello che ci attira innanzitutto è il nostro desiderio di non dover rendere conto delle nostre azioni né al nostro Dio, né al nostro prossimo, di essere cioè padroni di fare quello che vogliamo. Il desiderio di starcene da soli con qualcosa che non ci impegna e non limita la nostra vita. Anche per questo l’idolatria è assomigliata alla fornicazione, cioè allo sfruttamento (o, reciprocamente, alla vendita) del corpo umano per il proprio piacere (e per il proprio guadagno). In molti passi delle Scritture il rapporto di amicizia e di amore che il SIGNORE offre al suo popolo è invece illustrato dal rapporto matrimoniale. Per questo il SIGNORE chiama se stresso “il Geloso” (Esodo, 34:14).

Mosè aveva incontrato il Dio vivente, lo aveva ascoltato e gli aveva creduto. L’aveva ubbidito e attraverso la sua ubbidienza aveva portato il suo popolo fuori dalla casa di schiavitù. Prostrandoci davanti a una scultura o a un’immagine che ci siamo fatti noi con le nostre mani o con la nostra immaginazione stiamo personificando un oggetto. Diamo vita a ciò che non ne ha. Ma la vita che diamo alle cose non è in realtà nostra. La vita è Dio che ce l’ha data, soffiando il suo alito vitale su una creatura di fango. Analogamente a quanto ha fatto Dio, anche noi uomini possiamo cercare di dare vita alle cose inanimate. Ma mentre la vita infinita di Dio ha prodotto vera vita in noi, la nostra vita comunque limitata può produrre solo “dèi di legno e di pietra, che non vedono, non odono, non mangiano e non annusano” (Deuteronomio 4:28).

Anche se oggi l’uomo è riuscito a costruire manufatti molto più complessi e intelligenti degli idoli di una volta, nessuno dei nostri manufatti è dotato di vita e tanto meno di una coscienza. Solo Dio è il Creatore, solo lui è il Dio vivente e perfettamente coerente con se stesso. Solo lui può dare (e togliere) la vita e la coscienza. Chi vuole usurpare la posizione di Dio, mettendosi al suo posto (o mettendoci qualcun altro), pecca più o meno volontariamente contro la verità.

“L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia degli uomini che soffocano la verità con l’ingiustizia; poiché quel che si può conoscere di Dio è manifesto in loro, avendolo Dio manifestato loro; infatti le sue qualità invisibili, la sua eterna potenza e divinità, si vedono chiaramente fin dalla creazione del mondo, essendo percepite per mezzo delle opere sue; perciò essi sono inescusabili, perché, pur avendo conosciuto Dio, non l’hanno glorificato come Dio, né l’hanno ringraziato; ma si sono dati a vani ragionamenti e il loro cuore privo d’intelligenza si è ottenebrato. Benché si dichiarino sapienti, sono diventati stolti, e hanno mutato la gloria del Dio incorruttibile in immagini simili a quelle dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. Per questo Dio li ha abbandonati all’impurità, secondo i desideri dei loro cuori, in modo da disonorare fra di loro i loro corpi; essi, che hanno mutato la verità di Dio in menzogna e hanno adorato e servito la creatura invece del Creatore, che è benedetto in eterno. Amen.” (Romani 1:18-23).

Abraamo ha creduto alla parola di Dio e per questo Dio lo ha considerato giusto (Genesi, 15:6). Per questo Dio ha benedetto lui e la sua discendenza. Il popolo di Israele assieme ad altri popoli semiti gode tuttora della benedizione di Dio (perché, fossero pure stati tutti infedeli da allora in poi, oggi non sono ancora passate mille generazioni…), ma lo stesso Dio che ha promesso di benedire Abraamo, benedice anche tutti coloro che, come Abraamo, gli credono prima di avere visto il compimento delle sue parole (“Ora la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono” Ebrei, 11:1). Difatti sia a lui che a suo figlio Isacco, Dio non solo ha promesso benedizioni per loro e per la loro discendenza, ma anche per tutti coloro che avrebbero creduto attraverso di loro, generazione dopo generazione. “Moltiplicherò la tua discendenza come le stelle del cielo e darò alla tua discendenza tutti questi paesi; tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché Abraamo ubbidì alla mia voce e osservò quello che gli avevo ordinato: i miei comandamenti, i miei statuti e le mie leggi” (Genesi 26:4-5).

Isacco ha generato Giacobbe che è diventato Israele. A Israele Dio ha confermato le sue promesse dicendo “… tu, Israele, mio servo, Giacobbe che io ho scelto, discendenza di Abraamo, l’amico mio, tu che ho preso dalle estremità della terra, che ho chiamato dalle parti più remote di essa, a cui ho detto: Tu sei il mio servo, ti ho scelto e non ti ho rigettato” (Isaia, 41:8-9).

Queste dieci parole che stiamo leggendo non sono quindi solo per i discendenti cromosomici di Abraamo, di Isacco e di Giacobbe, ma per tutti coloro che Dio ha chiamato – da tutte le estremità della terra – a formare il suo popolo Israele nel suo Cristo e figlio unigenito Gesù, che è nato nella tribù di Giuda, discendente di Abramo, Isacco e Giacobbe, ma che ha indicato i suoi veri parenti in tutti quelli che desiderano ubbidire al Padre: “Chiunque avrà fatto la volontà di Dio, mi è fratello, sorella e madre” (Marco, 3:35).

Torniamo, per concludere, sui due verbi che il testo usa per distinguere i soggetti dei due diversi destini, del peccato che non rimarrà impunito fino alla terza generazione e della benignità che verrà usata fino alla millesima. Amare e odiare nelle lingue moderne hanno preso dei significati che coinvolgono forti passioni. Da quello che ci fa capire il contesto del loro uso, nelle lingue della Bibbia questi due verbi hanno invece un senso più preciso e spirituale, che ha a che fare con le nostre scelte, o preferenze.

In Genesi è scritto che Giacobbe amò Rachele più di Lea, e che “il SIGNORE vide che Lea era odiata” (29:31a). Ora, sappiamo che Giacobbe non odiava Lea nel senso di non poterla vedere o pensare a come ucciderla, ma piuttosto nel senso che, come è peraltro scritto, “amava di più Rachele” (Genesi, 29:30). Nello stesso senso, Gesù ha dichiarato che dobbiamo odiare i nostri cari: “Se uno viene a me e non odia suo padre, e sua madre, e la moglie, e i fratelli, e le sorelle, e finanche la sua propria vita, non può esser mio discepolo” (Luca. 14:26).

L’uso biblico dei verbi “amare” e “odiare” significa insomma che, come abbiamo ricordato anche prima parlando della scelta tra Dio e Mammona, l’uomo, anche se a volte non vorrebbe, di fronte a Dio si trova a dover prendere posizione.

Così, anche per “odiare Dio” non occorre essergli attivamente ostili, basta preferire alla vita con lui la solitudine delle immagini e dei tesori che esse rappresentano e ci fanno sognare.

3 Comments

  1. […] Per questo ci conviene odiarlo, per cercare Dio. “Nessun domestico può servire due padroni; perché o odierà l’uno e amerà l’altro, o avrà riguardo per l’uno e disprezzo per l’altro. Voi non potete servire Dio e Mammona”. (Luca 16:13). Nessuno può servire Dio e il Capitale (il nome moderno di quel dio che Gesù chiamava mammonah, da una parola aramaica che significava probabilmente “mucchio”, come abbiamo già detto parlando della seconda parola). […]

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